giovedì 31 marzo 2011

Amicizia ai tempi di facebook

Se dovessi dividere in tre categorie le persone che conosco, e che considero in qualche modo mie amiche (anche lontanamente, o anche solo per abusare del vocabolo 'amico'), penso che le catalogherei in quelle con cui prenderei un tè, quelle con cui berrei un whiskey, e, infine, quelle che stimo di più, e con cui farei entrambe le cose. Solo una persona sfugge a questa catalogazione, ed è quella con cui passerei tutta la vita.

Parliamo della seconda categoria, quella delle amicizie 'da whiskey', in altro modo definibili come 'amicizie da bar', ma potrei anche chiamarle amicizie 'da concerto'. Sono quelle persone conosciute in una situazione di disimpegno, generalmente nella febbre del sabato sera; alcune sono diventate anche presenze costanti delle serate nei locali. Chiamarle amicizie è lecito, ma svilente verso un senso più alto di questo vocabolo; sappiamo però bene come l'avvento dei social network abbia dato un valore semantico nuovo a questo termine. Eccoci nel mondo maledetto di facebook, dove sotto il termine 'amicizie' possiamo trovare persone con cui magari non abbiamo nemmeno parlato, che conosciamo di vista, e che all'improvviso vogliono farci sapere che sono fans delle 'vecchiette che si sentono fighe anticipando le parole del prete in chiesa', o del 'burro di arachidi'. Siamo ormai nella quarta categoria, le amicizie 'da facebook', una nuova realtà sociale in cui anche i più restii (e di esempi ne potrei fare diversi) prima o poi cadono.

Finché si è nella goliardia, o nell'utilizzo di facebook come alternativa alla pausa caffè, il problema non si pone. Il vero rischio si ha quando scendono in campo valori diversi, opinioni politiche, di religione; quando, insomma, su facebook non si parla più del video dei Misfits, ma del centocinquantesimo dell'unità d'Italia, del presidente del consiglio o di antisemitismo. Allora quel palco costruito, quella gerarchia delle amicizie, crolla e rivela la sua fragilità: quando, intendo, l'amico che consideravamo 'da whiskey' esce dal suo ruolo di personaggio del sabato sera, e si palesa nella sua interezza di uomo. Con le sue idee, spesso figlie di principi del tutto in opposizione con i nostri.
Allora: come reagire? Restare nella superficialità delle simpatie occasionali, chiudere gli occhi sulle nuove scoperte di un'inconciliabilità di valori (d'altronde era già un sospetto, dal momento che queste amicizie erano rimaste nella categoria del 'whiskey' e non eran passate a quelle 'da té'), o essere tanto fedeli alle proprie idee da mettere a repentaglio l'intero costrutto delle amicizie occasionali?

L'unica certezza è che facebook - anche nelle questioni ben più serie - ha cambiato il senso delle strutture del pensiero e della cultura di quasi ognuno di noi.

