sabato 31 dicembre 2011

Whatever will be

«Vedo che i giovani d'oggi s'industriano con ogni mezzo a dimenticare il tempo vivendo un eterno presente senza passato e senza futuro. Ma non è facile dimenticare il tempo. Noi ne siamo intrisi, la nostra identità è nutrita dal sentimento del tempo, la nostra differenza da tutte le altre specie viventi consiste in quel sentimento che soltanto a noi è riservato.» E. Scalfari

Odio ed amo questa mia personale tradizione, di fare un bilancio della mia vita ogni primo gennaio (più o meno, oggi è il 31, non stiamo a sindacare). Credo siano molti che, molto tristemente, ogni nuovo calendario s'accorgono che un altro anno è passato. Che il tempo scorre, e non lo si può fermare. Per me non è un dramma, è solo un cambio di calendario, uno fra i tanti che ancora mi aspettano. O almeno lo spero.

***

Bene, è una tradizione, quindi. Lo è diventata; è dal 2009 che rendo pubblico ciò che penso di me, ogni inizio di anno nuovo. Da cosa posso partire, per fare un bilancio? Ovviamente dal rileggere ciò che scrivevo gli altri anni:

2009  //  2010  //  2011

Mi fa uno strano effetto rileggermi. In primis, perché mi rendo conto che sono un mare di retorica. Non sempre, sia chiaro, ma forse il parlare di me stesso mi rende più melodrammatico. Ed anche un po' triste. Forse preferisco semplicemente scrivere degli altri, di personaggi veri o inventati, raccontare storie altrui, non la mia. Perché quando ci si guarda dentro è sempre un po' pericoloso, il rischio è di trovare lati che non pensavi di avere, oppure che tenevi nascosti, tappandoti le orecchie a più non posso. Va beh, facciamolo.

***

Retorica, appunto. Quella che mi spingeva l'anno scorso a ripromettermi di tuffarmi nel mare, rischiando di rompermi le ossa o di nuotare finalmente. L'ho fatto? Ma va! Non potevo sperare davvero che il 2011 cambiasse la mia vita. Per farlo, avevo bisogno di un numero pari. Il 2012 è l'anno giusto! Come suona bene… duemilaedodici…duemilaedodici… lo ripeterei per un anno intero… duemilaedodici… Quando ti sei laureato? Nel duemilaedodici! Bingo!

Non lo credo davvero. Non credo che sarà il prossimo, l'anno della svolta. Però, a quanto pare, sarà davvero l'anno della mia laurea. Se i Maya non metteranno lo zampino, anticipando di qualche mese la fine del mondo, l'anno prossimo sarò un dottoredelbucodelculvaffanculvaffancul. Non male, primo obiettivo raggiunto, ranger. La missione continua.

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Tempo di bilanci, allora. Cosa c'è stato davvero di buono nel 2011? Ho conosciuto nuove persone, ed ho trovato nuovi stimoli. Di per sé ho continuato a percorrere la stessa identica strada, ma finalmente qualcuno si sta accorgendo di me. Non miro affatto ad un riconoscimento, ma che qualcosa mi venga riconosciuto, non posso fingere che non mi faccia piacere. Sto trovando nuovi spazi per esprimermi, nuove pagine bianche da riempire, nuovi mondi da esplorare (la missione continua, appunto). 
Accanto a me ho sempre la luce di quello stesso faro, sempre più luminosa. Non è una candela, è una costellazione di immensità, è un universo di irrazionale potere. Senza lei non sarei io, l'io di adesso. Penso questo, questa è la mia idea.

***

Allora, per il nuovo anno per una volta non mi auguro un cambiamento. Non per forza qualcosa che sconvolga la mia vita. Intanto, mi basta continuare così. Poi… que sera, sera, whatever will be, will be.

venerdì 16 dicembre 2011

Pogrom moderni: gli Italiani sono razzisti? Ed i Trentini?

Mio articolo pubblicato qui: http://www.larotaliana.it/home/i-commenti/item/1475-pogrom-moderni-gli-italiani-sono-razzisti?-ed-i-trentini?.html


Trento - Pensavo di iniziare questo articolo con una premessa: gli storici sono indispensabili alla società; gli storici permettono di comprendere meglio sia il passato, sia il presente. Sarebbe stato contento l'amico Andrea, che su queste pagine (e non solo) scrive proprio di storia. Ma qualcuno, che si è avventurato sulle nostre modeste biografie nella pagina della Redazione, si sarebbe accorto che anch'io sono ormai prossimo alla laurea in storia, e sarebbe così crollato tutto il palco, e si sarebbe compreso che non posso essere del tutto oggettivo.

