Visualizzazione post con etichetta attualità [editoriali - mie opinioni]. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta attualità [editoriali - mie opinioni]. Mostra tutti i post

giovedì 13 settembre 2012

L'AiFon Faiv


Da una settimana ho 25 anni, e mi sento vecchio. 

Non davvero, sia chiaro. Ma c'è un piccolo, ma non indifferente particolare, che questa mattina mi ha reso vecchio. Non fisicamente, ma moralmente. Io non so nulla dell'Iphone 5.

Vorrei spacciare per verità una bugia, ed andare fiero della mia ignoranza. Vorrei dire: «io non so nulla dell'Iphone 5, perché è simbolo della follia capitalista, perché… com'era quel detto? “Ciò che possiedi, ti possiede”. Ma va, che spreco di denaro, poi io il telefono lo uso solo per scrivere qualche sms, ogni tanto». Ma mentirei, la verità è un'altra.

Io non so nulla di Iphone5, perché io vorrei un Iphone 5, ma non posso permettermelo. Ecco, l'ho scritto. Me ne vergogno, ma ci sono cascato pure io. Potrei fingermi snob, superiore a tutti, guardare con disprezzo chi ha l'iphone. Ma la verità è che io non provo disprezzo, provo invidia.

Steve Jobs, pace all'anima sua, è riuscito ad ammanettarci tutti. Quella mela morsicata è la mela proibita, che ti promette l'Eden fra i mortali, e ti distrae dal vero senso dell'esistenza. Perché da questa mattina nessuno vuole davvero la pace nel mondo, tutti vogliono l'iphone 5. (d.e.)

venerdì 16 dicembre 2011

Pogrom moderni: gli Italiani sono razzisti? Ed i Trentini?

Mio articolo pubblicato qui: http://www.larotaliana.it/home/i-commenti/item/1475-pogrom-moderni-gli-italiani-sono-razzisti?-ed-i-trentini?.html


Trento - Pensavo di iniziare questo articolo con una premessa: gli storici sono indispensabili alla società; gli storici permettono di comprendere meglio sia il passato, sia il presente. Sarebbe stato contento l'amico Andrea, che su queste pagine (e non solo) scrive proprio di storia. Ma qualcuno, che si è avventurato sulle nostre modeste biografie nella pagina della Redazione, si sarebbe accorto che anch'io sono ormai prossimo alla laurea in storia, e sarebbe così crollato tutto il palco, e si sarebbe compreso che non posso essere del tutto oggettivo.

CAUSE PERSE - Ed allora al diavolo il cappello introduttivo; non diamo a tutti gli storici l'onore di essere esaltati in un articolo de laRotaliana.it. Lasciate però che vi consigli un libro, che, da solo, vale ben più di ogni parola che potrei spendere in questo senso. Sto parlando di Cause Perse, un diario civile, di Adriano Prosperi, uscito lo scorso anno (2010) per Einaudi.

LO STORICO - Adriano Prosperi è professore ordinario di Storia moderna alla Scuola Normale di Pisa; ha scritto Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Einaudi, 1996), forse uno dei libri più belli della storiografia contemporanea. A lui si devono degli studi fondamentali sul mondo degli eretici e l'inquisizione, sulla Riforma, sulla Controriforma, sulla cultura in età moderna, sullo stesso Concilio di Trento. Prosperi è insomma un uomo d'alta dignità accademica, apprezzato in tutto il mondo per le sue qualità intellettuali.

IL TESTIMONE - Ma Prosperi non è rimasto confinato sulla cattedra universitaria; in parte grazie al suo carisma e le sue capacità di scrittore, in parte anche grazie all'intuito di chi lo ha ospitato, lo storico ha smesso di scrivere soltanto del passato, ed ha iniziato a riflettere anche sul presente. Cause Perse è proprio questo: la raccolta di una serie di editoriali che l'autore ha pubblicato sul quotidianoLa Repubblica, e che trattano di argomenti di attualità, commentati con lo sguardo dello studioso.

ITALIANI RAZZISTI - Come sottolinea Giuseppe Marcocci nella postfazione al libro, il vero impegno civile del testimone Prosperi nasce da una domanda, fondamentale, che non può evitare di porsi: «Come e perché gli italiani sono diventati razzisti?». L'interrogativo parte dalla cronaca, da quel giorno del maggio 2008 in cui si diffuse la notizia che una giovane donna rom avrebbe tentato di rapire una bambina di sei mesi; gli abitanti del quartiere Ponticelli a Napoli appiccarono il fuoco alle baracche del vicino campo. La notizia di allora è in questi giorni tornata tristemente di grande attualità. Da una parte per il folle omicida Gianluca Casseri, il militante di destra che martedì scorso (13 dicembre), a Firenze, ha aperto il fuoco contro i senegalesi, uccidendone due e ferendone altri tre. Dall'altra per quanto è avvenuto a Torino, dove una ragazzina di sedici anni che ha perso la verginità in un rapporto consensuale con il suo ragazzo, ha pensato di rimediare alla sua “onta” accusando di stupro degli zingari romeni. Accusa inventata, ma che, come era avvenuto nel 2008 a Ponticelli, ha portato una folla di circa 500 persone a bruciare le baracche del vicino campo. A quanto scrive il Corriere, quando i Vigili del Fuoco hanno cercato d'intervenire, i manifestanti si sono intromessi, urlando che gli zingari dovevano bruciare.

POGROM MODERNO – La definizione che meglio si addice a fenomeni di questo genere, secondo Prosperi, è quella di “pogrom moderno”. «Da oggi», scriveva Prosperi all'indomani di quanto accaduto a Napoli, «la parola “pogrom” ha cessato di indicare solo tragedie di altri tempi e di altri popoli per diventare la definizione di atti compiuti da folle di italiani». Leggendo quanto Prosperi scrive, riusciamo a tracciare un'inquietante similitudine su quanto avveniva in un passato che ci sembra fieramente lontano, e la realtà di ciò che ancor oggi leggiamo sui giornali. «Ci sono altre storie», continua Prosperi «che hanno un sapore tristemente familiare: quella del bambino rom che non vuole più andare a scuola perché i compagni lo escludono dal gruppo e dicono che è sporco, che puzza. Anche per gli ebrei dei secoli scorsi si diceva che fossero sporchi e riconoscibili dall'odore; ma lo dicevano coloro che prima li avevano chiusi negli spazi stretti e senza acqua dei ghetti».

TRENTINI RAZZISTI – Anche Trento ha la sua triste tradizione di antisemitismo. Il caso più celebre è quello del piccolo Simone, che sin dalla prima età moderna e fino al 1965 era venerato come beato. La credenza popolare, sostenuta dall'allora vescovo Johannes Hinderbach, voleva che il fanciullo fosse stato ucciso dalla comunità ebraica locale. Gli Ebrei trentini furono torturati, costretti alla confessione e poi uccisi. Il Simonino fu chiamato Santo, e gli si attribuirono anche dei miracoli. Ma ora che finalmente il culto del Simonino è stato decanonizzato, e che anche Trento sembra aver richiuso certe ignoranze popolari nello scrigno del passato, nella nostra città si è definitivamente sconfitta la xenofobia?
In un articolo per QT di qualche anno fa, e che ancora si può leggere in internet, Mattia Pelli rifletteva sulla notizia dell'arresto di due nomadi, la cui “gravissima” colpa era stata quella di aggirarsi «con fare sospetto» nell'area Ex Zuffo. Sul percorso della ferrovia Trento-Malè-Marileva, la famosa “vaca nonesa”, la fermata di Lamar è proprio vicino ad un campo nomadi; nel corso dei miei viaggi mi è capitato spesso di sentire commenti, da parte di giovani ragazzi o di distinte vecchine, che poco si discostano da quelli dei manifestanti di Torino.

Questi, piccoli indizi presi dal mucchio, sono davvero segnali d'allarme? C'è davvero il pericolo che anche Trento si risvegli, un giorno, infestata dal fumo di un “pogrom moderno”?

lunedì 5 dicembre 2011

La manovra «Salva-Italia»: qualche osservazione

L'Italia è a rischio default. Significa, in pratica, che lo stato in cui viviamo rischia di non poter più reggere dal punto di vista finanziario. Se l'Italia entra in default, trascina ancor più nel baratro della crisi anche l'Europa. L'euro perde valore, l'euro cessa di esistere. Diventa carta straccia, forse non davvero buona solo per accendere il fuoco, perché la potremmo ancora almeno convertire nelle nostre lire. «Che bello, è tornata la lira! È crollata l'Europa!». Probabilmente qualcuno che ieri, nel parlamento della Padania, urlava forte per la secessione, gioirebbe per il crollo dell'Europa e la rinascita dei piccoli stati nazionali (quelli storici, o quelli inventati, a loro poco importa). La realtà è che se l'Europa Unita scomparisse, perderemmo ogni forza politica, e quindi ancor più economica. Saremmo alla mercé di quei conquistadores che, già, nel Vecchio Continente stanno inserendosi per succhiarne la linfa.