domenica 27 marzo 2011

Il pasticcio italiano nella questione libica

Vi siete mai trovati in quella situazione orribile di avere due amici che litigano fra loro? Letteralmente è come essere fra il martello e l'incudine, ascolti uno e ti pare che abbia ragione, poi vai dall'altro e rivedi le tue idee. Se poi prendi le difese di uno, è facile che ti ritrovi a litigare con l'altro. Una situazione in cui si potrebbe uscire esercitando la difficile arte della mediazione, ma non sempre è possibile.
Ecco: la situazione italiana (da leggersi 'del governo italiano'), alla vigilia della guerra in Libia, era questa. Da una parte l'amico Gheddafi, quello che nell'agosto scorso era stato invitato in Italia con tutti gli onori, dall'altra la cosiddetta comunità internazionale, che non poteva restare ferma a guardare il primo massacrare il suo stesso popolo. 
Andiamo con ordine. In un bellissimo libro [1], anche se ha già qualche anno (è del 1998), il geografo Giacomo Corna Pellegrini sottolineava le tre correnti culturali che caratterizzavano il paesaggio libico. Da una parte la Libia colonia italiana, che sopravvive nell'edilizia di stile "fascista", ma anche in elementi culturali "rinforzati recentemente dalla visione delle televisioni italiane". Vi è poi "l'antica tradizione locale, di cui Re Idris era espressione" che, ci dice Corna Pellegrini, "sopravvive nei circoli familiari, nelle campagne, tra le generazioni più vecchie (nelle modalità del vestire, dell'abitare, del rapportarsi tra uomini e donne, vecchi e giovani). La Libia moderna è quella, invece, cui il petrolio ha cambiato volto e cui la dittatura" - sì, che in Libia vi fosse una dittatura, meglio chiarirlo, lo si sapeva ben prima della ribellione di quest'anno - "ha impresso la durezza della repressione d'ogni opposizione politica all'interno". 
Ma il primo elemento per descrivere la nuova Libia, Corna Pellegrini lo trovava proprio nel petrolio. Leggendo questa descrizione, alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni, allora torna alla mente ciò che aveva scritto Eduardo Galeano, in occasione di un altro intervento occidentale a favore della democrazia: "Se l'Iraq producesse rape invece che il greggio a chi verrebbe in mente d'invadere Bagdad?"[2] . La reazione di Gheddafi è stato il casus belli, l'occasione che nazioni come la Francia stavano aspettando per ridiscutere la divisione dell'oro nero libico.
Di per sé è un capolavoro di diplomazia, un affare colossale. Certo, basta un minimo d'intelligenza per capire come il petrolio sia un elemento chiave della guerra libica. Ma d'altra parte, l'opinione pubblica, quella che generalmente si schiera contro ogni guerra, comprende che senza l'intervento militare di potenze occidentali il dittatore sarebbe stato libero di soffocare nel sangue le ribellioni del popolo.

Ritorniamo alla metafora dei due amici che litigano fra loro. L'Italia è proprio in questa situazione: è la maggiore importatrice del petrolio libico [3], e per questo motivo non può evitare un intervento, che le permetta di sedere all'eventuale tavolo dei vincitori della guerra. Ma non può nemmeno palesarsi come conquistatrice di un paese con cui ha di recentemente stretto un trattato di amicizia. Trattato in cui, fra l'altro, era esplicitata la promessa di non-attacco reciproco fra Italia e Libia.
Insomma: quello che per gli altri paesi è un capolavoro di diplomazia (la possibilità di intervenire per i propri interessi, con la scusa di proporsi come difensori dell'ordine del mondo), per l'Italia è un gran casino!

La soluzione di Berlusconi è stata in linea con il suo ruolo di magnate televisivo. Ancora una volta è riuscito ad orchestrare una via mediana, in cui ha tentato di cercare definizioni proprie, che gli permettessero di uscire da quest'impiccio. Lo ha fatto parlando a giornali e televisioni, ma decidendo (e probabilmente non è un caso!) di non esporsi a Senato e Camera, dove l'autorizzazione all'intervento in Libia è stata richiesta dai ministri Frattini e La Russa. In pratica, la linea del presidente del consiglio è stata quella di partecipare alla guerra, ma dichiarando che l'Italia non è in guerra (che contraddizione di termini!). Di più: che degli aerei italiani stavano in effetti volando sui cieli libici per collaborare alle operazioni militari, ma che non avrebbero sparato nessun colpo (come se fosse già possibile prevedere in anticipo l'evolversi di un conflitto militare!). Così l'Italia ne esce come la Rosalia dei Malavoglia, ancora "né carne, né pesce", a metà strada fra una scelta e l'altra, senza alcuna forza per imporsi. Un presidente con ancora le terga al vento, che tenta di riallacciarsi i pantaloni, ma non ci riesce.

opere citate / note:
[1] G. C. PELLEGRINI, Il mosaico del mondo. Esperimento di geografia culturale, Roma: Carocci, 1998, pp. 183-184.
[2] cit. in P. BATTISTA, I neopacifisti e il petrolio. Torna il partito di 'chi non se la beve', Il Corriere della Sera, giovedì 24 marzo 2011, p. 3
[3] http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=36895

mercoledì 23 marzo 2011

AAA Cercasi amica

Ultimamente sono molto interessato ai rapporti sociali, quelli che uno storico francese (Maurice Agulhon) ha definito genericamente come la socialité (tradotto in italiano come sociabilità). Lo sono da un punto di vista accademico, dato che sto studiando per una tesi che, da questo concetto, trae le sue radici. Ma, al di là della categoria meramente sociologica e storiografica, andando a considerare gli aspetti più istintivi e meno intellettualoidi, mi son reso conto di avere uno strano interesse per come le persone si relazionino. E' brutto a dirsi, ma è come se a volte mi trovassi a guardare le persone che mi circondano come un biologo osserva gli animali in una savana; anzi no, meglio: come un bambino allo zoo, perché il mio non è un interesse pienamente scientifico, ma solo una curiosità.