CAUSE PERSE - Ed allora al diavolo il cappello introduttivo; non diamo a tutti gli storici l'onore di essere esaltati in un articolo de laRotaliana.it. Lasciate però che vi consigli un libro, che, da solo, vale ben più di ogni parola che potrei spendere in questo senso. Sto parlando di Cause Perse, un diario civile, di Adriano Prosperi, uscito lo scorso anno (2010) per Einaudi.

LO STORICO - Adriano Prosperi è professore ordinario di Storia moderna alla Scuola Normale di Pisa; ha scritto Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Einaudi, 1996), forse uno dei libri più belli della storiografia contemporanea. A lui si devono degli studi fondamentali sul mondo degli eretici e l'inquisizione, sulla Riforma, sulla Controriforma, sulla cultura in età moderna, sullo stesso Concilio di Trento. Prosperi è insomma un uomo d'alta dignità accademica, apprezzato in tutto il mondo per le sue qualità intellettuali.

IL TESTIMONE - Ma Prosperi non è rimasto confinato sulla cattedra universitaria; in parte grazie al suo carisma e le sue capacità di scrittore, in parte anche grazie all'intuito di chi lo ha ospitato, lo storico ha smesso di scrivere soltanto del passato, ed ha iniziato a riflettere anche sul presente. Cause Perse è proprio questo: la raccolta di una serie di editoriali che l'autore ha pubblicato sul quotidianoLa Repubblica, e che trattano di argomenti di attualità, commentati con lo sguardo dello studioso.

ITALIANI RAZZISTI - Come sottolinea Giuseppe Marcocci nella postfazione al libro, il vero impegno civile del testimone Prosperi nasce da una domanda, fondamentale, che non può evitare di porsi: «Come e perché gli italiani sono diventati razzisti?». L'interrogativo parte dalla cronaca, da quel giorno del maggio 2008 in cui si diffuse la notizia che una giovane donna rom avrebbe tentato di rapire una bambina di sei mesi; gli abitanti del quartiere Ponticelli a Napoli appiccarono il fuoco alle baracche del vicino campo. La notizia di allora è in questi giorni tornata tristemente di grande attualità. Da una parte per il folle omicida Gianluca Casseri, il militante di destra che martedì scorso (13 dicembre), a Firenze, ha aperto il fuoco contro i senegalesi, uccidendone due e ferendone altri tre. Dall'altra per quanto è avvenuto a Torino, dove una ragazzina di sedici anni che ha perso la verginità in un rapporto consensuale con il suo ragazzo, ha pensato di rimediare alla sua “onta” accusando di stupro degli zingari romeni. Accusa inventata, ma che, come era avvenuto nel 2008 a Ponticelli, ha portato una folla di circa 500 persone a bruciare le baracche del vicino campo. A quanto scrive il Corriere, quando i Vigili del Fuoco hanno cercato d'intervenire, i manifestanti si sono intromessi, urlando che gli zingari dovevano bruciare.

POGROM MODERNO – La definizione che meglio si addice a fenomeni di questo genere, secondo Prosperi, è quella di “pogrom moderno”. «Da oggi», scriveva Prosperi all'indomani di quanto accaduto a Napoli, «la parola “pogrom” ha cessato di indicare solo tragedie di altri tempi e di altri popoli per diventare la definizione di atti compiuti da folle di italiani». Leggendo quanto Prosperi scrive, riusciamo a tracciare un'inquietante similitudine su quanto avveniva in un passato che ci sembra fieramente lontano, e la realtà di ciò che ancor oggi leggiamo sui giornali. «Ci sono altre storie», continua Prosperi «che hanno un sapore tristemente familiare: quella del bambino rom che non vuole più andare a scuola perché i compagni lo escludono dal gruppo e dicono che è sporco, che puzza. Anche per gli ebrei dei secoli scorsi si diceva che fossero sporchi e riconoscibili dall'odore; ma lo dicevano coloro che prima li avevano chiusi negli spazi stretti e senza acqua dei ghetti».