Si potrebbe ragionare sul sistema, e di come in realtà siano stati globalizzazione e capitalismo a trascinarci sino a questo punto. È bello – almeno per diversificare il dibattito culturale – che qualche intellettuale, più o meno d'ispirazione marxiana, e più o meno utopista, ancora sia fiero di pensare in questi termini. È uscito proprio quest'anno il nuovo libro dello storico Eric J. Hobsbawm, che ammetto di non aver ancora letto, ma il cui titolo mi sembra comunque già significativo: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo. È giusta la via suggerita da Hobsbawm, o si tratta soltanto di un percorso fra l'utopia e l'anacronismo? Dovrei leggere quel libro, come da tempo vorrei fare, per poter esprimere la mia opinione.

Per ora mi accontento, quindi, di vedere come stanno le cose, in Italia. Mario Monti si è trovato a prendere le redini di un cavallo già imbizzarrito, tentando di riportarlo al trotto, al costo di rimetterne in prestigio personale. È chiaro che chiunque si veda una mano calata nelle tasche, reagirà con una certa stizza. E più aumenta la povertà, più aumenta anche l'indignazione, diventa vero odio. Per questo serviva un tecnico, non un politico: il politico di professione è ormai ossessionato dalla necessità di dover guadagnare altri voti (al costo di corteggiare un Scilipoti di turno), non può rischiare di perderne con misure impopolari. Un tecnico può accettare anche di essere odiato; un politico, se odiato, s'inventa che è la “parte sbagliata del paese” ad odiarlo, mentre quella vera ancora lo ama. Un ossessione che, oggettivamente, al Paese ha fatto molto male.

La realtà è che comunque la gente non riesce più a sopportare di sentirsi vittima del sistema. Quando qualcuno, dall'alto, aveva promesso demagogicamente di togliere l'Ici, era alla fine risultato il più votato alle elezioni. Il provvedimento non poteva reggere alla realtà dell'economia prossima alla crisi, dove anche i soldi dell'imposta sulla casa erano un minimo di ossigeno in un paese già ammalato, o quanto meno prossimo alla malattia. Togliere un'imposta è facile, e, come detto, porta voti. Quando ti accorgi di pagare meno tasse, allora è difficile che fai caso ai tagli che vengono fatti altrove, magari alla sicurezza, alla salute, alla cultura.

Togliere tasse è facile, dicevo, rimetterle diventa un'impresa. Sono abbastanza convinto che nel 2013 le elezioni verranno vinte da quei politici che prometteranno misure economiche più eque. Una nuova forma di democrazia, che non punta più sulla possibilità che ognuno possa essere rappresentato, ma che ognuno paghi il giusto, e che non vi sia uno spietato sistema oligarchico, in cui a pagare siano sempre gli stessi. In questo senso, Mario Monti ha avuto il merito e l'intelligenza di alcuni passi in avanti. La misura simbolica di rinunciare al proprio stipendio. Quella significativa di tassare beni di lusso, come yacht o aeromobili.

La misura mi è parsa, quindi, come minimo un passo in avanti in alcuni aspetti. Ma rimangono i punti che mi hanno lasciato perplesso. Non sono un economista, non ho nemmeno il barlume delle conoscenze accademiche del professor Monti, ma vorrei che qualcuno mi spiegasse davvero il senso di un aumento dell'Iva al 23% (anche se a partire dal settembre prossimo). Con l'aumento dei prezzi, indistinto ed acritico, non si riducono anche i consumi? Non si peggiora, così, anche la crisi economica, colpendo soprattutto le piccole aziende, ed i singoli acquirenti?  

sabato 12 novembre 2011

Berlusconi dimesso: la Storia agli occhi dei giovani

Oggi è una giornata storica. Non è mia intenzioni dare valutazioni politiche, né scrivere bugie su quello che sarà il domani. Un domani difficile, di un paese che, anche senza Berlusconi, è sull'orlo della bancarotta. Ma è indubbio che il 12 novembre del 2011 entrerà nei libri di storia.



Dicevo: non voglio dare giudizi – almeno su queste pagine – sul significato politico dell'addio di Berlusconi. Commenti, editoriali, valutazioni più o meno oggettive le leggeremo domani sui giornali, le troviamo già ora su Twitter o negli speciali di Ballarò o La7, le sentiremo per giorni nei bar e sugli autobus. Voglio solo riflettere sul significato emotivo dell'uscita di scena di un personaggio che, sul tetto d'Italia, ha vissuto per quasi diciotto anni.

Noi giovani abbiamo imparato ad avere ricordi sbiaditi della Storia italiana. Un'immagine che ci arriva dai libri e, per gli episodi recenti, dai racconti dei nostri genitori. Noi che eravamo piccoli quando Craxi veniva bersagliato di monetine fuori dall'hotel Raphael, noi che al Parlamento abbiamo sempre visto le stesse facce, alternate a qualche volto nuovo, piombato dal nulla, ma con le stesse idee dei gerarchi di governo ed opposizione. Certo, noi giovani non siamo così sconsiderati dal credere che con Berlusconi scomparirà d'improvviso la vecchia politica, quell'odioso sistema di casta che ben conosciamo. Ma, vedendo questa sera la Storia camminare su un colle di Roma, anche noi ci siamo resi conto di una fantastica verità: nulla è eterno, e tutto può cambiare. Non è la soluzione, ma un buon punto di partenza per il nostro futuro.

lunedì 13 giugno 2011

I Referendum e la sconfitta del demagogo

Tutto maggio, e questa prima porzione di giugno, ho faticato a trovare il tempo per coltivare quel mio modesto piacere che questo blog rappresenta. I motivi sono i soliti: impegni universitari, a cui si alternano alcune soddisfazioni personali.
Ma ora, seppure con degli esami molto complicati alle porte, non posso evitare di esprimere i miei pensieri su quanto sta avvenendo nel mio Paese.

*

Quando ero molto giovane, ai tempi delle elementari, non capivo bene cosa fosse il Referendum. Avevo più coscienza di cosa fosse il nucleare, se non altro perché nel mio paese, ogni anno, venivano dei ragazzini bielorussi, ospitati per respirare aria pulita, e purificarsi dalle radazioni respirate dopo Černobyl’. Ebbene: l’idea che questi vispi coetanei fossero costretti a venire da noi per avere un’aria pura, che permettesse loro di vivere meglio, mi inquietava e continua ad inquietare oggi. Il nucleare per me era il male assoluto, stigmatizzato anche dalle pagine che avevo letto su Hiroshima e Nagasaki; uno dei classici, incomprensibili, parti di malvagità degli adulti. Ma, come una luce di speranza, come un lieto fine in una fiaba cupa, ecco che la spada del Bene aveva trionfato sul Male. Grazie a questo strumento strano, che gli adulti chiamavano Referendum, la paura di un disastro nucleare sembrava (almeno un poco) più lontana: ero così fiero della scritta COMUNE DENUCLEARIZZATO sotto al cartello del mio paese.

*

Sono cresciuto, ma non ho cambiato la mia idea. Ho qualche coscienza in più, ora so che cos’è il Referendum, e delle centrali nucleari so anche il pericolo rappresentato non solo dalla loro esistenza, ma anche dalle scorie che producono. So che un’energia pulita, ben più efficace di quelle ora conosciute, è possibile, ma solo con un sostegno alla ricerca. Ogni grande momento di progresso nella Storia, leggasi pure ogni ‘rivoluzione industriale’, si è accompagnata ad un cambiamento della fonte di energia. Puntare oggi su una fonte vecchia e pericolosa, avrebbe favorito soltanto chi su questa fonte può lucrare. Un anacronismo, che anche una visione conscia dell'attualità - con Giappone, Germania ed altre nazioni che si avviano ad una de-nuclearizzazione sempre maggiore - può suffragare. È così deprimente che, per render legge un NO AL NUCLEARE, che dovrebbe essere fondamento della storia umana contemporanea, serva ancora un Referendum. È così esaltante che ancora una volta, come a fine anni Ottanta, il popolo italiano si ritrovi, per una volta, UNITO. In un NO AL NUCLEARE, enorme come il quorum fieramente raggiunto.

