Visualizzazione post con etichetta blog. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta blog. Mostra tutti i post

sabato 31 dicembre 2011

Whatever will be

«Vedo che i giovani d'oggi s'industriano con ogni mezzo a dimenticare il tempo vivendo un eterno presente senza passato e senza futuro. Ma non è facile dimenticare il tempo. Noi ne siamo intrisi, la nostra identità è nutrita dal sentimento del tempo, la nostra differenza da tutte le altre specie viventi consiste in quel sentimento che soltanto a noi è riservato.» E. Scalfari

Odio ed amo questa mia personale tradizione, di fare un bilancio della mia vita ogni primo gennaio (più o meno, oggi è il 31, non stiamo a sindacare). Credo siano molti che, molto tristemente, ogni nuovo calendario s'accorgono che un altro anno è passato. Che il tempo scorre, e non lo si può fermare. Per me non è un dramma, è solo un cambio di calendario, uno fra i tanti che ancora mi aspettano. O almeno lo spero.

***

Bene, è una tradizione, quindi. Lo è diventata; è dal 2009 che rendo pubblico ciò che penso di me, ogni inizio di anno nuovo. Da cosa posso partire, per fare un bilancio? Ovviamente dal rileggere ciò che scrivevo gli altri anni:

2009  //  2010  //  2011

Mi fa uno strano effetto rileggermi. In primis, perché mi rendo conto che sono un mare di retorica. Non sempre, sia chiaro, ma forse il parlare di me stesso mi rende più melodrammatico. Ed anche un po' triste. Forse preferisco semplicemente scrivere degli altri, di personaggi veri o inventati, raccontare storie altrui, non la mia. Perché quando ci si guarda dentro è sempre un po' pericoloso, il rischio è di trovare lati che non pensavi di avere, oppure che tenevi nascosti, tappandoti le orecchie a più non posso. Va beh, facciamolo.

***

Retorica, appunto. Quella che mi spingeva l'anno scorso a ripromettermi di tuffarmi nel mare, rischiando di rompermi le ossa o di nuotare finalmente. L'ho fatto? Ma va! Non potevo sperare davvero che il 2011 cambiasse la mia vita. Per farlo, avevo bisogno di un numero pari. Il 2012 è l'anno giusto! Come suona bene… duemilaedodici…duemilaedodici… lo ripeterei per un anno intero… duemilaedodici… Quando ti sei laureato? Nel duemilaedodici! Bingo!

Non lo credo davvero. Non credo che sarà il prossimo, l'anno della svolta. Però, a quanto pare, sarà davvero l'anno della mia laurea. Se i Maya non metteranno lo zampino, anticipando di qualche mese la fine del mondo, l'anno prossimo sarò un dottoredelbucodelculvaffanculvaffancul. Non male, primo obiettivo raggiunto, ranger. La missione continua.

***

Tempo di bilanci, allora. Cosa c'è stato davvero di buono nel 2011? Ho conosciuto nuove persone, ed ho trovato nuovi stimoli. Di per sé ho continuato a percorrere la stessa identica strada, ma finalmente qualcuno si sta accorgendo di me. Non miro affatto ad un riconoscimento, ma che qualcosa mi venga riconosciuto, non posso fingere che non mi faccia piacere. Sto trovando nuovi spazi per esprimermi, nuove pagine bianche da riempire, nuovi mondi da esplorare (la missione continua, appunto). 
Accanto a me ho sempre la luce di quello stesso faro, sempre più luminosa. Non è una candela, è una costellazione di immensità, è un universo di irrazionale potere. Senza lei non sarei io, l'io di adesso. Penso questo, questa è la mia idea.

***

Allora, per il nuovo anno per una volta non mi auguro un cambiamento. Non per forza qualcosa che sconvolga la mia vita. Intanto, mi basta continuare così. Poi… que sera, sera, whatever will be, will be.

lunedì 10 ottobre 2011

Sotto il melo

Sono ostaggio di altri pianeti, confinato nella clessidra del tempo che scorre. E sacrifico proprio voi, miei adorati Epitaffi Viventi!
Verrà il tempo di mele più rosse, che cresceranno anche su questi rami, che non posso - né voglio - dimenticare.

Pazienza, fantasia e tempo. Soprattutto tempo. Ditemi che di tempo ne ho ancora a valanghe.. e che potrò in eterno essere il Conrad Siever del web.

Per ora, ho iniziato anche a collaborare con un Magazine online, che, se dovessi banalizzare, definirei 'locale' o 'della mia regione'.
Lo scovate qui: http://www.larotaliana.it/
e qui i miei articoli: http://www.larotaliana.it/home/le-cronache/itemlist/user/232-danieleerler.html
Nel mio piccolo, ne vado fiero.

lunedì 8 agosto 2011

Piccolo "appello"

Mi son reso conto che stanno aumentando i 'mi piace'..Quelli anonimi, sotto ai miei interventi, incredibile ma vero! Non voglio esagerare con l'egocentrismo, però permettetemi di dedicarmi e dedicarvi qualche, brevissimo, pensiero.
Non m'importa molto che ciò che scrivo piaccia a qualcuno. Anzi, mi spiego meglio: mi rende felicissimo riuscire ad interessare degli amici, dei conoscenti, o persino delle persone che capitano qui per caso! Ma ancor più adoro sapere che ciò che scrivo sia, semplicemente, letto da qualcuno! 

Alla fine mi son sempre convinto che un blog auto-coltivato, come un piccolo orto dove riversare i miei pensieri, fosse l'unico obiettivo che volessi conseguire..scrivere qui di ciò che mi solletica la mente, solo per volerlo fare! Ma non prendiamoci in giro, se davvero mi accontentassi di questo, beh.. terrei un diario in un  quaderno da quattro soldi, piuttosto che scrivere il tutto online. In fondo, ho sempre sperato che venisse il giorno in cui mi rendessi conto che c'è qualcuno che legge! Perché? Uhm..a dire il vero non so.. mi piace e basta! L'animo umano ricava soddisfazione ed appagamento dalle cose più strane!

Ora, vi chiedo.. ma chi siete? chi siete voi che ogni tanto mettete 'mi piace'? Chi siete voi che leggete? Perché lo fate? Come siete capitati qua? Ci tornerete?
Perdonatemi, ma muoio di curiosità!

PS: lo scorso primo di agosto il blog ha compiuto tre anni.. gulp! gasp!

lunedì 13 giugno 2011

I Referendum e la sconfitta del demagogo

Tutto maggio, e questa prima porzione di giugno, ho faticato a trovare il tempo per coltivare quel mio modesto piacere che questo blog rappresenta. I motivi sono i soliti: impegni universitari, a cui si alternano alcune soddisfazioni personali.
Ma ora, seppure con degli esami molto complicati alle porte, non posso evitare di esprimere i miei pensieri su quanto sta avvenendo nel mio Paese.

*

Quando ero molto giovane, ai tempi delle elementari, non capivo bene cosa fosse il Referendum. Avevo più coscienza di cosa fosse il nucleare, se non altro perché nel mio paese, ogni anno, venivano dei ragazzini bielorussi, ospitati per respirare aria pulita, e purificarsi dalle radazioni respirate dopo Černobyl’. Ebbene: l’idea che questi vispi coetanei fossero costretti a venire da noi per avere un’aria pura, che permettesse loro di vivere meglio, mi inquietava e continua ad inquietare oggi. Il nucleare per me era il male assoluto, stigmatizzato anche dalle pagine che avevo letto su Hiroshima e Nagasaki; uno dei classici, incomprensibili, parti di malvagità degli adulti. Ma, come una luce di speranza, come un lieto fine in una fiaba cupa, ecco che la spada del Bene aveva trionfato sul Male. Grazie a questo strumento strano, che gli adulti chiamavano Referendum, la paura di un disastro nucleare sembrava (almeno un poco) più lontana: ero così fiero della scritta COMUNE DENUCLEARIZZATO sotto al cartello del mio paese.