1.

Così, un paio di settimane fa, prima di una lezione in Università, ho notato questo ragazzo che parlava con una donna. Lui tutto affannato a raccontare l'elenco degli argomenti delle lezioni che aveva seguito quella mattina, lei tutta presa a fregarsene. Guardando lui, sembrava che avesse di fronte la migliore delle sue amiche. Guardando lei, sembrava che fosse importunata da uno sconosciuto. E allora cosa spingeva lui a restare lì, quasi uno zimbello del disinteresse di lei? Non poteva essere attrazione istintiva, interesse sessuale (che, soprattutto in un uomo, sappiamo come possa far perdere il contatto con la realtà), né lui me lo immagino innamorato di lei: il ragazzo sarà stato poco più che ventenne, la donna invece già sui quarant'anni. Poteva essere appunto amicizia, ma allora perché questa dicotomia di interesse? Questa palpabile e malcelata incomprensione? 

Mi son reso conto che i rapporti umani sono quasi sempre un'incomprensione. Scriveva Philip Roth:

"Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario,  camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d'incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l'intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati."*

Qualche tempo fa, prima di leggere queste parole, mi ero convinto che quest'incomprensione fosse un errore. Che tutta l'idea di una sociabilità per forza fosse un errore. Che in realtà non me ne importasse proprio nulla di vantare una lista di conoscenze ed amicizie da esibire, perché ero stufo di dover recitare per attirare l'attenzione altrui. Anche quando ero pienamente sincero, sincero fino al più profondo midollo osseo, mi sembrava che la gente faticasse a capirmi del tutto. Perché non poteva essere con me 24 ore su 24, né aveva la mia mente, né la mia sensibilità, né poteva leggere i miei pensieri. Il risultato era che ad una serie di rapporti mutili, mi ero convinto fosse meglio una sorta di solitaria misoginia. Chiudere la porta e vivere da soli, ribadendo Philip Roth.

Da una partre ero diventato come quella donna, quella che nemmeno fingeva interesse per quell'altro animale umano che le stava di fronte. Avevo elaborato una sfiducia per le altre persone, e negli altri non trovavo nulla d'interessante. E poi, da un altro punto di vista, mi sembrava che nessuno riuscisse a capirmi (né volesse farlo). Capite il paradosso? Mi sentivo vittima di quell'incomprensione, ed intanto ero il primo a non voler capire gli altri. 

Beh, avevo un salvagente, ed anche molto buono. Avevo la mia ragazza, che poteva sempre essermi accanto, anche solo per ascoltare le mie cazzate o i miei deliri di pseudo-serietà. Per un po' di tempo pensavo persino di aver trovato la formula della felicità: sostituire il bisogno di quei rapporti che sembravano sbagliati con altri interessi, come lo studio, la musica, la chitarra. Ed un rapporto sentimentale fisso. 
Scritto così sembra il diario di un vecchio, ed un po' scherzando lo dicevo davvero di essere un vecchio. Poi avevo sempre meno energie, l'Università mi stava occupando i minuti ed i pensieri, nei weekend lavoravo. Il risultato è che nell'ottobre scorso si è sgonfiato anche il salvagente, ed ho iniziato ad affondare. Pensavo di aver imparato a nuotare, ed invece affogavo.

A bracciate mi son riportato a galla, ritrovando il salvagente, ma con la paura di annegare ancora, ho provato ad imparare a nuotare. Ora sono nella situazione in cui sto migliorando nel mio atteggiamento verso gli altri; funestato dalla paura più grande, cosmica, che tormenta ogni uomo - la paura di essere solo - sto provando a lasciare alle spalle parte della mia incapacità di capire gli altri. Accettando, allo stesso tempo, il concetto che "capire bene la gente non è vivere".  

2.