*

Ma sarebbe stupido commentare un Referendum dimenticando che, appena due settimane fa, ci sono state altre elezioni, che hanno visto una sconfitta generalizzata dei candidati del centro-destra. L'attuale maggioranza parlamentare ha fatto i conti con un'altra maggioranza, quella fatta non di poltroncine romane e sterili polemiche in salotti televisivi, ma di persone che, unite, hanno urlato la loro stanchezza. Il governo, che si arrocca su quelle stesse poltrone, aggrappandosi agli specchi con unghie di mani e piedi, attraverso questi Referendum ha ancora prova di quanto il popolo italiano sia stanco. Berlusconi, ormai privo di ogni contatto con la realtà, aveva chiesto di NON votare. Gli italiani hanno votato. Anche contro quel suo scudo, così personalmente voluto (e che tanto tempo ha rubato agli affari di governo), che gli permetteva di proteggersi con la scusa del legittimo impedimento.
Sarebbe sbagliato leggere il Referendum di questi giorni come un Referendum PRO o CONTRO Berlusconi. Ma trovo pienamente sensato scrivere che Berlusconi, a distanza di poche settimane, ha avuto prova della disaffezione anche dei suoi stessi elettori. È la morte della sua arma più forte, un ribaltamento della demagogia, la sconfitta del suo carisma. Berlusconi è sconfitto, Berlusconi è finito. Anche se cercherà di legarsi al suo ruolo per tutti gli anni che è possibile, ormai è solo l'ultima scoria del passato. E noi siamo quasi come quei bambini bielorussi, abbiamo così tanto bisogno, finalmente, di aria pulita.

venerdì 29 aprile 2011

Royal Wedding

Esattamente una settimana fa, una giornalista mi chiese cosa ne pensavo del matrimonio reale (quello fra William e Kate), e quanto ne fossi informato. Parafrasando, le dissi che non me ne poteva fregare di meno. Secondo la mia proverbiale coerenza, ad oggi - che è arrivato il grande giorno - ho cambiato idea. Non del tutto, ma in parte.

Il punto è questo. Ho pensato alla citazione di Sciascia che fa Paolo Prodi, in uno dei primi libri* che ho studiato nella mia carriera universitaria: "La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?" (L. SCIASCIA, Il Consiglio d'Egitto). Ecco il punto: volenti o nolenti, la Storia la fanno perlopiù personalità d'élite: anche le grandi rivoluzioni, in realtà sono state perlopiù o alla mercé di pochi illuminati, o guidate da essi. Certo ci sono state eccezioni che un discorso così generico non può considerare (non ultimi i recenti tumulti nel nord Africa), ma la Storia - quella evenemenziale - è fatta da re, principi e nobili. Più tardi da borghesi.

Naturalmente con la crisi dell'assolutismo e l'avvento di illuminismo, liberalismo e delle democrazie, l'importanza delle monarchie è mutato: anche e soprattutto in Inghilterra (che tanto ha lottato per il suo parlamento), ormai la monarchia ha un ruolo a metà strada fra la rappresentanza ed il simbolismo (ancora il discorso andrebbe approfondito). Ma è comunque un ruolo eminente, che si eleva dal contesto delle masse di noi miseri mortales. Anche nolenti, un giorno il nome di William del Galles entrerà nei libri di storia. E se riuscirà a divenire regina (ne dubito), anche quello di Kate Middleton. Ecco perché il matrimonio di oggi non è un mero evento di gossip.

Ma, d'altra parte, i media - soprattutto italiani - si sono ormai specializzati nell'analizzare gli eventi mai con una prospettiva che potrebbe essere istruttiva e seria. Giusta la diretta televisiva del matrimonio, io credo, ma assurda quella ricerca ossessiva del faceto, che trasforma un evento dall'indubbia rilevanza politica e storica in una parata da casa delle bambole. Ecco perché, dal web, si innalza l'urlo di chi non può nemmeno più sentir parlare di nozze reali: perché, ancora, il matrimonio diviene lo strumento di una lobotomia mediatica. Potrebbe essere l'occasione per un approfondimento sulla storia inglese, diviene una lotta per la ricerca della retorica sdolcinata e del dettaglio inutile. Di che colore sarà il cappello della regina Elisabetta? Per Dio, chi se ne frega!

Ora, io mi pongo in una via di mezzo. Seguirò, anzi sto seguendo, la diretta del matrimonio su SKY e sulla BBC, eviterò la diretta di Canale5 come la peste. Ammetto un po' il fascino dell'evento, non tanto per il matrimonio, ma perché ho ancora gli effetti del mio innamoramento per Londra (ed adoro vedere la partecipazione del popolo inglese, una partecipazione del tutto differente da quella mediatica italiana). Ma vi prego, non venitemi a chiedere dei vestiti e della pettinatura della sposa, perché non saprò rispondervi.


bibliografia:
* = P. PRODI, Introduzione alla Storia Moderna, Bologna: Il Mulino, 1999, p. 24

domenica 27 marzo 2011

Il pasticcio italiano nella questione libica

Vi siete mai trovati in quella situazione orribile di avere due amici che litigano fra loro? Letteralmente è come essere fra il martello e l'incudine, ascolti uno e ti pare che abbia ragione, poi vai dall'altro e rivedi le tue idee. Se poi prendi le difese di uno, è facile che ti ritrovi a litigare con l'altro. Una situazione in cui si potrebbe uscire esercitando la difficile arte della mediazione, ma non sempre è possibile.
Ecco: la situazione italiana (da leggersi 'del governo italiano'), alla vigilia della guerra in Libia, era questa. Da una parte l'amico Gheddafi, quello che nell'agosto scorso era stato invitato in Italia con tutti gli onori, dall'altra la cosiddetta comunità internazionale, che non poteva restare ferma a guardare il primo massacrare il suo stesso popolo. 
Andiamo con ordine. In un bellissimo libro [1], anche se ha già qualche anno (è del 1998), il geografo Giacomo Corna Pellegrini sottolineava le tre correnti culturali che caratterizzavano il paesaggio libico. Da una parte la Libia colonia italiana, che sopravvive nell'edilizia di stile "fascista", ma anche in elementi culturali "rinforzati recentemente dalla visione delle televisioni italiane". Vi è poi "l'antica tradizione locale, di cui Re Idris era espressione" che, ci dice Corna Pellegrini, "sopravvive nei circoli familiari, nelle campagne, tra le generazioni più vecchie (nelle modalità del vestire, dell'abitare, del rapportarsi tra uomini e donne, vecchi e giovani). La Libia moderna è quella, invece, cui il petrolio ha cambiato volto e cui la dittatura" - sì, che in Libia vi fosse una dittatura, meglio chiarirlo, lo si sapeva ben prima della ribellione di quest'anno - "ha impresso la durezza della repressione d'ogni opposizione politica all'interno". 
Ma il primo elemento per descrivere la nuova Libia, Corna Pellegrini lo trovava proprio nel petrolio. Leggendo questa descrizione, alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni, allora torna alla mente ciò che aveva scritto Eduardo Galeano, in occasione di un altro intervento occidentale a favore della democrazia: "Se l'Iraq producesse rape invece che il greggio a chi verrebbe in mente d'invadere Bagdad?"[2] . La reazione di Gheddafi è stato il casus belli, l'occasione che nazioni come la Francia stavano aspettando per ridiscutere la divisione dell'oro nero libico.
Di per sé è un capolavoro di diplomazia, un affare colossale. Certo, basta un minimo d'intelligenza per capire come il petrolio sia un elemento chiave della guerra libica. Ma d'altra parte, l'opinione pubblica, quella che generalmente si schiera contro ogni guerra, comprende che senza l'intervento militare di potenze occidentali il dittatore sarebbe stato libero di soffocare nel sangue le ribellioni del popolo.

Ritorniamo alla metafora dei due amici che litigano fra loro. L'Italia è proprio in questa situazione: è la maggiore importatrice del petrolio libico [3], e per questo motivo non può evitare un intervento, che le permetta di sedere all'eventuale tavolo dei vincitori della guerra. Ma non può nemmeno palesarsi come conquistatrice di un paese con cui ha di recentemente stretto un trattato di amicizia. Trattato in cui, fra l'altro, era esplicitata la promessa di non-attacco reciproco fra Italia e Libia.
Insomma: quello che per gli altri paesi è un capolavoro di diplomazia (la possibilità di intervenire per i propri interessi, con la scusa di proporsi come difensori dell'ordine del mondo), per l'Italia è un gran casino!