*

Sono cresciuto, ma non ho cambiato la mia idea. Ho qualche coscienza in più, ora so che cos’è il Referendum, e delle centrali nucleari so anche il pericolo rappresentato non solo dalla loro esistenza, ma anche dalle scorie che producono. So che un’energia pulita, ben più efficace di quelle ora conosciute, è possibile, ma solo con un sostegno alla ricerca. Ogni grande momento di progresso nella Storia, leggasi pure ogni ‘rivoluzione industriale’, si è accompagnata ad un cambiamento della fonte di energia. Puntare oggi su una fonte vecchia e pericolosa, avrebbe favorito soltanto chi su questa fonte può lucrare. Un anacronismo, che anche una visione conscia dell'attualità - con Giappone, Germania ed altre nazioni che si avviano ad una de-nuclearizzazione sempre maggiore - può suffragare. È così deprimente che, per render legge un NO AL NUCLEARE, che dovrebbe essere fondamento della storia umana contemporanea, serva ancora un Referendum. È così esaltante che ancora una volta, come a fine anni Ottanta, il popolo italiano si ritrovi, per una volta, UNITO. In un NO AL NUCLEARE, enorme come il quorum fieramente raggiunto.

*

Ma sarebbe stupido commentare un Referendum dimenticando che, appena due settimane fa, ci sono state altre elezioni, che hanno visto una sconfitta generalizzata dei candidati del centro-destra. L'attuale maggioranza parlamentare ha fatto i conti con un'altra maggioranza, quella fatta non di poltroncine romane e sterili polemiche in salotti televisivi, ma di persone che, unite, hanno urlato la loro stanchezza. Il governo, che si arrocca su quelle stesse poltrone, aggrappandosi agli specchi con unghie di mani e piedi, attraverso questi Referendum ha ancora prova di quanto il popolo italiano sia stanco. Berlusconi, ormai privo di ogni contatto con la realtà, aveva chiesto di NON votare. Gli italiani hanno votato. Anche contro quel suo scudo, così personalmente voluto (e che tanto tempo ha rubato agli affari di governo), che gli permetteva di proteggersi con la scusa del legittimo impedimento.
Sarebbe sbagliato leggere il Referendum di questi giorni come un Referendum PRO o CONTRO Berlusconi. Ma trovo pienamente sensato scrivere che Berlusconi, a distanza di poche settimane, ha avuto prova della disaffezione anche dei suoi stessi elettori. È la morte della sua arma più forte, un ribaltamento della demagogia, la sconfitta del suo carisma. Berlusconi è sconfitto, Berlusconi è finito. Anche se cercherà di legarsi al suo ruolo per tutti gli anni che è possibile, ormai è solo l'ultima scoria del passato. E noi siamo quasi come quei bambini bielorussi, abbiamo così tanto bisogno, finalmente, di aria pulita.

mercoledì 23 marzo 2011

AAA Cercasi amica

Ultimamente sono molto interessato ai rapporti sociali, quelli che uno storico francese (Maurice Agulhon) ha definito genericamente come la socialité (tradotto in italiano come sociabilità). Lo sono da un punto di vista accademico, dato che sto studiando per una tesi che, da questo concetto, trae le sue radici. Ma, al di là della categoria meramente sociologica e storiografica, andando a considerare gli aspetti più istintivi e meno intellettualoidi, mi son reso conto di avere uno strano interesse per come le persone si relazionino. E' brutto a dirsi, ma è come se a volte mi trovassi a guardare le persone che mi circondano come un biologo osserva gli animali in una savana; anzi no, meglio: come un bambino allo zoo, perché il mio non è un interesse pienamente scientifico, ma solo una curiosità.

1.

Così, un paio di settimane fa, prima di una lezione in Università, ho notato questo ragazzo che parlava con una donna. Lui tutto affannato a raccontare l'elenco degli argomenti delle lezioni che aveva seguito quella mattina, lei tutta presa a fregarsene. Guardando lui, sembrava che avesse di fronte la migliore delle sue amiche. Guardando lei, sembrava che fosse importunata da uno sconosciuto. E allora cosa spingeva lui a restare lì, quasi uno zimbello del disinteresse di lei? Non poteva essere attrazione istintiva, interesse sessuale (che, soprattutto in un uomo, sappiamo come possa far perdere il contatto con la realtà), né lui me lo immagino innamorato di lei: il ragazzo sarà stato poco più che ventenne, la donna invece già sui quarant'anni. Poteva essere appunto amicizia, ma allora perché questa dicotomia di interesse? Questa palpabile e malcelata incomprensione? 

Mi son reso conto che i rapporti umani sono quasi sempre un'incomprensione. Scriveva Philip Roth:

"Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario,  camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d'incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l'intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati."*

Qualche tempo fa, prima di leggere queste parole, mi ero convinto che quest'incomprensione fosse un errore. Che tutta l'idea di una sociabilità per forza fosse un errore. Che in realtà non me ne importasse proprio nulla di vantare una lista di conoscenze ed amicizie da esibire, perché ero stufo di dover recitare per attirare l'attenzione altrui. Anche quando ero pienamente sincero, sincero fino al più profondo midollo osseo, mi sembrava che la gente faticasse a capirmi del tutto. Perché non poteva essere con me 24 ore su 24, né aveva la mia mente, né la mia sensibilità, né poteva leggere i miei pensieri. Il risultato era che ad una serie di rapporti mutili, mi ero convinto fosse meglio una sorta di solitaria misoginia. Chiudere la porta e vivere da soli, ribadendo Philip Roth.

Da una partre ero diventato come quella donna, quella che nemmeno fingeva interesse per quell'altro animale umano che le stava di fronte. Avevo elaborato una sfiducia per le altre persone, e negli altri non trovavo nulla d'interessante. E poi, da un altro punto di vista, mi sembrava che nessuno riuscisse a capirmi (né volesse farlo). Capite il paradosso? Mi sentivo vittima di quell'incomprensione, ed intanto ero il primo a non voler capire gli altri. 

Beh, avevo un salvagente, ed anche molto buono. Avevo la mia ragazza, che poteva sempre essermi accanto, anche solo per ascoltare le mie cazzate o i miei deliri di pseudo-serietà. Per un po' di tempo pensavo persino di aver trovato la formula della felicità: sostituire il bisogno di quei rapporti che sembravano sbagliati con altri interessi, come lo studio, la musica, la chitarra. Ed un rapporto sentimentale fisso. 
Scritto così sembra il diario di un vecchio, ed un po' scherzando lo dicevo davvero di essere un vecchio. Poi avevo sempre meno energie, l'Università mi stava occupando i minuti ed i pensieri, nei weekend lavoravo. Il risultato è che nell'ottobre scorso si è sgonfiato anche il salvagente, ed ho iniziato ad affondare. Pensavo di aver imparato a nuotare, ed invece affogavo.

A bracciate mi son riportato a galla, ritrovando il salvagente, ma con la paura di annegare ancora, ho provato ad imparare a nuotare. Ora sono nella situazione in cui sto migliorando nel mio atteggiamento verso gli altri; funestato dalla paura più grande, cosmica, che tormenta ogni uomo - la paura di essere solo - sto provando a lasciare alle spalle parte della mia incapacità di capire gli altri. Accettando, allo stesso tempo, il concetto che "capire bene la gente non è vivere".  

2.

