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sabato 11 febbraio 2012
[REC] Alan Bennett, Gli studenti di storia
È uscita finalmente in questi giorni anche in Italia, per Adelphi, History Boys, l'ultima commedia firmata da Alan Bennett. Scritta e rappresentata per la prima volta nel 2004 (al National Theatre di Londra), possiamo ora apprezzarne anche la traduzione italiana di Mariagrazia Gini, intitolata Gli studenti di storia. È una pièce teatrale pluripremiata, vincitrice di ben sei Tony Awards (gli oscar del teatro), fra cui quello per la migliore rappresentazione. Da essa è stato tratto anche un film omonimo (2006), recitato dagli stessi attori del cast teatrale, e con la regia, anch'essa in comune con il teatro, di Nicholas Hytner.
LA TRAMA – La trama è all'apparenza molto semplice. Siamo nel contesto di una scuola inglese, dove otto studenti, che puntano ad accedere alle prestigiose Università di Cambridge ed Oxford, partecipano ad un corso propedeutico estivo, proprio in vista degli esami in ingresso che dovranno sostenere. Il preside è un uomo orgoglioso, più interessato al prestigio della scuola che al futuro dei suoi studenti, fiero della facciata di rigore che ha costruito (salvo poi lasciarsi andare un po' troppo con la segretaria). I tre professori, incaricati di preparare gli alunni all'esame, sono con gli studenti i veri protagonisti della narrazione. La professoressa Lintott, fautrice di un metodo d'insegnamento tradizionale, è forse il personaggio più concreto. In lei traspare una sottile melanconia, un certo senso di inadeguatezza, mitigato da un certo fiero femminismo. Il professor Hector è un eccentrico pedagogo, amante della poesia, colto e col gusto per la citazione. Ama davvero ciò che insegna, ed odia che il bagaglio di conoscenze sia svilito dalla necessità pratica di superare un esame. Il suo opposto è rappresentato dal giovane professore Irwin, spietato nel vendere la verità al fine pratico di dare agli studenti gli strumenti per superare il test d'ingresso nelle Università. «Mollate il branco.», dice Irwin «Seguite Orwell. Siate provocatòri. E già che cito Orwell, prendete Stalin. Tutti lo definiscono un mostro, e hanno ragione. Quindi voi dissentite. Trovate qualcosa, una qualsiasi cosa da dire in sua difesa. Oggi la storia non ruota intorno alle convinzioni. È performance. È spettacolo. E quando non lo è, fate in modo che lo diventi.»
LA MORALE – La commedia di Bennett vibra d'intelligenza; anche quando la risata è scaturita dall'equivoco, o dall'esplicito ricorso alla sfera semantica dell'erotico, il lettore si rende conto che al di sotto c'è sempre un senso più profondo. Chiedendosi cos'è la storia, come dev'essere studiata e come insegnata, Bennett sfuma verso un concetto che ha dell'esistenziale. Perché il vero tema della commedia è in realtà la vita. Al di là di libri ed esami, la vera storia, quella di ognuno, è fatta da momenti, da eventi che non serviranno mai a superare l'esame per Cambridge. Quella di Bennett è insomma insieme una pungente satira contro il mondo accademico, e un'intelligentissima riflessione. Dopo i sorrisi e le risate, il lettore viene coinvolto in una riflessione interiore, che – come la prefazione ben spiega – nasce direttamente dall'esperienza autobiografica dell'autore. Ma la commedia è un gioco in cui i valori sono costantemente sospesi, quasi sempre annullati, ribaltati. Il significato vero della narrazione è proprio l'assenza apparente di significato; di come ogni cosa sia relativa: l'amore, la poesia, la vita e la morte. E la storia, soprattutto la storia.
pubblicata anche: laRotaliana.it
giovedì 17 marzo 2011
Il senso di essere trentini, e festeggiare il 150° dell'Unità d'Italia
Mi sorprende la fissazione che molti hanno per i confini geografici. Festeggiare oggi i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia è per molti festeggiare la cartina di un'Italia unita in senso geografico, dimenticando forse che per la breccia di porta Pia son serviti ulteriori dieci anni. Chiarisco: la scelta del 17 marzo 1861 come data simbolica è giusta e doverosa, rientra nel novero di quelle date simboliche che si devono ricordare. Ma dietro queste date simboliche c'è sempre qualcosa di più, è quella che gli storici la prospettiva di lungo periodo. Come potremmo pensare al viaggio di Colombo, data simbolica del 1492, dimenticando le scoperte della tecnica fra il XIV e il XV secolo? E gli esempi da fare sarebbero molti, chi studia storia lo sa.
Così c'è chi, e lo scrive vantandosene su facebook, osserva che il 17 marzo 1861 Trento era al di fuori dei confini italiani. Strana forma di regionalismo, che forse dimentica che anche la provincia di Mantova, ad esempio, era parte dell'impero asburgico fino al 1866. Non so se i mantovani, oggi, stiano tenendo fede al culto della polemica, e si vantino di voler aspettare ancora cinque anni per festeggiare. Scritto così suona davvero strano, eppure non c'è molta differenza fra chi dei trentini ricorda che per vedere una Trento italiana si dovette aspettare il Trattato di Saint Germaine del 1919.