La soluzione di Berlusconi è stata in linea con il suo ruolo di magnate televisivo. Ancora una volta è riuscito ad orchestrare una via mediana, in cui ha tentato di cercare definizioni proprie, che gli permettessero di uscire da quest'impiccio. Lo ha fatto parlando a giornali e televisioni, ma decidendo (e probabilmente non è un caso!) di non esporsi a Senato e Camera, dove l'autorizzazione all'intervento in Libia è stata richiesta dai ministri Frattini e La Russa. In pratica, la linea del presidente del consiglio è stata quella di partecipare alla guerra, ma dichiarando che l'Italia non è in guerra (che contraddizione di termini!). Di più: che degli aerei italiani stavano in effetti volando sui cieli libici per collaborare alle operazioni militari, ma che non avrebbero sparato nessun colpo (come se fosse già possibile prevedere in anticipo l'evolversi di un conflitto militare!). Così l'Italia ne esce come la Rosalia dei Malavoglia, ancora "né carne, né pesce", a metà strada fra una scelta e l'altra, senza alcuna forza per imporsi. Un presidente con ancora le terga al vento, che tenta di riallacciarsi i pantaloni, ma non ci riesce.

opere citate / note:
[1] G. C. PELLEGRINI, Il mosaico del mondo. Esperimento di geografia culturale, Roma: Carocci, 1998, pp. 183-184.
[2] cit. in P. BATTISTA, I neopacifisti e il petrolio. Torna il partito di 'chi non se la beve', Il Corriere della Sera, giovedì 24 marzo 2011, p. 3
[3] http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=36895

mercoledì 5 gennaio 2011

A contro B

Utilizzando i ben noti social network, ultimamente mi son accorto di un atteggiamento diffuso. Forse era già presente da tempo, ma l'ho notato solo di recente, perché ci son cascato sempre più anch'io. E' il bipartitismo esasperato: il voler opporsi ad una supposta fazione avversa a tutti i costi, esaltando la propria in maniera tale da non concepire posizioni diverse. Credo l'influsso derivi da una spettacolarizzazione della politica: un bipartitismo che estremizza le ideologie, e che trasforma salotti televisivi - di dubbia intelligenza - in campi di battaglia. E così, poi, nella vita di tutti i giorni: gattofili contro cinofili, windows contro apple, iphone contro android, jazzisti contro metallari, vecchi contro giovani, lavoratori contro studenti, polentoni contro terroni, italiani contro stranieri, etcetera. Tutto questo in un venir meno della bellezza delle contaminazioni, dell'esaltazione delle diversità, e - soprattutto - del rispetto per i gusti e le peculiarità altrui. E' un pericolo sociale che si sta connaturando sempre più negli istinti delle genti, e che mi rattrista e spaventa allo stesso tempo.

PS: questo era il post n.100. Direi che posso dirmi soddisfatto: sto riuscendo ad aggiornare con costanza il blog; ed ho perfino attirato i commenti di qualche incauto visitatore occasionale!

martedì 14 settembre 2010

TG

Maurizio Costanzo, una persona su cui avrei molto da contestare, ma che non trovo giusto criticare a priori, ha recentemente chiesto a Mauro Masi, direttore generale RAI, come mai vedendo il Tg3 ed il Tg1 pare di essere in due Paesi diversi. Non dimentichiamo che lo stesso Costanzo è tornato proprio nell'azienda di via Teulada di recente - condurrà un programma quotidiano, che eviterò in realtà come la peste -, quindi bisogna riconoscergli un certo coraggio. Lo stesso che probabilmente ha portato Masi a negare l'evidenza.
La realtà è evidente: l'ha posta all'attenzione di tutti Maria Luisa Busi, lasciando nel maggio scorso la conduzione del Tg1, scrivendo una lettera molto intelligente. Ma, in nome della stessa intelligenza, bisogna ammettere che la credibilità del Tg1 era già evidentemente in pericolo, anche senza la presa di posizione di chi le cose le viveva dall'interno. Basterebbe ora lasciare a chi legge l'iniziativa di ricercare alcuni degli editoriali del direttore Minzolini, facilmente rintracciabili anche online, perché il giudizio su di lui sia semplice per tutti.
Esiste la libertà di una condotta editoriale di parte, e credo che sia uno dei principi fondamentali della democrazia: l'oggettività giornalistica è forse un falso mito, in quanto il giornalista - come soggetto pensante, con dei principi, delle idee, delle convinzioni, ecc. - raccontando un fatto, anche in minima parte, ci metterà sempre del suo. Ciò che importa è però che anche il normale cittadino, colui che necessita dell'informazione innanzitutto per il suo diritto e dovere fondamentale di andare alle urne, abbia la possibilità di scegliere; un cittadino davvero coscienzioso, e d'un'intelligenza e consapevolezza sociale quantomeno al di sopra della norma, tenderà ad ascoltare così più voci. Ancor meglio: cercherà di farsi la propria opinione, sottoponendo a critica tutte le voci altrui, dal giornalista amico a quello che la pensa diversamente.
La realtà ci porta però a pensare che esistono, nella società italiana, due problemi principali. Il primo è che l'influenza d'una determinata linea editoriale, e c'è chi lo ha esemplificato in un documentario, è quella nettamente più sovraesposta "mediaticamente". Su due livelli: quello esplicito dell'informazione di parte - IlGiornale, Libero, StudioAperto, in parte Tg5, molto più, paradossalmente, Tg1 -, quello subliminale d'un tipo di anti-cultura e di consapevole distrazione. 
Il secondo problema è il risultato del primo: il cittadino-medio tende, soprattutto per effetto d'una certa anticultura, a non voler ricercare l'oggettività nell'informazione, ma a fomentare il suo credo prendendo per buono ciò che legge, o evitando persino di leggere e fidandosi del sentito dire. Fossimo tutti illuministi, potremmo sperare che la ragione d'ognuno porti verso una ricerca, spesso tediosa e complicata, di questa verità. La realtà è purtroppo diversa, e lo si comprende sia da determinati risultati elettorali, sia dalle voci che si possono raccogliere negli autobus, nei bar, per le strade, nella stessa televisione o nei social network. L'ignoranza, sia essa sulla politica, sulla società, sulla cultura in senso lato, sulla Musica, l'arte o la letteratura, raggiunge livelli sconfortanti.
In questo scenario, che spero sia più pessimista che realistico, fa quindi piacere il recente successo d'ascolti di Mentana, nuovo-direttore del Tg de LA7. Potrebbe essere l'indizio d'un risveglio delle masse, d'un nuovo interesse per il giornalismo di qualità. O semplicemente infine la possibilità, per chi non riusciva a trovare il suo posto in un ventaglio d'informazione piatta e perlopiù allineata, di attingere ad un professionista che sa fare il lavoro di giornalista, e non si limita a quello del servo. La speranza è sempre quella che chiunque possa riuscire ad avere la dignità di cercare i diversi punti di vista, e di elaborare così il suo; ma chi non lo vuole fare, per favore spenga Minzolini, ed accenda Mentana. E scusate se anch'io sono di parte.

giovedì 8 luglio 2010

Mondiali (8)




Con il gol di quel capellone di Puyol, ieri contro la Germania, si è quindi definita la finale di domenica prossima. Ultima partita del Mondiale, e grande respiro di sollievo per la mia compagna: ammetto d'aver abusato della sua pazienza, quest'anno, guardando praticamente tutte le partite, molte delle quali anche in sua presenza. Avrei abusato anche della pazienza dei lettori di questo blog, se ci fossero, dato che sull'argomento ho scritto forse anche troppo. Ma visto che fino a prova contraria questa è ancora casa mia, e che i lettori appunto non ci sono, devo scrivere coerentemente ancora un pensiero (e non può essere nemmeno l'ultimo) sul Mondiale in corso in Sudafrica.
Devo confessare che sono felice di una finale fra Spagna ed Olanda, perché la vincitrice raggiungerà il titolo per la sua primissima volta: avesse vinto ancora il Brasile (già serio candidato anche per il Mondiale 2014, dato che sarà padrone di casa), il conto delle squadre vincitrici sarebbe stato un po' più noioso.
Della preparazione della Spagna già si sapeva, d'altronde arriva da un titolo europeo (che aveva ottenuto dopo aver sconfitto anche l'Italia). Anche l'Olanda era fra le favorite della vigilia, grazie ad un girone di qualificazione giocato su alti livelli. Insieme all'Inghilterra - che mi ha però smentito - era poi una delle squadre su cui avrei scommesso alla vigilia. Mi spiace non aver fatto un editoriale su questo blog, per potermi poi vantare della mia preveggenza; posso solo citare quel vago "però...attenzione all'Olanda!!!" che avevo scritto il 14 giugno.