Tempo fa, un mio professore, dopo un esame orale, mi disse: "Lei scrive molto meglio di come parla". Scherzava, e citandolo ora non dico che sono un artista della parola, anche se fra queste pagine potete intuire quanto ami scrivere. La questione è un'altra: sono maledettamente timido. Non guardo mai le persone negli occhi, se mi sento al centro dell'attenzione mi trema la voce, e capita delle volte che torni a casa dicendomi 'forse avrei potuto rispondere meglio' ad una domanda che mi è stata posta. Non è una mia caratteristica cronica; in genere mi basta conoscere meglio una persona (o capire che questa persona mi accetta), per perdere gran parte di questa timidezza. In alcuni casi, con alcune persone misteriose, riesco persino ad essere a mio agio da subito: credo però si contino sulle dita di una mano (e generalmente sono sempre più timido con le persone di sesso femminile, per un'eredità che mi porto dietro dai tempi delle scuole).
Questa timidezza è un po' frustante, ma c'è persino chi la vede come un pregio. 
Ma è, soprattutto, la prima causa di un'incomprensione negativa, che gli altri tendono ad avere nei miei confronti. C'è chi crede che io sia un po' snob, invece che timido. Lo voglio scrivere qui, anche se non lo leggerà nessuno: non offendetevi per i miei silenzi, per i miei sguardi che fuggono, per la mia confusione. Sono una parte di me di cui non posso fare a meno del tutto.

3.

[AAA. Cercasi amica, con cui condividere ansie, frustrazioni, deliri, con cui scambiare caffeina e consigli.

4. 

No, questo blog non voleva essere un annuncio per la ricerca di una persona. Sarei ciò che bonariamente si definisce uno sfigato
Di per sé non mi sento ancora pienamente appagato dalla mia vita sociale. Ma ho un atteggiamento che credo un giorno mi darà soddisfazioni: inizio a diffidare sempre meno delle persone, ed aspetto quando sempre meno persone diffideranno di me. Senza la necessità di fingere, con la certezza che la solitudine si sconfigge a colpi d'incomprensione, con l'ostinatezza che la consapevolezza di essere vivi, tornando a Philip Roth, la si ritrova solo sbagliando. E l'esperienza, come scrisse Oscar Wilde, "è semplicemente il nome che gli uomini danno ai propri errori".
Se poi c'è chi vuole rispondere davvero al finto-annuncio, può sempre invitarmi a prendere un caffé.


opera citata:
*: PHILIP ROTH, Pastorale Americana, Torino: Einaudi, 1998, pagg. 40-41

mercoledì 9 marzo 2011

Il nuovo intervento del blog

Dovrei scrivere qualche nuovo intervento sul blog, se non altro perché ho qualche pensiero che mi ronza in testa da qualche giorno, e questo sarebbe il posto giusto dove esternarlo. Il problema è che ci sono molte cose che dovrei fare, e che non riesco a fare, quindi anche il nuovo intervento del blog può essere una di queste! Almeno ancora per un po'!

Scusate l'italiano poco corretto, e con molte ripetizioni. Fra le cose che devo fare c'è l'andare a dormire!

domenica 2 gennaio 2011

MMXI


"Perché sono stanco, come se fossi in viaggio da sempre?"

Scrivo il tradizionale pensiero per l'anno nuovo (come nel 2009 e nel 2010) con un umore un po' strano. Sarà la stanchezza di una bellissima giornata, con le emozioni che si è portata con sé. Sarà sempre questa sensazione di dover riscrivere le stesse cose degli anni scorsi: che nulla è veramente cambiato, che mi mantengo lì sull'orlo d'un trampolino che non posso saltare. Saranno mille altre cose, compresa quella sensibilità di cui a volte farei volentieri a meno. Però inizio ad essere un po' stufo. Non è forse caratteristica dei ventenni essere stufi? Ed io ventenne lo sono, ventitreenne ad esser preciso, con tutto quel bagaglio d'insicurezza che caratterizza chi vede il futuro sempre in bilico. Uno studente, fra l'altro. Un umanista, per giunta. Quasi rassegnato a dover essere su quell'orlo di trampolino di cui scrivevo prima.
Ma ora sono stanco; stanco di dover sempre dire che il 2010 non è stato poi così diverso dal 2009. Un anno pieno di tante cose, emozioni, bei momenti, risate e lacrime. Ma in cui nulla di me è all'apparenza mutato. Voglio tenere ciò che di costante adoro, la mia ragazza innanzitutto. Ma poi voglio anche decidermi a dare uno scossone, a provare a fare qualche tuffo. O riuscirò finalmente a nuotare nel mare, o mi romperò delle ossa. Ma il primo di gennaio del 2012, a dodici mesi dalla fine del mondo (a cui ovviamente non credo), vorrei poter scrivere che c'è qualcosa di diverso. Che qualcosa si sta muovendo.
Cosa? Non lo so ancora, ho appena iniziato l'anno nuovo.

martedì 28 dicembre 2010

A bordo d'un foglio

Nel mondo esistono persone che, per ciò che fanno, sembrano essere usciti dalla mente di un poeta. E' il caso di un vecchio uomo che ho conosciuto questa mattina; il volto corrucciato, la voce che sembrava corrotta forse dal troppo fumo di una vita. Biblioteca di Trento, prima mattina, gli studenti dagli occhi stanchi, io che tentavo di studiare una complicata analisi critica sul Manzoni (forse non il menù perfetto per iniziare la giornata, ma non si può scappare - in eterno - dagli obblighi). L'anziano si è seduto alla mia sinistra, ha tratto da una borsa un piccolo blocco con dei fogli bianchi. Tossendo un poco, ha iniziato a disegnare con dei gessi ed una penna; io, curioso, cercavo di spiare, facendo scivolare lo sguardo al di là del mio libro su suoi fogli. Ma non riuscivo a capire cosa stesse disegnando esattamente, perché non volevo apparire indiscreto col mio spiare. Ed invece era lui, senza che io me ne accorgessi, a spiare me, a riportare su carta i tratti ammorbiditi del mio volto. Mi ha regalato una caricatura, un ritratto, del mio viso, e per me è stato un bellissimo dono. Non ho avuto il tempo di chiedergli il nome, si è alzato tossendo, e se ne uscito dalla biblioteca.

giovedì 9 dicembre 2010

Semi

Credo molto in questo blog, e ne è testimonianza il fatto che sia, per ora, ancora vivo. Ormai non riesco più a contare i progetti che ho lasciato naufragare nel corso della mia vita, idee a cui credevo sinceramente, ma a cui ho smesso di occuparmi, per pigrizia o perdita d'interesse. Credo sia normale; ancor più per chi, come me, ha una certa emotività, vive di sensazione, spesso d'istinti (a volte mediati da un certo raziocinio, ma in genere sempre d'istinti si parla). Ebbene: a distanza di qualche anno da quell'agosto 2008, eccomi ancora a scrivere su queste pagine, nella speranza di poterlo fare ancora a lungo. 

Eppure vi sarete resi conto - o voi pubblico di lettori fantasma - che gli aggiornamenti si stanno facendo più radi. Sto forse perdendo interesse anche per il blog? Ma va, se ho appena scritto che ci credo molto. Ci credo, come il contadino crede al campo dove mette il seme, anche se dovrà aspettare mesi prima di raccoglierne i frutti. Io credo che ci vorranno anni, ma un giorno raccoglierò i frutti anche di questo spazio dimenticato. 
Allora perché sto scrivendo così poco? Ecco: mi ricollego al discorso appena fatto. Non solo uno, ma molti sono i semi che sto distribuendo in questo periodo. L'anno si sta piano piano chiudendo, e presto sarà ora di fare quella sorta di esame di coscienza di ciò che l'anno passato è stato, com'è orma tradizione su queste pagine (2009 e 2010). Sarà ancora strano rendersi conto che nulla è veramente cambiato; ma non vorrei che questo intervento suoni come un triste riconoscimento della staticità della mia vita. In realtà tutto è in evoluzione, tutto in movimento, tutto - soprattutto - in costruzione. La mia esistenza, proprio come questo blog. In attesa di un futuro, che vorrò godermi col sorriso di chi ha faticato per conquistarlo.

PS: nella retorica, ho dimenticato di specificare che in questo periodo scrivo meno nel blog proprio per mancanza di tempo.. (era intuibile!). Studio, lavoro, affetti, sogni.. tutto mi tiene occupato, mi stanca persino. Ma sono fiero di dire che questo è ciò che voglio!

mercoledì 1 dicembre 2010

H-Factor. Ovvero, speranze per il futuro.