Vero: se consideriamo la ricorrenza di oggi come un mero anniversario di un evento, che si esaurisce in quel 17 marzo di 150 anni fa, non si capisce cos'avrebbero da festeggiare i trentini, i triestini, gli stessi romani, eccetera eccetera.
Ma la scelta del 17 marzo è la scelta di una data simbolo (l'incoronazione di Vittorio Emanuele II a re del regno d'Italia) per ricordare un movimento di lungo periodo, quello del Risorgimento. Ed il Risorgimento è stato innanzitutto un movimento d'idea, di cultura, di arte. Uno dei parti della nostra Storia di cui dobbiamo andare fieri; il Risorgimento è Mazzini ma anche Hayez, è Garibaldi ma anche Manzoni. Perché in realtà la festa della ricorrenza dell'Unità d'Italia è tutto questo: l'anniversario di un'idea che ha scosso un popolo come non mai. Un'idea che non si deve, e non si può, ricercare sui tratti artificiali di una carta geografica, ma nelle testimonianze, negli scritti, nei quadri, nei giornali (così importanti dopo il 1848!), nelle opere in genere. Il culto del popolo, che diviene il culto della nazione, come ha osservato lo storico George L. Mosse; un nazionalismo di tipo culturale, che rifugge dall'oggettiva condivisione di un territorio: l'appartenenza ad una comunità immaginata (mi rifaccio all'antropologo Benedict Anderson), l'invenzione di una tradizione (e qui il richiamo è allo storico Eric J. Hobsbawm).
E Trento? La Trento asburgica, che solo lo scorrere del sangue di una guerra mondiale porterà a vedere formalmente unita al regno d'Italia, quale forma di nazionalismo italiano poteva avere? Sarebbe semplice pensare ad un nazionalismo di tipo etnico ed oggettivo, che si limita al riconoscimento che i trentini erano d'etnia italiana, con una lingua italiana. Ma si tratterebbe di una valutazione piuttosto sterile, che pure ha accontentato in passato qualche storico (etnicista). Se invece superiamo questo velo, ed andiamo a ricercare se anche a Trento si ha quell'invenzione di una tradizione di cui si diceva prima, ci accorgiamo che in effetti proprio dalla metà dell'Ottocento si sviluppa l'idea di una Trento italiana. Una risposta all'idea tirolese di una grande Germania, ma anche il riconoscimento di un'appartenenza culturale che si sviluppa per imitazione dei contemporanei moti italiani (significativa l'apertura della 'civica biblioteca' nel 1850).
Nei fatti, la richiesta politica più urgente è in questo periodo quella di un Tirolo italiano (un Welschtirol), separato ed autonomo, attraverso la definizione di prerogative che poi verranno ben ereditate da un giovane Alcide De Gasperi, e col tempo porteranno alla definizione dell'attuale regione autonoma.
Ma faremmo un errore di valutazione se pensassimo che quel sogno di un'unione all'Italia si sia fermato a Borghetto, sul confine col Veneto: Trento è parte pulsante di un Risorgimento, che è innanzitutto la riscoperta di comuni radici culturali, la formazione di nuovi paradigmi di valore, che sono la radice dell'identità italiana. Ecco il significato di questa ricorrenza: è la possibilità di rivolgersi al passato per riscoprire il senso di un movimento che, dall'Illuminismo a Mike Bongiorno, ha portato infine a definire i valori di un'unità nazionale. In questi giorni in cui la cultura sta subendo le mortificazioni che ben sappiamo, in cui si sta perdendo ogni senso della Storia e del passato, festeggiare in questo presente un simbolico centocinquantesimo, da Bolzano a Bronte, da Quarto a Teano, è ciò che di meglio si possa fare. Perché, attraverso la grandezza del nostro passato (ed anche imparando dai suoi errori e contraddizioni), possiamo costruire un grande futuro. Per la nostra Italia.
Ma diffidiamo da revisionisti, da chi pretende di spiegare una realtà che non è mai esistita, solo per giustificare idee del presente. La realtà è che, quando si parla di Storia, ci si dovrebbe fermare un po' di più ad ascoltare gli storici. Non politici, non giornalisti, ma storici, e per esserlo non basta nemmeno scrivere di storia (occorre un percorso di studi, di confronto, in poche parole di 'specializzazione'). Ecco cosa intendo: il mio non è orgoglio di casta, ma vi chiedo, vorreste che a difendervi in tribunale fosse un avvocato o un panettiere, che le vostre case fossero frutto del lavoro di ingegneri ed architetti o di un salumiere?
Salvo illustri eccezioni (oggi col Corriere della Sera esce il volume sul Risorgimento della Storia d'Italia di Indro Montanelli, che come opera di divulgazione storica è sicuramente significativa), il giornalista che s'improvvisa storico è come il chiromante che s'improvvisa medico.
lunedì 29 dicembre 2008
Lefkandi
Ove serri la mischia nella piana di Dio,
non ci sarà groviglio di archi tesi
né di fionde. Sarà una lotta amara: la parola
alle spade.
[Archiloco]
non ci sarà groviglio di archi tesi
né di fionde. Sarà una lotta amara: la parola
alle spade.
[Archiloco]
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