A proposito di preveggenza, è ormai arci-nota l'epopea del polpo Paul, un cefalopode tedesco che pare avere straordinarie doti divinatorie. In pratica: coloro che ostentano la proprietà umana sull'animale, chi si vanta orribilmente di essere padrone di un essere che la natura vorrebbe in realtà libero di vagare per i mari, preparano al polpo due vaschette, ciascuna con del cibo al suo interno, e con una bandiera a contrassegno. Sulla base di qual è la prima delle vaschette che Paul utilizza per mangiare, viene fornito un pronostico. Dopo il successo già ottenuto negli Europei (con l'85% dei responsi corretti), il polpo è diventato famosissimo proprio nei Mondiali ora in corso, dove è riuscito a pronosticare con correttezza l'esito di tutte le partite della Germania, compresa la vittoria della Spagna di ieri, e quella della Serbia (davvero difficile da prevedere).
La media dei successi del cefalopode è sinora del 100%, avendo indovinato tutti gli esiti degli incontri disputati, ma bisogna specificare (come nessuno fa) che il suo responso è stato chiesto solo per le partite della nazionale tedesca: un totale di sei partite, non una in più. Il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale) ha scritto un articolo in cui cerca motivazioni razionali o quasi-scientifiche del fenomeno. Non mi è sembrato del tutto convincente: in realtà credo che la vera motivazione che sta dietro al successo di Paul sia la semplice casualità. Son convinto dell'intelligenza degli animali, spesso enormemente superiore a quella degli uomini; ma in questo caso credo che il polpo abbia solo un enorme culo. In ogni caso, la fama di Paul è aumentata a dismisura, ormai tutti i quotidiani ed i telegiornali riportano le sue gesta, tanto che i suoi "proprietari", invece che lasciarlo tornare nel mare dov'è nato, hanno deciso di sfruttare il successo mediatico per promettere delle predizioni anche sulle due finali di sabato e domenica.
Quel geniaccio di Maurizio Costanzo, dall'alto della sua nota mancanza di gusto, ha anche proposto un tournè del polpo. Credo scherzasse, ma dovrebbe esserci chi proponga che, se riuscirà ad azzeccare anche il risultato di Olanda-Spagna, Paul possa tornare a nuotare libero. Senza più bandiere, senza più telecamere.

PS: tentativo di spiegazione, che vada oltre la semplice casualità? Tralasciando quelli già riportati dal CICAP, io ho notato che - almeno nelle foto che ho visualizzato - il polpo sceglie sempre la vaschetta sulla destra dell'osservatore, quella presumibilmente più vicina. In questo caso, sarebbero quindi i suoi "proprietari" ad essere i veri veggenti, mettendo sempre la bandiera giusta sulla vaschetta in questione...








lunedì 7 giugno 2010

Mondiali 2010 (2)


Il Mondiale è innanzitutto una concentrazione mediatica fuori dal comune. Basta seguire i palinsesti che si vanno a formare, sia nelle televisioni, sia in radio. SKY offrirà una copertura completa, al limite del voyeurismo. La RAI risponde come può, coprendo con la diretta metà delle partite (più o meno), e con una serie di trasmissioni con una cricca di opinionisti odiosi.
In radio lo stesso. Radiorai ha l'esclusiva, ma il direttore di Radio2 ha avuto la brillante idea di non confermare la Gialappa's Band, che era l'alternativa dissacrante al Mondiale istituzionalizzato. Ne ha approfittato radio DJ, che li ha "acquistati" per una fascia quotidiana dalle 13 alle 14 (ma in molti sperano che si daranno anche alla cronaca). RTL 102.5 farà di più: ha acquistato i diritti per poter fare una cronaca diretta, con collegamenti dal Sudafrica, di gran parte degli incontri.
All'estero sarà più o meno lo stesso, se poi iniziassimo a considerare la carta stampata e, soprattutto, il web (questo blog è una piccolissima goccia in un oceano inestimabile).. beh, per enunciare una lista completa impiegheremmo più dei minuti che saranno effettivamente impiegati nei campi di gioco.
Un esempio di come la copertura mediatica possa essere anche deleteria è l'episodio che sta dividendo in questi giorni in internet; esso riguarda il centrocampista della Juventus e della nazionale italiana Marchisio, che prima dell'incontro ITALIA-SVIZZERA (fra parentesi finito sull'1 a 1) avrebbe cantato l'inno modificando le parole, e cantando "..DELL'ELMO DI SCIPIO, CHE SCHIAVO DI ROMA LADRONA IDDIO LA CREO''".. ( http://www.youtube.com/watch?v=YgsGnCD2JQw )
Ecco: questa copertura mediatica per un mese raggiungerà l'ossessione, causando crisi di nervi per coloro che del calcio si disinteressano completamente. Beh, se queste persone ne approfittassero per spegnere la televisione e leggere un bel libro, sarebbe quanto meno un primo effetto positivo della situazione qui sopra.
Ma un altro aspetto, complementare ma ben diverso, è centrale nella competizione di quest'anno. Finalmente il Mondiale approda in Africa, chiaramente nel suo Paese più evoluto dal punto di vista innanzitutto economico. Ma un paese che nel suo passato anche recente ha vissuto una storia drammatica, ancora non del tutto emarginata.
Non è certo imponendo un modello occidentale, o travasando la dubbia sportività del calcio che si risolvono i problemi (che poi in altri paesi sono ancor più gravi).
Ma puntando i riflettori su un continente spesso visto come la discarica del mondo, facendolo sentire in qualche modo più vicino a noi, si potrebbero aprire gli occhi a qualcuno. Il divario culturale potrebbe venir vissuto finalmente come una differenza di specificità locali, e non più come un'erronea gerarchia fra un cosiddetto popolo evoluto ed uno ancora retrogrado. Il movimento culturale è un primo passo per un cambiamento vero. E' triste che si debba confidare in una manifestazione ludica, e spesso triviale, come il Mondiale di Calcio per avere la speranza di una sorta di rivoluzione culturale. Speranza che fra l'altro probabilmente rimarrà vana, sotto l'abisso dei gossip che cancellerà ciò che di utile ed impegnato si potrebbe ricavare dall'evento.

sabato 5 giugno 2010

Mondiali 2010 (1)



E' la prima volta che scrivo di calcio sul mio blog (che, per chi legge su facebook o twitter, è raggiungibile all'indirizzo livingepitaphs.blogspot.com), probabilmente perché non ne sono fanatico, o forse perché do priorità ad altri interessi - soprattutto quando è il momento di depositare nel web dei commenti o delle riflessioni.
Il bello, o il brutto, dei Mondiali è proprio questo: persone che fino a ieri magari seguivano poco il calcio, di punto in bianco, per una sorta d'istintivo senso di appartenenza, iniziano a sentirsene partecipi. Normalmente con la loro piena volontà; talvolta invece perché non si può farne a meno: volenti o nolenti, anche solo per le urla dei vicini, si è tutti coinvolti. Forse è triste che succeda solo per una competizione sportiva, ma tant'è.
Al di là quindi di questo obbligo alla partecipazione, che io sento come istintivo da quando nel 1994 seguì coscienziosamente i miei primi Mondiali (ma addormentandomi prima dei fatidici rigori di Italia-Brasile, che vidi il giorno dopo in replica), ho deciso di iniziare a parlarne perché credo sia poi bello, a distanza di quattro anni, tornare a leggere le considerazioni fatte 'a caldo'. Lo vorrei fare oggi riguardo i miei pensieri del 2006, quando l'Italia ebbe la capacità e la fortuna di vincere. Purtroppo il blog che gestivo allora, che è ancora raggiungibile (sebbene in parte me ne vergogni), contiene solo qualche misero insulto alla Germania - datato 5 luglio -, ed un banale CAMPIONI DEL MONDOx4, del 10 luglio (vedi sopra).

Questa volta invece cercherò di unirmi al carrozzone degli opinionisti, lasciando il mio pensiero ogni volta che mi andrà di farlo.
Partiamo quindi da questo pre-Mondiale; manca meno di una settimana al suo inizio ufficiale, una decina di giorni all'esordio italiano, ma già piovono le critiche. Quasi unanimi.
E' un po' la caratteristica del tifo italiano, un odi et amo viscerale, la capacità di criticare sempre e comunque (salvo poi quando si vince. In quel caso si salta tutti in compagnia sul carro del vincitore). Gli Azzurri hanno messo del loro, esordendo in amichevole contro il Messico, giocando male e perdendo (2-1). Oggi ci sarà un'altra amichevole contro la Svizzera; chissà, mi aspetto andrà comunque male.
Beh, giusto il diritto di critica: ma non è il caso forse di aspettare? Per quanto mi riguarda, ogni commento, ogni critica, ogni elogio, lo dispenserò solo a partire dalla sera del 14 giugno. Sempre su questo blog.

domenica 21 febbraio 2010

Sanremo 2010 ed il principe di sta fava..



« Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt'altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda "Io tu e le rose" in finale e ad una commissione che seleziona "La rivoluzione". Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi. »

Notte tra il 26 ed il 27 febbraio 1967, Hotel Savoy, a Sanremo. A scrivere queste parole, a quanto pare, fu Luigi Tenco. Poco dopo si sarebbe sparato, sempre secondo una versione ufficiale, che qualcuno fra l'altro ancora mette in dubbio. Sono passati più di quarant'anni, eppure il cosiddetto Festival della Musica Italiana ancora si accompagna di critiche, in un certo senso così vicine a quei giorni.
La vicenda che quest'anno tiene banco - oltre alla nota squalifica di Morgan per "apologia all'uso di droghe" - è la partecipazione di Pupo, con Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia ed il tenore Canonici. La canzone dell'amabile trio, un inno fra il patriottico ed il nazionalista, non solo è stata ammessa in concorso (a differenza delle opere di, fra gli altri, Zucchero, che aveva scritto per Mietta, o Cristiano De Andrè), ma - attraverso il voto popolare - si è classificata seconda.
Ciò che personalmente mi sorprende non è poi solo la partecipazione del nipote di Umberto II (e non perché è un Savoia, ma perché - bastava sentirlo - non è un cantante), ma il fatto che il pubblico abbia votato una canzone che fa schifo. Tutto ciò mi porta a due ipotesi:
number one - gli amabili savoiardi hanno investito parte del loro capitale in ricariche telefoniche, e si sono bruciati le dita (loro, o più probabilmente, di qualche servo-plebeo) in sms;
number two - il pubblico di votanti è un pubblico di deficienti.
Con buona pace di Canonici (lui sì sa cantare, ma probabilmente ha un basso senso del pudore), credo che per far arrivare seconda quell'aborto di "Italia Amore Mio" sia stata necessaria la congiunzione dei due fattori che ho sopra sintetizzato.
Poco importa, questa canzone scivolerà facilmente nell'oblio, come - mi aspetto - quella del vincitore Scanu (che nel curriculum vanta la partecipazione di Amici, dove non ha nemmeno avuto la decenza di vincere). Perlomeno ieri nessuno si è sparato, ma gli orchestrali - che di musica ne sanno - hanno strappato gli spartiti. Quel secondo posto del Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro (sì, è sempre Emanuele Filiberto) è, più che un insulto ideologico, un'offesa alla dea Musica.
Ma Sanremo è il posto dove il pubblico ha eliminato Tenco, ed ha portato in finale Io e te le rose. Bisogna accettarlo, nella convinzione che le radio e le vendite premieranno le vere canzoni vincitrici del festival (quelle di Noemi, Irene Grandi e Malika Ayane).

mercoledì 27 gennaio 2010

27 gennaio

Ci sono dei rischi a mio avviso nel concetto di “giornata della memoria”, non che celebrare un ricordo e farlo ammonimento sia di per sé sbagliato, né oso erigermi a voce fuori dal coro. Premetto insomma, per non essere frainteso, che è giustissimo ricordare l'anniversario della liberazione di Auschwitz come giornata che ispiri alla riflessione sulle tragedie e le colpe dell'umanità.
Ma il primo rischio è di stigmatizzare un evento passato e sentirlo nel ricordo come un qualcosa di distante, avvenuto ineluttabilmente quasi fosse un peccato originale. Una macchia che è giusto condannare, ma che appartiene ad una cultura sbagliata e così lontana. Come il massacro dei nativi americani, che probabilmente ormai le nuovissime generazioni dimenticano in media come la stessa data della scoperta dell'America.
E' vero che ciò che è accaduto è un parto (anzi, un aborto) di un preciso momento storico, che come tale è irripetibile per filo e per segno. Ma questo non significa che anche oggi non avvengano nel mondo soprusi, genocidi, colpe di un'umanità crudele e sempre costantemente colpevole. Nel mondo ci sono dei momenti in cui l'opinione pubblica viene presa e scrollata, attimi in cui chi è sempre così cieco si sveglia all'improvviso. Il 27 gennaio 1945 è successo proprio questo, ed è giusto che una volta all'anno l'uomo si ricordi di quanto faccia schifo. E' un po' quello che è successo ad Haiti a causa del terremoto, che non ha fatto altro che massacrare e squarciare una popolazione che stava già morendo di fame, svegliando un'opinione pubblica che prima quando sentiva la parola Caraibi pensava solo a spiagge bianche e scenari da favola.
Il secondo rischio di una “giornata della memoria” è quindi direttamente conseguenziale: è quello di prendere un simbolo come quello della Shoah, e dimenticarsi di tutto il resto. Il 27 gennaio che diviene il momento di una catarsi – nel senso aristotelico -, il momento ovvero in cui il Mondo si ferma a ricordare la tragedia più grande, per uscirne purificato e con la coscienza rinata. Come il bambino che il 24 dicembre se ne sta buono, perché Babbo Natale sta arrivando e non sia mai che porterà del carbone con sé! La differenza, in realtà, è che la colpa di un bambino può essere solo quella di essere un po' discolo..la colpa di certi uomini, invece..

Il 27 gennaio non deve insomma diventare il pretesto per dimenticare ricordando, o ricordare per nascondere. Non dev'essere solo il giorno in cui si riflette sulle parole di Anna Frank o Primo Levi, ma il punto di partenza per vivere amando il bene ed odiando il male. Il 27 gennaio, come ogni giorno.

mercoledì 23 dicembre 2009

Riflessione sulla casta politica italiana.

"Ci sono un bel po' di piedi di mulo lì in mezzo, disse.
Come?
Piedi di mulo. Direi che ci sono parecchie centinaia di capi solo di quelli, e non è una varietà di maiali facile da trovare.
Cos'è un piede di mulo? chiese Holme.
Il mandriano socchiuse gli occhi con aria professionale. E' un maiale di montagna che viene dal nord della regione. Ne avete mai visto uno?
No.
Ha il piede come quello di un mulo.
Volete dire che non ha lo zoccolo fesso?
Niente fessura, già.
Io non l'ho mai visto, un maiale del genere, disse Holme.
La cosa non mi sorprende, commentò il mandriano. Ma potete vederne uno adesso, se vi interessa.
Mi piacerebbe, disse Holme.
Il mandriano cambiò di nuovo appoggio all'asta. Sembrerebbe che questo non sia in accordo con la bibbia, che ne dite?
Di che cosa?
Di quei maiali. Del fatto che sono animali impuri proprio perché hanno il piede fesso.
Questa non l'ho mai sentita, disse Holme.
Io l'ho sentito predicare in un sermone, tempo fa. Da un tizio che la sapeva lunga sull'argomento. Disse che il diavolo aveva il piede come quello di un maiale. Sosteneva che questo era scritto nella bibbia, perciò immagino che sia vero.
Eh sì.
Diceva che per questo un ebreo non mangerebbe mai carne di porco.
Cos'è un ebreo?
Sono quel popolo antico di cui parla la bibbia. Ma questo non spiega la faccenda dei maiali piedi di mulo, no? Cosa dobbiamo pensare?
Non lo so, rispose Holme. Cosa dobbiamo pensare?
Be', è un maiale o no? Stando alla bibbia.
Io direi che un maiale sarebbe un maiale anche se i piedi non li avesse proprio.
Sarei anch'io di questa idea, disse il mandriano, perché se mai avesse i piedi ti aspetteresti che fossero piedi di maiale. E' come dire che se tu avessi un maiale senza testa sapresti comunque che è un maiale. Ma se ne vedessi uno andarsene in giro con una testa di mulo, rimarresti proprio senza parole.
E' vero, assentì Holme.
Sissignore. E' una cosa che fa pensare parecchio, a proposito della bibbia, e anche a proposito dei maiali, no?
Già, disse Holme.
Ho studiato parecchio la faccenda, ma non mi riesce di arrivare a una conclusione né in un senso né nell'altro.
No.
Il mandriano si accarezzò la barba e annuì. Già i maiali sono un mistero per conto loro, disse. Cosa sappiamo, del maiale? Non molto. E' da quando ero alto così che vano in giro con i maiali, eppure non sono mai riuscito a capirli davvero. E sono sicuro che tanti altri hanno avuto la stessa esperienza. Un maiale è un maiale. Puro e semplice. E questo è tutto quello che possiamo dire di lui. E sono furbi, non pensate che non lo siano. Furbi come il diavolo. E non fatevi ingannare se ne trovate uno che non ha il piede spaccato, perché è diabolico anche lui."