Fra i ricordi migliori di quel lungo periodo del liceo, vi era quella settimana di febbraio definita, con una sorta di neologismo, cogestione. Pareva quasi una reminiscenza sessantottina, lontano eco delle occupazioni, in realtà un modo per staccare fra la fine del primo e secondo quadrimestre. In concreto, erano tre giorni (quindi non una vera "settimana") in cui si sospendevano le normali attività didattiche, sostituite da conferenze alternative, in teoria pensate ed organizzate da docenti e studenti. Non tutti i professori, in effetti, erano d'accordo; anzi, in una scuola con quella patina un po' arcaica, quale era - ed in parte è ancora, sebbene già nei pochi anni della mia frequenza le cose siano cambiate non poco - il liceo classico di Trento, si elevavano sempre i cori contrari. "E' solo una perdita di tempo", sbottava la vecchia di turno; lei che uno speciale-parlamento avrebbe dovuto condannare per l'uccisione culturale che portava avanti ogni giorno, arroccata sulla cattedra, con metodi paleolitici, contraria ad ogni ammodernamento (che non fosse l'aggiornamento mensile dello stipendio). In realtà, non è un caso che ricordo ancora quei momenti come i migliori della mia formazione, attimi in cui mi accorgevo di uno dei pregi migliori della cultura…anzi, di più: dell'umanità, della natura, della vita…la varietà. Il saper cogliere stimoli ovunque, l'inseguire il piacere di ciò che piace, l'uscire dagli schemi di programmi-di-studio, di ciò-che-si-deve-fare; cogliere il pregio dell'humanitas, un elevamento dello Spirito, dell'anima. Che gran soddisfazione capire che tutte queste cose erano inarrivabili per quelle stesse vecchie-megere in cattedra. Che bello scoprire che essere giovani significa avere una marea di chiavi, e poi basta solo capire quali sono le porte che possiamo aprire.

Certo, nel concreto questi sono tutti pensieri che ho compreso solo di recente, ammetto che ai tempi il tutto mi sembrava un "modo migliore per cui alzarsi la mattina e andare a scuola". Ma d'altronde credo che molti dei migliori insegnamenti ci arrivano addosso, senza nemmeno che ce ne rendiamo conto.

(Piccolo aneddoto: è proprio durante una di queste conferenze che ho conosciuto Giancarlo Alessandrini, grandissimo disegnatore della Bonelli. Io da appassionato di fumetti, e di Dylan Dog in particolare, avevo vinto la mia proverbiale timidezza, ed avevo chiesto di fotocopiare una tavola dell'Indagatore dell'Incubo, nella versione nata dalle sue chine. Me l'ero portata a casa con gioia ed orgoglio, con tanto di dedica e firma.

Ebbene: qualche anno dopo, per altre strade, ho conosciuto quella che di Giancarlo Alessandrini è la figlia, Susanna, di cui si ritrovano tracce in altri miei interventi nel blog (più o meno esplicite). La stranezza sta nel fatto che in realtà non sapevo delle parentele-celebri di Susanna, con cui nel frattempo avevo avuto qualche flirt. Immaginatevi la stranezza di scoprire la firma del padre sul muro di casa mia, la sera in cui strane coincidenze l'hanno portata a dormire da me.
Tra l'altro, sempre per la cronaca, io e Susanna ora siamo felicemente innamorati, da ormai "quasi" tre anni).

L'atmosfera di quei tempi passati, l'ho ritrovata incredibilmente oggi, presso la mia università. L'iniziativa, dal nome simpatico (ma anche un po' inquietante, nello scoprire ancora una volta quale sia l'influenza televisiva su tutto) di H-Factor, era volta a dar credito alla facoltà umanistica, nei suoi sbocchi lavorativi. Quali sono le possibilità che si aprono per i laureati; quali possono essere i punti d'incontro con le aziende, quali i pregi in genere degli umanisti? Pare un normale incontro orientativo, come molti se ne hanno nelle università, ed ancor prima proprio nei licei. In realtà è il tentativo, difficile, di far comprendere che una laurea in Lettere non significa, a prescindere, un antipasto al sussidio di disoccupazione. E' una crociata che, nei mille dialoghi avuti a riguardo, porto avanti da molto tempo; avere un supporto da chi non si è nutrito di soli sogni, ma anche di pane conquistato da vero-lavoro, è stato il primo aspetto della giornata di oggi.
In pratica: durante la giornata si sono alternati diversi relatori, ognuno portatore (più o meno sano) di una laurea umanistica. Sono stati loro, forti di un'esperienza decennale, a farsi testimoni di come anche il laureato in Lettere può lavorare. Ed ancor più: essere apprezzato, ed aver successo.
Grazie a Alida Caramagno, archivista, Paolo Di Stefano, giornalista de Il Corriere della Sera, e Patricia Chendi, editor di Sonzogno (tutte persone che, più o meno, fanno lavori vicini ai miei sogni), son riuscito  finalmente a capire cosa dovrò rispondere a chi mi chiederà cosa voglio fare nella vita - spesso con un tono sprezzante, e mezzo-retorico -. 

"Io voglio fare l'umanista"

E cioè? non lo so ancora, ma ho ancora una vita per capirlo. E il giorno in cui arriverò a quello sbocco professionale, chissà dove sarà quel tale che mi chiedeva, con curiosità polemica, del mio futuro. Chissà se mi ricorderò ancora di lui, e lui di me.

PS: intanto, io un biglietto da visita me lo son portato a casa. Chissà che.. no beh, meglio non dar ordini al destino!

venerdì 8 ottobre 2010

Generazione di muti

Sono in biblioteca, accanto a me decine di persone. Non ne so i nomi, rifuggo nei miei libri, non ne odo nemmeno le voci, spente dagli auricolari e le note d’una chitarra. Dovrei chiedere ad ognuno come sta, cosa sta studiando, scambiare opinioni su ciò che sto leggendo. Ed invece nemmeno li guardo, m’infastidisco persino se qualcuno dei loro sguardi scivola al di là dei fogli ed incrocia il mio. Siamo stati educati al rispetto della solitudine dei pensieri, alla mancanza di comunicazione; siamo una generazione che sta crescendo di fronte agli schermi; nei salotti il profumo del caffè e le risate sostituite dal volume d’un televisore, dall'asetticità di ingranaggi senza sentimenti. Veri sentimenti.
E così mi rendo conto di non saper più parlare, di non voler più parlare; nel futuro saremo tutti muti, come i ciechi di Saramago, ed anche le ultime tracce dei Romantici si ritrovano solo nei blog, su facebook, su twitter. Ma senza nemmeno un commento, virtuale almeno, perché i Romantici rifuggono dalla comprensione dei più; si guadagneranno al massimo un ‘mi piace’, due parole elementari, primitive, ma che hanno perso ogni loro significato.
Pubblico sul blog, chiudo il computer, vado in bagno. Potrei davvero essere muto, e nessuno se ne accorgerebbe.

venerdì 30 luglio 2010

[REPORT] Viaggio a Londra | High Voltage Fest (ZZ Top, ELP, ...)

-x- 
"CASSANDRA ovviamente sapeva che gli autobus londinesi erano rossi e a due piani, ma vederli con i suoi occhi procedere verso destinazioni come Kensington High Street e Piccadilly Circus faceva comunque un certo effetto. Come se d'un tratto fosse caduta fra le pagine di un libro letto da bambina, o nella scena di uno dei tanti film dove sfrecciavano gli inconfondibili taxi neri."
K. MORTON, Il Giardino dei Segreti, Sperling&Kupfer, p. 157
-x-

Nell'ultimo mio intervento, quale premessa ad un breve commento al film Psycho, discutevo sulla diversità degli argomenti che tratto su questo blog. Quasi mai, specificavo, sfocio nell'autobiografico; cerco certo di scrivere sempre in una prospettiva personale, ma di argomenti o di attualità o di un discutibile interesse pubblico (pur non avendo ancora un pubblico). Ci sono però dei casi inevitabili in cui non riesco ad esimermi da un cambiamento di prospettiva, quando ogni mio pensiero si concentra su qualcosa che mi è accaduto, su una esperienza che ho vissuto. In questo caso il mio blog diventa davvero MIO, come forse è giusto che sia, dato che ne sono il creatore ed il principale fruitore.
E' questo il caso dell'intervento in questione. Rientrato da poco da Londra, come posso non parlarne?