Tempo fa, un mio professore, dopo un esame orale, mi disse: "Lei scrive molto meglio di come parla". Scherzava, e citandolo ora non dico che sono un artista della parola, anche se fra queste pagine potete intuire quanto ami scrivere. La questione è un'altra: sono maledettamente timido. Non guardo mai le persone negli occhi, se mi sento al centro dell'attenzione mi trema la voce, e capita delle volte che torni a casa dicendomi 'forse avrei potuto rispondere meglio' ad una domanda che mi è stata posta. Non è una mia caratteristica cronica; in genere mi basta conoscere meglio una persona (o capire che questa persona mi accetta), per perdere gran parte di questa timidezza. In alcuni casi, con alcune persone misteriose, riesco persino ad essere a mio agio da subito: credo però si contino sulle dita di una mano (e generalmente sono sempre più timido con le persone di sesso femminile, per un'eredità che mi porto dietro dai tempi delle scuole).
Questa timidezza è un po' frustante, ma c'è persino chi la vede come un pregio. 
Ma è, soprattutto, la prima causa di un'incomprensione negativa, che gli altri tendono ad avere nei miei confronti. C'è chi crede che io sia un po' snob, invece che timido. Lo voglio scrivere qui, anche se non lo leggerà nessuno: non offendetevi per i miei silenzi, per i miei sguardi che fuggono, per la mia confusione. Sono una parte di me di cui non posso fare a meno del tutto.

3.

[AAA. Cercasi amica, con cui condividere ansie, frustrazioni, deliri, con cui scambiare caffeina e consigli.

4. 

No, questo blog non voleva essere un annuncio per la ricerca di una persona. Sarei ciò che bonariamente si definisce uno sfigato
Di per sé non mi sento ancora pienamente appagato dalla mia vita sociale. Ma ho un atteggiamento che credo un giorno mi darà soddisfazioni: inizio a diffidare sempre meno delle persone, ed aspetto quando sempre meno persone diffideranno di me. Senza la necessità di fingere, con la certezza che la solitudine si sconfigge a colpi d'incomprensione, con l'ostinatezza che la consapevolezza di essere vivi, tornando a Philip Roth, la si ritrova solo sbagliando. E l'esperienza, come scrisse Oscar Wilde, "è semplicemente il nome che gli uomini danno ai propri errori".
Se poi c'è chi vuole rispondere davvero al finto-annuncio, può sempre invitarmi a prendere un caffé.


opera citata:
*: PHILIP ROTH, Pastorale Americana, Torino: Einaudi, 1998, pagg. 40-41

giovedì 17 marzo 2011

Il senso di essere trentini, e festeggiare il 150° dell'Unità d'Italia

Mi sorprende la fissazione che molti hanno per i confini geografici. Festeggiare oggi i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia è per molti festeggiare la cartina di un'Italia unita in senso geografico, dimenticando forse che per la breccia di porta Pia son serviti ulteriori dieci anni. Chiarisco: la scelta del 17 marzo 1861 come data simbolica è giusta e doverosa, rientra nel novero di quelle date simboliche che si devono ricordare. Ma dietro queste date simboliche c'è sempre qualcosa di più, è quella che gli storici la prospettiva di lungo periodo. Come potremmo pensare al viaggio di Colombo, data simbolica del 1492, dimenticando le scoperte della tecnica fra il XIV e il XV secolo? E gli esempi da fare sarebbero molti, chi studia storia lo sa.

Così c'è chi, e lo scrive vantandosene su facebook, osserva che il 17 marzo 1861 Trento era al di fuori dei confini italiani. Strana forma di regionalismo, che forse dimentica che anche la provincia di Mantova, ad esempio, era parte dell'impero asburgico fino al 1866. Non so se i mantovani, oggi, stiano tenendo fede al culto della polemica, e si vantino di voler aspettare ancora cinque anni per festeggiare. Scritto così suona davvero strano, eppure non c'è molta differenza fra chi dei trentini ricorda che per vedere una Trento italiana si dovette aspettare il Trattato di Saint Germaine del 1919. 
Vero: se consideriamo la ricorrenza di oggi come un mero anniversario di un evento, che si esaurisce in quel 17 marzo di 150 anni fa, non si capisce cos'avrebbero da festeggiare i trentini, i triestini, gli stessi romani, eccetera eccetera.