Cormac McCarthy, Il buio fuori, Torino: Einaudi, 1997, pp. 182-183 (traduzione di R. Montanari da C. McCarthy, Outer Dark, 1968)

martedì 22 settembre 2009

H1N1: ovvero gli uccelli che temono i suini

Esistono innegabilmente due temi di straordinaria attualità in Italia – e mi si perdoni se la mia è sempre una visione italocentrica: Berlusconi e l’influenza A (quella che un tempo si definiva “suina”). Tralasciando chi si augura che i due temi possano un giorno coincidere, in questo breve editoriale mi occuperò del secondo.

Quando si parla di questa straordinaria pandemia, del virus H1N1, le posizioni solitamente divergono – da una parte vi sono quei catastrofisti, moderni uccelli del malaugurio, a sentire i quali pare che il 2009 sarà il nuovo 1348; dall’altra quelli che sbuffano ad un’allarmistica campagna di pseudo-informazione (dal punto di vista loro, s’intende. Come biasimarli d’altronde? Sono tutti sopravvissuti alla mucca pazza, dovrebbero temere un maiale?). A sostegno dei primi è arrivata la prima vittima (l’ho scritto che sono uccelli del malaugurio) – pace all’anima sua – una donna di Messina di 46 anni. Il virus si era abbuffato del suo corpo ammalato di broncopolmonite, si era detto in un primo momento, ma la notizia è stata ben presto smentita dalla sorella. “Mia sorella era sana, non aveva la broncopolmonite”, e c’è da crederle. Ma come? Ma il virus non era innocuo, quanto una normale influenza? Rezza e Fazio (rispettivamente membro dell’istituto superiore di sanità e vice-ministro della sanità) confermano: “la donna di Messina è la prima vittima in Italia del virus H1N1”. Alla faccia! Una donna sana, uccisa da una nuova malattia: forse hanno ragione gli uccelli del malaugurio, a temere la suina.

Adriana Sciglio, sostituto procuratore di Messina, probabilmente fa parte del secondo gruppo: quello degli scettici. Sua è infatti la firma al provvedimento che prevede 20 avvisi di garanzia, per altrettanti medici che hanno avuto in cura la donna messinese. Saranno le forze dell’ordine a stabilire se si tratta di un caso di mal sanità – ma d’altronde chi di noi, leggendo dei morti durante l’intervento di appendicectomia negli ospedali del sud (Massimiliano d’Orta e Giuseppe Francolini sono due nomi ad esempio, che lancio a chi vuole approfondire), ha considerato l’appendicite mortale? -.

Poco m’importa star lì a discutere, come si è fatto, se la nuova influenza sia più o meno mortale di quella che già conosciamo (http://www.hcmagazine.it/news/politica-sanitaria/i-tassi-di-mortalità-da-virus-h1n1-una-questione-di-numeri.php) – ciò che dobbiamo considerare è che la malattia è di facile contagio, ma che raramente i suoi sintomi degenerano in una patologia grave (e l’accordo della comunità scientifica è su questo punto unanime). A cosa, o meglio a chi, serve l’allarmismo? Citerò solo il titolo di un trafiletto, scritto da Daniela Condorelli su L’Espresso (n.37 anno LV – 17 settembre 2009): “un business che vale 7 miliardi”.

giovedì 10 settembre 2009

L'immortalità di un mediocre


Si dice "anno bisesto, anno funesto", peccato che il 2009 bisestile non sia (lo era il 2008), ed in quanto al "funesto" ognuno giudicherà per sé.

Ciò che la morte di Mike Bongiorno ha rappresentato, l'altroieri, senza false retoriche è comunque la fine di un'epoca della storia della televisione. Fa sensazione che avvenga dopo quella di Michael Jackson e di Les Paul (fine di epoche musicali, si potrebbe dire, tanto furono miti loro nel pop e nel blues), o di Mino Reitano (sempre musica, ma italiana), Tulio Kezich, Candido Cannavò, Giorgio Mondadori, Ted Kenendy e Fernanda Pivano (di quest'ultima, lo ammetto, mi rammarico particolarmente). Per chi, come me, ha passato ore dell'infanzia giocando a FIFA, anche la morte di Giacomo Bulgarelli può definirsi epocale (mi rendo conto che semplifico ironicamente la vita d'un uomo, così scrivendo).

Il 2009 sembra si sia candidato a fare da spartiacque fra il passato ed il presente; c'è chi ne gioisce cinicamente, e chi abbozza un qualche dispiacere nostalgico. A dire il vero che esista la morte non è novità di quest'anno, e fra tutte sono state proprio quelle di Jackson e Bongiorno ad aver fatto scalpore sull'opinione pubblica. -Ma come, non esiste l'immortalità nemmeno per loro? -, sembra ci si chieda.
Sono queste morti che non possono comunque lasciare del tutto indifferenti, se non si confonde il cinismo con l'ignavia. Perché Mike Bongiorno era innanzitutto un'istituzione simbolica della società italiana. Indubbiamente criticabile, come ogni istituzione, ma sarebbe poco oggettivo non definirlo come tale. Ha detto il critico televisivo Aldo Grasso: -L'Italia è stata unificata linguisticamente da "Lascia o Raddoppia"-. Pare una delle tante esagerazioni encomiastiche che si susseguono in questi casi, ed invece c'è del vero. E' scientificamente accertato che è proprio il mondo mediatico ad aver creato un nuovo standard linguistico, un'unificazione che esce dall'astratto dell'uso letterario dei libri, combatte la settorialità diatopica dei dialetti e si pone come modello. Francesco Sabatini, fra i più celebri linguisti italiani, da presidente dell'Accademia della Crusca disse a Mike Bongiorno: -lei ha insegnato l'italiano agli italiani-.
Sicuramente ha comportato un impoverimento linguistico, come già osservava nel suo celebre "Fenomenologia di Mike Bongiorno" Umberto Eco, attraverso un trionfo della mediocrità. - Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi- scrisse Eco. Lo stesso Paolo Villaggio (che attenzione: ha interpretato Fantozzi, ma non è un Fantozzi), in un'intervista ad Adnkronos rifiuta d'unirsi al cordoglio per Bongiorno: - non posso non dire che adattare quella cultura all'italiano medio, fu uno di quegli eventi che hanno contribuito all'abbassamento culturale del nostro paese-.
Un modello insomma di non perfezione, in cui è evidente la "mediocrità", nel suo carattere di gaffeur più o meno volontario. Una visione a cui però si oppone ancora Sabatini, che preferisce sostituire il termine "semplice" al mediocre di Eco e Villaggio. E' d'accordo Angelo Guglielmi, critico letterario e dirigente televisivo, che sulle pagine de La Stampa afferma: - Era sostanzialmente, allo stesso tempo, un grande professionista e un uomo di un'ingenuità incredibile, ma proprio in questa sua sincerità pensava di fare, e in certo modo faceva, un'operazione di valenza culturale -.
Il modello linguistico di Mike, nella sua semplicità, unita al nozionismo da quiz, non è forse oggi più accettabile. A fronte di questa standardizzazione bassa, oggi si dovrebbe cercare un accrescimento culturale e linguistico superiore, che tenga il passo con il generale miglioramento dell'istruzione, della cultura e della società italiana. Ma è altrettanto sbagliato studiare il passato con un modello odierno: ai tempi di "Lascia o Raddoppia" ci si trovava nel Dopoguerra, con un'Italia in gran parte analfabeta, che aveva bisogno di una semplificazione di uno standard linguistico letterario, che reclamava la vita di una lingua in realtà morta. Di vivo c'erano solo i dialetti: la Rai, e Bongiorno in primis, hanno così contribuito alla creazione di una lingua che unificasse l'Italia, un secolo dopo l'unificazione politica.
Insomma, al di là della morte fisica, il "modello Bongiorno" preso sic et simpliciter credo sia antiquato da tempo. Il mondo televisivo dovrebbe oggi ricercare un accrescimento culturale, non accontentarsi di quella mediocrità, che un tempo era la soluzione alla completa assenza di competenze linguistiche e di pensiero. Ora si dovrebbe offire un palinsesto che stimoli l'interesse culturale e la capacità critica. Si punta invece su ciò che è evasione, ignoranza ed immediatezza: salvo rare eccezioni, la tendenza è ad offrire un prodotto che sia commerciabile, che plasmi la mente umana alle tentazioni pubblicitarie innanzitutto. Il modello di un sistema televisivo che si fa pedagogico idealmente rimane ancora attuale, o meglio auspicabile. E' una riflessione che intellettualmente andrebbe fatta, ma che si scontra poi con gli interessi di chi possiede o finanzia il mezzo televisivo. Oggi più che nel passato.