-x-
Prologo.
Il Tetley's Pub di Trento.
Il tutto è iniziato in una sera d'inverno. Non saprei dire se fosse già febbraio, o ancor prima. Di certo ricordo che faceva abbastanza freddo dal preferire il caldo dell'interno d'un locale, piuttosto che le strade di Trento
Il Tetley's è un bel pub, ha solo il difetto di essere piccolo e forse un po'costoso. Ma fanno della birra buona, e se hai la fortuna di trovare posto (o hai tempo di arrivare in anticipo), puoi godertela con relativa tranquillità. E' il posto ideale per trovarsi una sera, bere qualcosa e parlare del tutto o del nulla.
Quella sera di febbraio, o di qualche mese prima, era proprio ciò che volevamo fare: passare una serata fra amici, senza molte pretese. Una serata fra coppie, da una parte io e la mia ragazza (Susanna), dall'altra Ambra e Giacomo, che Susanna aveva conosciuto sui banchi di scuola.
Il manifesto definitivo dell'evento.
Fra una battuta e l'altra, ricordi, aneddoti, forse un whiskey di troppo, Giacomo se ne uscì con i suoi progetti estivi: andare a Londra per l'High Voltage Festival, dove avrebbero suonato - per la prima volta dopo quindici anni - gli Emerson, Lake & Palmer in formazione originale. 
"Venite anche voi?"
"Certo!"

Il giorno dopo, navigando su internet, scoprimmo poi che fra i gruppi già annunciati vi erano nomi come gli ZZ Top, gli Heaven&Hell, i Foreigner, gli Uriah Heep: non solo alcuni dei miei ascolti abituali, ma anche gruppi che mai avevo avuto occasione di apprezzare dal vivo. In più l'attrattiva di un festival a Londra era forte. Si sa: a quest'età l'entusiasmo non manca, semmai ciò che manca sono le risorse.
Per diversi mesi in effetti sono stato sul baratro, fra la voglia di esserci e la paura di non potermelo permettere. D'altronde credo che anche i miei compagni di viaggio abbiano avuto qualche pensiero, tanto che in un primo momento dovevamo partire in cinque, con un amico di Giacomo che si è infine ritirato. Anche quest'ultimo ad un certo punto sembrava si potesse tirare indietro, per colpa di impegni con il suo gruppo. Ma ogni perplessità si è pian piano appianata, personalmente grazie a lavori snervanti e sottopagati (ma almeno pagati). Ad un mese, le cose si son piano piano trasferite verso una dimensione più concreta, grazie all'acquisto di biglietti, volo Ryanair e la sistemazione (diversa fra noi e l'altra coppia).
Pochi giorni prima, a suggellare l'ormai imminente partenza, facciamo un ultimo incontro a casa mia, a base di tartine e Chardonnay della cantina La Vis. Check in online, e siamo già pronti per partire.

23 luglio. Primo giorno.
Ambra, io e Giacomo a Picadilly Circus
Ci sono molte cose difficili in un viaggio di questo tipo: una delle maggiori è l'ansia che il bagaglio (che non può superare i 15Kg) in realtà pesi di più. Per quattro giorni di viaggio non avevamo in realtà molto in valigia, ma il peso maggiore era quello dei nostri due chiodi - non siamo fabbri, intendo i nostri giubbotti di pelle -, che da soli pesavano più del resto del vestiario (per risparmiare avevamo deciso di utilizzare una valigia per due persone). Con la bilancia di casa il peso raggiunto superava i 14 kg, ma avevamo il dubbio che essa fosse tarata diversamente da quella in aeroporto. 
Un'altra cosa difficile è svegliarsi presto la mattina, in questo caso intorno alle tre, per poter partire altrettanto presto ed essere in aeroporto in tempo per svolgere tutte le pratiche burocratiche. Personalmente un altro dubbio era il viaggio in sé, non avendo mai avuto occasione di volare prima.
Arrivati all'aeroporto di Orio al Serio nella prima mattinata - grazie rispettivamente ai passaggi del padre di Susanna e dello zio di Ambra - finalmente possiamo fare colazione ed imbarcare le valigie (senza nessuno dei problemi che temevamo). Le ore prima dell'imbarco passano tutto sommato velocemente; passiamo il metal detector con un poliziotto che ci prega di salutare Biff Byford dei Saxon, anche loro previsti al festival. Il viaggio in aereo, se si esclude un piccolo attacco di claustrofobia iniziale ed un atterraggio un po' troppo brusco, scorre anch'esso benone.

Ambra e Giacomo a Liverpool Street. 
Ed un pezzo di me.
Arrivati a Londra, veniamo accolti da una ventata che ci fa presagire un clima del tutto diverso da quello caldissimo lasciato in Italia. In effetti è molto fresco, tanto che una volta raggiunta Liverpool Street - dopo aver preso il treno dall'aeroporto di Stansted - dobbiamo indossare delle maglie dalle maniche lunghe.
Dopo aver acquistato i biglietti della metropolitana, decidiamo di girare in cerca di un Fish&Chips dove mangiare. Dopo decine di minuti a vuoto, ripieghiamo su un self service che vende panini e muffin, i famosi dolci inglesi che avremo tutto il tempo per apprezzare ancora. In questo caso, Giacomo riesce a rendersi protagonista, inforcando il sacchetto con il muffin dalla parte sbagliata, e facendolo cadere sotto lo sguardo ilare dei presenti.

Tornati alla stazione di Liverpool Street, saliamo in metropolitana e ci dividiamo nelle due coppie, verso i rispettivi alloggi. Il nostro è un appartamento a Stratford, che abbiamo scelto perché ad una sola fermata della metro dal Victoria Park (sede del concerto).
La zona è tutta un cantiere, in quanto vicina alla sede delle olimpiadi inglesi del 2012. Come spesso succede per eventi di questo tipo, la città londinese ha approfittato dei soldi e della pubblicità di un evento sportivo per rilanciare un quartiere che prima era sotto-sviluppato rispetto al resto della metropoli. E' una zona tutto sommato tranquilla, ma multietnica, con delle case lasciate in abbandono, ed un'architettura meno raffinata di quella che caratterizza la Londra vittoriana. 
Parte dell'appartamento
Il nostro appartamento è in un complesso ben tenuto, in un quartiere silenzioso, disturbato solo dal rumore dei treni di passaggio nella vicina stazione. Lo troviamo abbastanza agevolmente, grazie alle indicazioni stampate da internet, e l'aiuto di un immigrato del luogo.
problemi si presentano però al cancello: innanzitutto dobbiamo suonare più volte il campanello, prima che qualcuno ci apra. Al momento del check-in, poi, una portinaia ci informa cordialmente che necessita di una caparra di 200£ (pari a circa 240€), che ci verrà restituita al termine della nostra vacanza. Se non abbiamo fatto danni. Il fatto non ci coglie del tutto di sorpresa, dato che il giorno prima avevamo letto di tale richiesta fra gli aspetti negativi delle recensioni in internet riguardanti l'appartamento. Il problema è che la somma richiestaci non l'avevamo (o quanto meno, se l'avessimo lasciata non avremmo più avuto i soldi necessari per mantenerci nella costosissima Londra). 
Dopo qualche minuto di discussione, con un incerto inglese (dovuto al momento di agitazione ed alla stanchezza del viaggio - tanto che quando mi è stato chiesto l'indirizzo ho detto il CAP in italiano e non in inglese), riusciamo finalmente a farci accettare, senza l'obbligo della caparra. In compenso, l'appartamento è spazioso e molto bello. Il letto talmente comodo, che ci addormentiamo quasi subito.