Ma la scelta del 17 marzo è la scelta di una data simbolo (l'incoronazione di Vittorio Emanuele II a re   del regno d'Italia) per ricordare un movimento di lungo periodo, quello del Risorgimento. Ed il Risorgimento è stato innanzitutto un movimento d'idea, di cultura, di arte. Uno dei parti della nostra Storia di cui dobbiamo andare fieri; il Risorgimento è Mazzini ma anche Hayez, è Garibaldi ma anche Manzoni. Perché in realtà la festa della ricorrenza dell'Unità d'Italia è tutto questo: l'anniversario di un'idea che ha scosso un popolo come non mai. Un'idea che non si deve, e non si può, ricercare sui tratti artificiali di una carta geografica, ma nelle testimonianze, negli scritti, nei quadri, nei giornali (così importanti dopo il 1848!), nelle opere in genere. Il culto del popolo, che diviene il culto della nazione, come ha osservato lo storico George L. Mosse; un nazionalismo di tipo culturale, che rifugge dall'oggettiva condivisione di un territorio: l'appartenenza ad una comunità immaginata (mi rifaccio all'antropologo Benedict Anderson), l'invenzione di una tradizione (e qui il richiamo è allo storico Eric J. Hobsbawm).

E Trento? La Trento asburgica, che solo lo scorrere del sangue di una guerra mondiale porterà a vedere formalmente unita al regno d'Italia, quale forma di nazionalismo italiano poteva avere? Sarebbe semplice pensare ad un nazionalismo di tipo etnico ed oggettivo, che si limita al riconoscimento che i trentini erano d'etnia italiana, con una lingua italiana. Ma si tratterebbe di una valutazione piuttosto sterile, che pure ha accontentato in passato qualche storico (etnicista). Se invece superiamo questo velo, ed andiamo a ricercare se anche a Trento si ha quell'invenzione di una tradizione di cui si diceva prima, ci accorgiamo che in effetti proprio dalla metà dell'Ottocento si sviluppa l'idea di una Trento italiana. Una risposta all'idea tirolese di una grande Germania, ma anche il riconoscimento di un'appartenenza culturale che si sviluppa per imitazione dei contemporanei moti italiani (significativa l'apertura della 'civica biblioteca' nel 1850). 

Nei fatti, la richiesta politica più urgente è in questo periodo quella di un Tirolo italiano (un Welschtirol), separato ed autonomo, attraverso la definizione di prerogative che poi verranno ben ereditate da un giovane Alcide De Gasperi, e col tempo porteranno alla definizione dell'attuale regione autonoma. 
Ma faremmo un errore di valutazione se pensassimo che quel sogno di un'unione all'Italia si sia fermato a Borghetto, sul confine col Veneto: Trento è parte pulsante di un Risorgimento, che è innanzitutto la riscoperta di comuni radici culturali, la formazione di nuovi paradigmi di valore, che sono la radice dell'identità italiana. Ecco il significato di questa ricorrenza: è la possibilità di rivolgersi al passato per riscoprire il senso di un movimento che, dall'Illuminismo a Mike Bongiorno, ha portato infine a definire i valori di un'unità nazionale. In questi giorni in cui la cultura sta subendo le mortificazioni che ben sappiamo, in cui si sta perdendo ogni senso della Storia e del passato, festeggiare in questo presente un simbolico centocinquantesimo, da Bolzano a Bronte, da Quarto a Teano, è ciò che di meglio si possa fare. Perché, attraverso la grandezza del nostro passato (ed anche imparando dai suoi errori e contraddizioni), possiamo costruire un grande futuro. Per la nostra Italia.

Ma diffidiamo da revisionisti, da chi pretende di spiegare una realtà che non è mai esistita, solo per giustificare idee del presente. La realtà è che, quando si parla di Storia, ci si dovrebbe fermare un po' di più ad ascoltare gli storici. Non politici, non giornalisti, ma storici, e per esserlo non basta nemmeno scrivere di storia (occorre un percorso di studi, di confronto, in poche parole di 'specializzazione'). Ecco cosa intendo: il mio non è orgoglio di casta, ma vi chiedo, vorreste che a difendervi in tribunale fosse un avvocato o un panettiere, che le vostre case fossero frutto del lavoro di ingegneri ed architetti o di un salumiere?
Salvo illustri eccezioni (oggi col Corriere della Sera esce il volume sul Risorgimento della Storia d'Italia di Indro Montanelli, che come opera di divulgazione storica è sicuramente significativa), il giornalista che s'improvvisa storico è come il chiromante che s'improvvisa medico.

giovedì 10 marzo 2011

La laurea serve ancora [di Beppe Severgnini]


Cito un articolo di Beppe Severgnini, giornalista del Corriere della Sera, apparso sulla sua rubrica online [http://www.corriere.it/italians/], oggi 10 marzo 2011. Una voce fuori dal coro, finalmente, e con cui - manco a dirlo, da studente universitario - concordo appieno!