Tornando alla morte di Mike Bongiorno, il dilemma morale che sorge, al di là del giudizio sulla persona, è un altro: vale la pena spendere tonnellate di parole, pensieri o ricordi per una persona, mentre un "qualsiasi signor chiunque" in questo preciso istante sta soffrendo, piangendo o morendo?
Effettivamente parrebbe non giusto: ma la disuguaglianza della vita è anche la disuguaglianza della morte. Esistono uomini che riescono a vincere il tempo, a rimanere immortali per ciò che hanno fatto. Per loro merito, demerito o solo per sorte o contingenza.
Non sarà stato un Aristotele, un Darwin o un Virgilio, ma Mike Bongiorno rientra, volenti o nolenti, in quella categoria di persone che vivono per sempre.
Nella consapevolezza che la riflessione e le parole di commento non sono sempre sinonimo di ipocrita cordoglio.

martedì 8 settembre 2009

Arriva Kindle: il futuro della lettura?

Arriva Kindle: è il futuro della lettura?
Duttilità, praticità e salvezza editoriale, o empietà culturale omicida della poesia?
Arriverà in Europa nel 2010 il Kindle, strumento nato dalla mente degli americani di Amazon. Si tratta di un sistema digitale che permette la lettura di libri, naturalmente anch’essi digitalizzati, nonché di quotidiani, blog, e quant’altro. La piattaforma è elegante, l’uso intuitivo. Il Corriere della Sera è il primo quotidiano italiano che si può leggere, per ora in America, anche su Kindle. Attraverso un abbonamento (9.99$ al mese), il reader riceve automaticamente ogni notte l’edizione del quotidiano, che può essere così consultata la mattina al risveglio. Anche l’acquisto di libri, attraverso Amazon, può essere fatto senza l’utilizzo di un computer e con il solo Kindle. In meno di sessanta secondi si possono ricevere dei titoli direttamente sulla piattaforma. Ulteriori informazioni si possono ricavare attaverso numerosi video dimostrativi in youtube.
Chi ritiene che un sistema che è rimasto sostanzialmente coerente negli ultimi secoli non possa essere modificato, intendo quello della lettura, dimentica forse che anche l’invenzione della stampa in epoca moderna ha portato ad un radicale cambiamento nell’uso e nel rapporto con il libro. O ancora, per rientrare nella contemporaneità, di come i supporti per la musica (altra forma di cultura) si siano radicalmente modificati negli ultimi anni: dal vinile alla musicassetta, dal cd all’mp3. Chi tuona contro gli ebooks avrà i suoi buoni motivi per farlo, ma dire che il kindle rimarrà fantascienza credo sia altrettanto sbagliato.
Non tutte le invenzioni hanno avuto successo, bisogna ammetterlo. Nel 1992 la Sony lanciò il Mini Disc, un supporto che nell’ottica dell’azienda avrebbe dovuto sostituire nell’uso il cd. Rimane un’alternativa poco usata, se non del tutto soppiantata dai lettori mp3, o dalla tenacia resistenza dei cd e di qualche vinile. Un’invenzione che sulla carta avrebbe potuto attecchire (la grande novità stava nella possibilità di riutilizzazione di uno stesso supporto per masterizzazioni virtualmente infinite), ma che nell’effettivo non ha riscontrato un successo di pubblico.
Torniamo al Kindle, e al libro soprattutto. La prima obbiezione, la più istintiva per qualsiasi lettore, è che l’avvento di questo mezzo comporterà un abbandono della poesia della letture. L’odore della carta, il rumore delle pagine che si sfogliano, il maniacale vizio di poter esporre con vanto una libreria; ma anche il poter vagare in una libreria o biblioteca: tutti vizi del lettore che il Kindle pretende, di punto in bianco, di spazzare via, in un tornado di pixel. Mi si perdoni ancora il paragone musicale: mi torna in mente il gracchiare di un vinile, sostituito dalla freddezza dell’mp3. Ma, fra la maggior parte dei nostalgici (e fra questi mi si può annoverare) del classico ellepì, è davvero difficile trovare chi non si è arreso alla comodità degli mp3: la praticità che vince sulla poesia. Non sempre, ma in un largo numero di persone.
Il Kindle potrebbe essere, insomma, non un sostituto del libro (giammai!), ma un’alternativa. Uno strumento che trova i suoi pregi nell’economicità dell’acquisto dei titoli, nella velocità, nel minimo ingombro, nel mancato dispendio di carta (poveri alberi!). Senza contare che l'editoria in difficoltà potrebbe trarne un beneficio (Books Aren't Dead, they're just going digital, ha tuonato il 'Newsweek' tempo fa). Se poi, come l’i-phone, diverrà anche uno strumento alla moda, ben venga: chissà che Amazon non abbia trovato il modo per inculcare il piacere della lettura (ed un conseguente accrescimento culturale ed intellettivo) in chi, normalmente, ne è del tutto estraneo.

venerdì 31 ottobre 2008

Riforma (1)

Il Sole 24 Ore del 30 ottobre ha pubblicato il testo completo del decreto legge 137/08, comunemente noto come riforma Gelmini, che coinvolgerà le scuole italiane. Sottintendo, quindi, che nel suddetto prospetto non è presente alcun riferimento alle Università, di cui il ministro ha dichiarato s’occuperà nelle prossime settimane. Eppure, leggendo i giornali, apprendiamo di proteste che partono decisamente proprio dalle Università, con tanto di occupazioni illegali delle sedi, con privazione del diritto di studio a chi se ne vuole servire. Al di là di quante effettivamente siano le persone in piazza, è chiaro che l’argomento è diventato di enorme attualità, tanto da oscurare nei dibattiti mediatici argomenti di ulteriore importanza, quali le elezioni statunitensi, la recessione economica o i vari casi di cronaca nera, con relativi esiti giuridici. Viene istintivo pensare che le proteste siano ideologiche, o comunque fortemente politicizzate, ed effettivamente bastano le dichiarazioni di taluni a comprovare questo sospetto. Ma sarebbe assurdo credere che tutti coloro che protestano siano effettivamente strumenti d’opposizione al governo, o nostalgici di movimenti di un passato prossimo, ma socialmente remoto. E’ onesto notare che c’è chi effettivamente ha dei motivi per protestare, siano essi condivisibili o meno.
Eppure il decreto Gelmini non parla d’Università, come detto. Lo fa, piuttosto, la legge finanziaria (la 133, proposto dal ministro Tremonti già ad agosto), che specifica nel comma 13 dell’articolo 66, che “il finanziamento ordinario delle università, e’ ridotto di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. Dei tagli motivati, naturalmente, dall’indisponibilità di fondi, che deriva da un generale malessere economico, ma anche naturalmente da altre scelte politiche del governo (com’è naturale che sia, anche in questo caso siano esse condivisibili o meno).
Dei tagli evidenti, quindi, ma che non sono ancora stati motivati. Quel che ancora non è chiaro (e lo diventerà probabilmente dal lavoro del ministro Gelmini nelle prossime settimane) è se i previsti tagli andranno ad individuare gli sprechi, in una gestione meritocratica della ricerca e dell’Università in genere, o se saranno generalizzati, andando a colpire un settore di per sé già in crisi.
E’ in crisi certo per mancanza di fondi, ma anche per una gestione che è stata errata in passato (con qualsiasi partito al governo). Qualche esempio: l’Università di Bologna ha una sede distaccata a Buenos Aires (che qualcuno ha messo ironicamente all’asta su ebay), alla Sapienza di Roma si sono spesi 223.200 euro per ridisegnare un logo, ed i casi di spese inutili, a carico dello Stato, potrebbero essere certamente più numerosi. Sono dati oggettivamente condivisibili e condivisi: sorprende, quindi, che i tagli siano così osteggiati, in quanto in realtà potrebbero, dalla vera e propria riforma dell’Università (che ancora non è stata presentata), essere indirizzati alla diminuzione dei suddetti sprechi, senza oneri per chi garantisce un servizio di studio e ricerca qualificato. Non vedo, quindi, il senso di una protesta per un provvedimento ancora non attuato, in un movimento che sfocia quindi nella strumentalizzazione ideologia più bieca o nella disinformazione.