Una presa di corrente inglese
Ci svegliamo verso le 17.30. Ci rendiamo conto che non abbiamo pensato ad un adattatore, per le diverse prese di corrente rispetto all'Italia. 
In questo modo, non solo la mia compagna scopre drammaticamente di non poter usare la piastra, ma nemmeno possiamo provvedere a ricaricare cellulare e fotocamere (compresa la reflex Canon EOS 450D, con cui sono state scattate le foto di questo report). Dopo aver chiesto inutilmente aiuto in portineria, veniamo indirizzati ad un supermercato. In realtà si tratta di un centro commerciale, non distante dal nostro appartamento. Giriamo velocemente il posto, acquistando dei muffin per merenda, ma non riuscendo a trovare l'adattatore della corrente. Decidiamo allora di rientrare nell'appartamento, che lasciamo dopo una doccia ristoratrice, diretti a Picadilly Circus, dove già ci aspettavano Ambra e Giacomo.

Si tratta di una via in centro, bellissima nelle architetture, che mi hanno in parte ricordato il centro di Copenhagen. Ovunque vi sono negozi, ristoranti del più diverso tipo, teatri (con ogni tipo di musical, da quelli su Queen e Michael Jackson, da Grease a Mamma Mia, fino a Les Mirables, e molti altri..).
Finalmente leggiamo Fish&Chips
Il nostro obbiettivo era però trovare finalmente un Fish&Chips, non essendo riusciti nell'impresa per il pranzo a Liverpool Street, ed essendo più che motivati nel mangiarli (soprattutto i maschi del gruppo. Io in primis, essendo per la prima volta in Inghilterra). Dopo aver vagato per diverso tempo, ed esserci inoltrati anche per il quartiere cinese, riesco quasi per caso a vedere la scritta "Fish&Chips", su d'un cartello manoscritto, su una parete che quasi non sembra l'ingresso d'un ristorante, meno appariscente degli altri. Veniamo avvicinati da un simpatico promoter, che ci istruisce sul contenuto del ristorante, convincendoci all'istante.
Io e Susanna, nel ristorante
All'interno, ci troviamo in un piccolo ma elegante locale, con musica jazz e classica in sottofondo. Approfittiamo della promozione che ci permette d'ordinare un antipasto con il piatto da noi scelto, e mangiamo innanzitutto dei totani con maionese e salsa di chili piccante (tranne Giacomo che ordina un paté con insalata, pane e salsa chili), accompagnati da del Chardonnay - non paragonabile a quello della cantina di La Vis, ma comunque bevibile -. Assaggiamo quindi finalmente il Fish&Chips, che ci soddisfa e ripaga della fatica nel trovarlo. Ordiniamo anche, con discreto coraggio, due caffé, che sono naturalmente imbevibili. Più acqua sporca che caffé.
Susanna ed il pinguino
La scorta di caffeina ci permette almeno di restare in piedi ancora qualche ora, senza cedere troppo alla stanchezza che si fa comunque sentire. Decidiamo allora di girare ancora un poco per Piccadilly Circus. Veniamo così attratti da un negozio che vende peluches di animali, e dove Giacomo ed Ambra acquistano un tucano, mentre io regalo un pinguino a Susanna. Finiamo la serata prima in un negozio di donutsm, e poi al supermercato dove facciamo scorta di bottigliette d'acqua. Torniamo in appartamento, e ci abbandoniamo al nostro amore, prima di addormentarci.
24 luglio. Secondo giorno.
Susanna e il pinguino, nel letto.

Ci svegliamo al suono della 
sveglia, con qualche difficoltà. A dire il vero, mentre Susanna si riprende con un bagno, io ne 
approfitto per dormire ancora un poco. Ci vuole una doccia per convincermi del tutto che è ora di lasciare l'appartamento.
L'appuntamento con gli altri è al centro commerciale nella nostra zona. In attesa del loro arrivo, giriamo nel posto, scoprendolo ancor più grande di quel che credevamo. Riusciamo così anche a trovare l'adattatore per la presa di corrente, dopo averlo chiesto inutilmente le più svariate volte.
"Do you have an adaptor for the electric plug?" "I beg your pardon?" "Electric plug!" - scandendo ciò che prima avevo sbrodolato con tutti i difetti di pronuncia e mimando il gesto dell'inserimento di una presa nella corrente. "Ah no, sorry. Next one, please?"
Verso mezzogiorno veniamo raggiunti dai compagni di viaggio. Prima di partire, ci fermiamo al Burger King, per un in-salutare pranzo, allietato però da una bella vista sulla stazione di Stratford. Raggiunta quest'ultima, prendiamo la metro per scendere a Mile's End. Siamo un po' confusi nel tentativo di raggiungere il Victoria Park, ma ci accorgiamo che il modo più intelligente per arrivare nel luogo del concerto è ovviamente seguire la massa di rockers e metallari. 
Il posto è a circa un quarto d'ora a piedi dalla stazione, e lo raggiungiamo agevolmente, spinti sia dall'eccitazione sia da un succo all'anguria che ci viene offerto lungo la strada. Scopriamo però di dover fare una lunghissima coda per accedere ai braccialetti che ci avrebbero permesso di entrare nel luogo del festival, pur avendoli già prenotati da mesi. Ambra si getta nelle più funeste previsioni: "non riusciremo ad entrare prima delle 16".
Parte dell'enorme coda per i braccialetti, in realtà poi facilmente
superabile grazie alla velocità degli addetti.