La laurea serve ancora

Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio. Certo: in Italia c'è qualcuno, particolarmente dotato, che riesce a unire le due cose. Ma il poeta aveva capito. Quando entriamo nell'età dei padri, diventiamo paternalisti.

Perdonate quindi se, dopo aver letto i dati (Almalaurea) sull'università italiana, esprimo un'opinione. Non è proprio un consiglio. Diciamo un suggerimento strategico.

Un laureato 2005 ha oggi una busta-paga media di 1.295 euro; fosse andato all'estero sarebbe a 2.025 euro. I laureati che hanno trovato lavoro in Italia, un anno dopo la laurea, sono scesi del 7% (periodo 2007/2009). Il calo delle iscrizioni (meno 9% in quattro anni) mostra un cambiamento demografico (meno diciannovenni) ma anche la scarsa fiducia delle famiglie nello studio come mezzo di avanzamento.

Posso dirlo? Sbagliano. Se un ragazzo ha voglia di studiare, ed è portato per gli studi, non deve farsi spaventare. Per il bene suo e del Paese. L'università è un investimento su noi stessi, come ha ricordato Irene Tinagli sulla "Stampa". E, insieme alla scuola pubblica, resta l'ultimo grande frullatore sociale, capace di mescolare redditi censo e geografia. Se si ferma quello, siamo fritti.

E' vero che i giovani connazionali hanno motivi di protestare ("Uno spreco di risorse che li avvilisce e intacca gravemente l'efficienza del sistema produttivo", ha riassunto Mario Draghi). Ma studiare paga, anche in senso letterale. "Non bisogna guardare solo le retribuzioni iniziali - spiega Andrea Cammelli, presidente di Almalaurea - Se consideriamo l'intera vita lavorativa, un diplomato guadagna 100 e un laureato 155".

Voi direte: d'accordo, studiare. Ma dove, quanto, cosa? Semplifico (e mi scuso con i ragazzi).

DOVE In una buona università lontano da casa (a diciannove anni fa bene!). Vivere e studiare in una T Town (Trieste, Trento, Torino) o in una P City (Pavia, Pisa, Parma, Piacenza, Padova, Perugia, Palermo) cambia la prospettiva. Una laurea al Politecnico di Milano ha lo stesso valore legale di una laurea all'università di Bungolandia: ma un valore intellettuale, morale, sociale, pratico ed economico molto diverso. Le "università tascabili" fondate per accontentare sindaci, governatori, partiti e docenti hanno il destino segnato.

QUANTO Con ragionevole urgenza. I "fuori corso" sono malinconiche figure del XX secolo. Deve studiare chi sa farlo e ha voglia di farlo. Le università sono laboratori per il cervello, non parcheggi per natiche stanche.

COSA Quello che volete. Rifiutate il giochino, caro ai genitori, "quale facoltà offre più opportunità di lavoro". Tutte ne offrono, se avete attitudine, grinta, entusiasmo e successo. Nessuna ne offre, se vi rassegnate alla mediocrità. Scegliere per esclusione - magari giurisprudenza, rifugio degli indecisi - è una follia. Nei concorsi e negli studi professionali troverete ragazze e ragazzi che l'hanno scelta per passione e predisposizione; e vi faranno a fette. Un destino da salami, interamente meritato.

Beppe Severgnini 

mercoledì 9 marzo 2011

Il nuovo intervento del blog

Dovrei scrivere qualche nuovo intervento sul blog, se non altro perché ho qualche pensiero che mi ronza in testa da qualche giorno, e questo sarebbe il posto giusto dove esternarlo. Il problema è che ci sono molte cose che dovrei fare, e che non riesco a fare, quindi anche il nuovo intervento del blog può essere una di queste! Almeno ancora per un po'!

Scusate l'italiano poco corretto, e con molte ripetizioni. Fra le cose che devo fare c'è l'andare a dormire!