In una decina di minuti, un quarto d'ora al massimo, riusciamo invece a completare le 
operazioni, e verso l'una di pomeriggio riusciamo così ad entrare nel luogo del concerto.
Da subito notiamo il primo dei tre palchi: il Metal Hammer Stage, dove si stanno esibendo i Black Spiders. Ne rimaniamo favorevolmente colpiti, ma siamo troppo esaltati per fermarci più di qualche canzone: abbiamo l'intera area da esplorare. Raggiungiamo così il Prog Stage, dove stanno suonando i Pendragon, altro gruppo che ignoriamo, ma che ci colpisce positivamente. Ma anche a loro dedichiamo poche attenzioni: siamo più interessati a vagare per l'enorme parco, un vero e proprio villaggio costruito per l'occasione. Ci sono i due palchi minori ed il Main Stage, le varie aree di gioco (con il Wall Of Death o gli autoscontri), un piccolo palco dove dei pazzoidi si sfidano nell'air guitar, i vari stands con magliette ed altro merchandise (si possono ordinare anche dei cd con le esibizioni dal vivo di alcuni dei gruppi del festival, registrati direttamente nel luogo), l'esibizione di auto d'epoca, i toi-toi con delle piccole fontanelle d'acqua ed il disinfettante gratuito per le mani, i numerosissimi bar e stands con il cibo più vario (a pezzi relativamente modici). 
Il primo gruppo che seguiamo con maggiori attenzioni sono i Focus, sul Prog Stage. Ammetto che non li conoscevo doverosamente, e della mia ignoranza mi son subito pentito, apprezzando la qualità del gruppo. Il finale con Hocus Pocus e Neurotika è stato il suggello di una grande esibizione.
Neanche il tempo di apprezzare le ultime note, che decidiamo di spostarci verso il Metal Hammer Stage per i finlandesi Hammerfall, che aspettavo con curiosità essendo stati fra i miei ascolti puntuali di qualche anno fa. Ad un quarto d'ora dall'inizio del concerto decidiamo però di non sprecare nemmeno un minuto del nostro tempo: torniamo di corsa al Prog Stage, dove si stanno esibendo i Bigelf. Avevo scoperto il gruppo nella primavera scorsa, e sapevo che sarebbe stato un gran bel concerto: non sono stato smentito, riuscendo a seguire i primi pezzi: The Evils of Rock'n'RollNeuropsychopathic Eye e, in parte, Frustration. Pur essendo un gruppo relativamente giovane (si sono formati ad inizio degli anni Novanta), i quattro si ispirano ad un rock psichedelico d'annata, condito da un doom metal che ricorda i primi Black Sabbath (così anche nelle scenografie e nei vestiti). Torniamo al Metal Hammer Stage giusto in tempo per l'inizio del concerto degli Hammerfall. Forse penalizzati dall'esibirsi fra i primi gruppi, o un poco fuori forma, m'impressionano meno di quanto mi aspettassi: li seguo comunque volentieri per le prime canzoni (nell'ordine: Punish and EnslaveThe Dragon lies BleedingHallowed Be My Name e Renegade). Ma dobbiamo correre al Main Stage, dove ci godiamo per intero l'esibizione di Gary Moore. Il chitarrista è forse fra i più sottovalutati degli déi delle sei-corde: anche al Victoria Park è fautore di un'esibizione emozionante, tecnicamente ineccepibile, ma che unisce la potenza del rock al gusto del blues, senza mai annoiare. Attraverso classici come Over The Hill and Far AwayThunder Rising o Out in The Fields, più qualche improvvisazione e dei pezzi nuovi che non stonano affatto, l'irlandese si diverte e sa divertire. 
Sono ormai quasi le sei quando salgono invece sul palco i Foreigner, forse il gruppo che più aspettavo della giornata, e che più mi ha impressionato. Il cantante Kelly Hansen ricorda Steven Tyler per attitudine e movenze, mentre non fa rimpiangere Lou Gramm, voce storica dei Foreigner. Mick Jones, membro originale del gruppo, si alterna abilmente fra tastiere e chitarra, mantenendo il gusto che lo ha sempre contraddistinto. La scaletta è quasi-perfetta (rimpiango solo l'assenza di Dirty White Boy, uno dei pezzi che preferisco degli americani): su Head Games si è forse raggiunto il climax più alto, mentre il finale è stato lasciato al classico dei classici, quella I want to know what Love is, con a supporto un coro di bambini. 
Alla fine dei Foreigner, corriamo al Metal Hammer Stage per i Saxon. Già visti in Svezia nel 2008, sapevo quanto siano in forma. Anche sul palco inglese non si smentiscono, con Biff Byford a fare la solita parte del mattatore, incitando il pubblico. Riusciamo a seguire nell'ordine CrusaderWheels Of Steel Denim And Leather, ma già siamo di corsa verso il Prog Stage, dove stanno suonando gli Asia. Arriviamo sulla fine di Without You e ascoltiamo I believe, in cui il trio dà il massimo, con una perfetta esecuzione, ma forse una staticità eccessiva sul palco. Ambra e Giacomo, che riescono ad ascoltare tutta la performance, la giudicheranno comunque con grandi encomi, ma noi stiamo davvero poco sotto il palco. Infatti già siamo in dirotta verso il Main Stage, dove sul palco suonano le note di E5150, pezzo storico dei Black Sabbath. Gli Heaven&Hell si esibiscono nel loro ultimo concerto, in omaggio a Ronnie James Dio. Alla voce si alternano Jorn Lande e Glenn Hughes, nessuno dei due all'altezza della persona che omaggiano, ma entrambi fanno ottima figura. I pezzi suonati sono dei classici: Mob RulesChildren Of The SeaDie YoungHeaven And Hell e la conclusiva Neon Knights (con la partecipazione di Phil Anselmo). Durante il concerto, Wendy Dio - moglie di Ronnie James - si commuove, mentre prega il pubblico di sostenere la fondazione del marito per la ricerca sul cancro. Prima degli headliners, ci concediamo una pausa-cena. Noodles per Susi, Fish&Chips per me. Ed un espresso molto buono, ma che riempio di sale invece di zucchero, dovendone poi ordinare uno nuovo.
Gli ZZ Top sul palco.
Chiudono la serata gli ZZ Top, che vediamo inizialmente dalle prime file, salvo poi arretrare per la stanchezza e goderceli da più lontano. Anche i due barbuti e compagno sono in forma, con la voce naturalmente calata che viene compensata da un muro di suono senza eguali. Il basso fa vibrare le ossa, la batteria pare un metronomo, i riff di chitarra scuotono i culi del pubblico. E poi l'attitudine: quella da perfetti rockers del sud, rimasta inalterata nel corso degli anni. Got Me Under PressureJesus Just Left ChicagoCheep SunglassesParty On PatioGimme All Your Lovin'Sharp Dressed ManLegsTush sono alcuni dei classici dei tre, tutti riproposti dal vivo sul palco del Victoria Park. Ogni tanto Billy Gibbons si lancia in sorrisi e battute, sempre i nostri ispirano simpatia, divertono con naturalezza. Le ultime note vengono suonate intorno alle 23, per lasciare il tempo ai convenuti - noi compresi - di tornare verso la metropolitana di Mile's End. Il rientro è ordinato, la gente si allontana senza creare confusione (ed ecco una delle tante grandissime differenze del carattere inglese rispetto a quello italiano - un confronto che mi risulta semplicissimo, dato che ad inizio mese sono stato all'Heineken Jammin Festival di Mestre, per gli Aerosmith. In quel caso, il dopo-concerto è stato un delirio, ma preferisco non inoltrarmi nel discorso). Verso mezzanotte riusciamo finalmente a rientrare in appartamento, stanchissimi, con i piedi che reclamano pietà. Ma molto felici.

25 luglio. Terzo giorno.
Il Prog Stage, visto dalla distanza

Ci sono molti aspetti positivi nel condividere un'esperienza come questa con la propria ragazza. Ma se dovessi sceglierne uno negativo, è probabilmente il fatto che - inevitabilmente come la pioggia a Londra - ad un certo punto si sente nominare la parola SHOPPING. Col tempo mi sono abituato a questa inevitabilità, ne ho fatto un po' il callo, dopo che già da bambino dovevo sopportare quelle volte che mia madre mi portava in cerca di vestiti (la noia è ancora un ricordo molto vivido). Certo non sempre reagisco positivamente all'idea di passare un tempo che diviene indeterminato fra gonne e giacchette, ma tento per quieto vivere di risparmiare le lamentele (qualcuna ancora mi sfugge, dato che Oxford Circus - ecco la meta dello shopping compulsivo - mi sembra erroneamente lontanissima), e persino di dispensare qualche sorriso e consiglio. Passiamo probabilmente più d'un'ora (la percezione del tempo in questi casi è sfasata) all'interno di un H&M, per grazia di Dio la mia compagna riesce a spendere pochissimo. Nel frattempo però è già ora di pranzo, e ci avventuriamo in un ristorante abbastanza economico (per essere a Londra). Ordiniamo riso, carne e curry: buonissimo.
Abbiamo però poco tempo, mangiamo in fretta, paghiamo, e torniamo in metropolitana. Ci aspetta un altro giorno di concerti. Arriviamo che gli UFO sono già sul palco. Riusciamo comunque a sentire le ultime canzoni (Love To LoveRock Bottom Doctor Doctor); il gruppo è in forma, e mi diverto molto nel guardarli: sono classici che conosco da anni, ma che mai avevo sentito dal vivo. Qualche problema tecnico con la chitarra solista (il cui volume talvolta si azzera totalmente), non impedisce comunque ai britannici di dimostrare la loro indubbia qualità. Alla chitarra non c'è più Michael Schenker, ma Vinnie Moore (già nei Vicious Rumors, ma con una carriera solista che lo ha reso famoso) non lo fa rimpiangere affatto; anche nelle improvvisazioni su Doctor Doctor, pezzo acclamato e cantato a gran voce dai presenti. 
Giacomo e i Fish&Chips
Il tempo passa in fretta, ed è già ora di correre sotto il Prog Stage, dove stanno per esibirsi gli Uriah Heep. Il loro è un appuntamento speciale, in quanto hanno in previsione di suonare per intero il loro capolavoro, quel Demons&Wizards del 1972. Del gruppo originale ormai c'è solo Mick Box alla chitarra: il gruppo è però compatto, e riesce ad emozionare. Come ospite, alla seconda chitarra, c'è Micky Moody, grandissimo delle sei corde (ed originariamente nei Whitesnake dal 1978 al 1984). L'apice, a mio avviso, viene raggiunto con la conclusiva The Spell, dove Phil Lazon alle testiere ed hammond dà il massimo. Ma tutto il gruppo è davvero in forma, il nuovo batterista Russel Gillbrook se la cava perfettamente, e così anche il cantante Bernie Shaw (ormai negli Uriah Heep da più di vent'anni). Quella degli Uriah, se si escludono gli headliners, è forse l'esibizione migliore di tutto il weekend, di sicuro quella che mi ha esaltato di più.
Vaghiamo ancora un poco per l'area, ma quando mancano pochi minuti alle 19, decidiamo di prepararci sotto il Main Stage, per essere nelle prime file all'inizio del concerto degli Emerson, Lake & Palmer (headliners di questa giornata). Nell'attesa ci gustiamo i Down'n'Outz, super-gruppo formato da Joe Elliot dei Def Leppard e membri dei Quireboys, attivi in un tributo ai Mott The Hoople e Ian Hunter. Proprio quest'ultimo s'aggiunge al gruppo per le ultime canzoni (così che la formazione diviene infine composta da ben cinque chitarre). Ian Hunter si rende protagonista di un curioso retroscena sul finale: avendo infatti il gruppo sforato con i tempi, ed essendo gli organizzatori assolutamente precisi con gli stessi (anche per permettere agli astanti di raggiungere la metropolitana in tempo, a fine concerto), al gruppo viene inaspettatamente tolta la corrente, tanto che non possono chiudere il concerto come evidentemente da loro previsto. Ian Hunter, incitato anche dal pubblico, si allontana allora verso il backstage, brandendo la propria chitarra acustica e minacciando di darla in testa al responsabile. La scena  si conclude col gruppo - che fra l'altro aveva infiammato per un'ora e mezza il Main Stage, rivelandosi la vera sorpresa del festival - rappacificato, a prendersi i doverosi applausi.
Sul finale il sotto-palco si riempie, io rimango solo a pochi passi dalla prima fila. La gente s'accalca, ma con la solita educazione, senza le spinte e gomitate tipiche dei concerti in Italia. Lo staff distribuisce acqua fresca gratuitamente, che dalle prime file viene portata a chiunque alzi la mano (anche se è più distante, attraverso un passaggio di mano in mano fra il pubblico). Gli Emerson, Lake & Palmer - nome storico del Rock Progressivo - stanno per esibirsi insieme per la prima volta dopo quindici anni: l'attesa è palpabile, lo si capisce dai cori, dalle urla di gioia che si odono al solo comparire della batteria di Palmer o del sintetizzatore di Emerson. Poi d'un tratto le luci si spengono, i nostri si presentano sul palco, forse non con quell'ingresso trionfale che mi aspettavo, ma d'altronde lasciano gli orpelli alla loro musica. E di musica ne sanno, sono praticamente perfetti nell'esecuzione (solo Emerson, mi dirà Giacomo che di musica e tecnica ne sa più di me, commetterà qualche errore), snocciolando i classici del loro repertorio, come sempre rivisitati con minuti e minuti d'improvvisazione. Pura scuola e maestria, con quel loro stile che unisce barocco a potenza di suono. Mi vedo le prime canzoni dalle prime file, ma poi preferisco arretrare, sia per raggiungere Susanna che si era allontanata, sia per godermi il gruppo con più calma (ed evitare la stanchezza che ormai si fa sentire sempre più). Vedere gli ELP seduti in terra, dalla distanza, è emozionante; sul finale Palmer si lancia in un'assolo incredibile, partono le esplosioni, Emerson accoltella l'hammond e lo rovescia sul palco, vengono sparati dei fuochi d'artificio. Si ha la sensazione, in questi casi, di vivere un qualcosa di storico; magari non è nulla del genere, ma senz'altro emoziona, e ti rimane incollato alla pelle come una cascata di brividi e pelle d'oca.
Il concerto si chiude, rimane il suono dell'emozione, che ci accompagna fino al nostro rientro in appartamento, ed ancora nei nostri sogni della notte.
26 luglio. Quarto giorno.
Io, nei pressi del London Bridge.
Io con uno degli attori
Ci svegliamo abbastanza presto, per risolvere l'incombenza di riordinare l'appartamento (ecco il difetto di essere due persone relativamente disordinate), e fare il check-out dall'albergo.
Mentre l'altra coppia torna ad Oxford Circus (SHOPPING-SHOPPING-SHOPPING..a me va decisamente meglio, per fortuna!), noi decidiamo di visitare la zona del London Bridge. Il clima è sempre fresco, il cielo nuvoloso, ma in più inizia anche a piovere. Una pioggia leggera, non troppo fastidiosa, e che sul finire della mattinata se ne tornerà fra le nuvole che non ci lasciano mai. E' l'ultimo giorno, e purtroppo siamo a corto di soldi. Purtroppo, perché la zona è ricca di tentazioni: ci sono due parchi dei divertimenti in stile horror, pubblicizzati direttamente da attori nella zona della metropolitana (che è così piena di gente truccata, zombie, e ragazze in vestiti dell'Ottocento colanti sangue). E poi c'è il museo della guerra: il London At War, che mi guarda con occhi ammiccanti, ma a cui devo tristemente rinunciare.
Decidiamo allora di vedere il London Bridge, camminiamo un po' sul Queen Walk, un tratto di strada coperta, sulla destra al di sotto del ponte, e con una fantastica vista sul Tamigi.
E' ormai ora di pranzo, e per risparmiare decidiamo squallidamente di nutrirci al McDonald's. Calmiamo così i crampi alla pancia, e veniamo poco dopo raggiunti da Giacomo e Ambra. Quest'ultima fa conoscenza con uno degli attori horror, spaventandosi al BU! di un nano ricoperto di sangue. Come tipo di pubblicità è certamente efficace.
Il London Bridge
Torniamo sul London Bridge, giriamo ancora un poco per dare il nostro saluto a Londra. E' infatti ormai già ora di rientrare. Torniamo con la metropolitana a Liverpool Street, da dove con il treno rientriamo all'aeroporto di Stansted. Lì ci concediamo un ultimo muffin, buonissimo ma con un cappuccino di infima qualità (che ci lascia un senso di nausea). Riprende a piovere, ma il nostro aereo non ha problemi a decollare. Atterriamo a Milano intorno alle 22 italiane, con un certo senso di nostalgia, che diventerà sempre più forte. Non è quel senso di mancanza che si prova a rientro dalle vacanze, quel sentimento di difficoltà di riprendere la routine, lo stress di esami e lavoro. No: in questo caso c'è qualcosa di più; una sensazione che si fa più pulsante tornando a camminare per le strade di Trento, accendendo la televisione, sfogliando i giornali. La sensazione, forse illusoria, che tutto ciò che Londra rappresenta (l'educazione della gente, innanzitutto, la perfetta integrazione di culture ed etnie) non potremo mai ritrovarlo per le vie di casa nostra. E' con quest'idea che ho scritto questo breve racconto del viaggio fatto, sì un amarcord, sì un ricordo dei bei momenti passati con delle persone meravigliose. Ma ancor più una riflessione intima, che mi ha accompagnato nascondendosi fra i ricordi che ho qui trascritto: forse ho trovato la mia isola, un luogo in cui finalmente non mi sento a disagio. Se è un'utopia, lo potrò scoprire solo tornandoci.

PS: l'high voltage festival è confermato anche per il 2011.
PS2: tutte le foto qui presenti sono state scattate dai partecipanti al viaggio, la maggior parte da Susanna, con una CanonEOS450D o una CanonD10.