TRENTINI RAZZISTI – Anche Trento ha la sua triste tradizione di antisemitismo. Il caso più celebre è quello del piccolo Simone, che sin dalla prima età moderna e fino al 1965 era venerato come beato. La credenza popolare, sostenuta dall'allora vescovo Johannes Hinderbach, voleva che il fanciullo fosse stato ucciso dalla comunità ebraica locale. Gli Ebrei trentini furono torturati, costretti alla confessione e poi uccisi. Il Simonino fu chiamato Santo, e gli si attribuirono anche dei miracoli. Ma ora che finalmente il culto del Simonino è stato decanonizzato, e che anche Trento sembra aver richiuso certe ignoranze popolari nello scrigno del passato, nella nostra città si è definitivamente sconfitta la xenofobia?
In un articolo per QT di qualche anno fa, e che ancora si può leggere in internet, Mattia Pelli rifletteva sulla notizia dell'arresto di due nomadi, la cui “gravissima” colpa era stata quella di aggirarsi «con fare sospetto» nell'area Ex Zuffo. Sul percorso della ferrovia Trento-Malè-Marileva, la famosa “vaca nonesa”, la fermata di Lamar è proprio vicino ad un campo nomadi; nel corso dei miei viaggi mi è capitato spesso di sentire commenti, da parte di giovani ragazzi o di distinte vecchine, che poco si discostano da quelli dei manifestanti di Torino.

Questi, piccoli indizi presi dal mucchio, sono davvero segnali d'allarme? C'è davvero il pericolo che anche Trento si risvegli, un giorno, infestata dal fumo di un “pogrom moderno”?

lunedì 5 dicembre 2011

La manovra «Salva-Italia»: qualche osservazione

L'Italia è a rischio default. Significa, in pratica, che lo stato in cui viviamo rischia di non poter più reggere dal punto di vista finanziario. Se l'Italia entra in default, trascina ancor più nel baratro della crisi anche l'Europa. L'euro perde valore, l'euro cessa di esistere. Diventa carta straccia, forse non davvero buona solo per accendere il fuoco, perché la potremmo ancora almeno convertire nelle nostre lire. «Che bello, è tornata la lira! È crollata l'Europa!». Probabilmente qualcuno che ieri, nel parlamento della Padania, urlava forte per la secessione, gioirebbe per il crollo dell'Europa e la rinascita dei piccoli stati nazionali (quelli storici, o quelli inventati, a loro poco importa). La realtà è che se l'Europa Unita scomparisse, perderemmo ogni forza politica, e quindi ancor più economica. Saremmo alla mercé di quei conquistadores che, già, nel Vecchio Continente stanno inserendosi per succhiarne la linfa.

Si potrebbe ragionare sul sistema, e di come in realtà siano stati globalizzazione e capitalismo a trascinarci sino a questo punto. È bello – almeno per diversificare il dibattito culturale – che qualche intellettuale, più o meno d'ispirazione marxiana, e più o meno utopista, ancora sia fiero di pensare in questi termini. È uscito proprio quest'anno il nuovo libro dello storico Eric J. Hobsbawm, che ammetto di non aver ancora letto, ma il cui titolo mi sembra comunque già significativo: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo. È giusta la via suggerita da Hobsbawm, o si tratta soltanto di un percorso fra l'utopia e l'anacronismo? Dovrei leggere quel libro, come da tempo vorrei fare, per poter esprimere la mia opinione.

Per ora mi accontento, quindi, di vedere come stanno le cose, in Italia. Mario Monti si è trovato a prendere le redini di un cavallo già imbizzarrito, tentando di riportarlo al trotto, al costo di rimetterne in prestigio personale. È chiaro che chiunque si veda una mano calata nelle tasche, reagirà con una certa stizza. E più aumenta la povertà, più aumenta anche l'indignazione, diventa vero odio. Per questo serviva un tecnico, non un politico: il politico di professione è ormai ossessionato dalla necessità di dover guadagnare altri voti (al costo di corteggiare un Scilipoti di turno), non può rischiare di perderne con misure impopolari. Un tecnico può accettare anche di essere odiato; un politico, se odiato, s'inventa che è la “parte sbagliata del paese” ad odiarlo, mentre quella vera ancora lo ama. Un ossessione che, oggettivamente, al Paese ha fatto molto male.

La realtà è che comunque la gente non riesce più a sopportare di sentirsi vittima del sistema. Quando qualcuno, dall'alto, aveva promesso demagogicamente di togliere l'Ici, era alla fine risultato il più votato alle elezioni. Il provvedimento non poteva reggere alla realtà dell'economia prossima alla crisi, dove anche i soldi dell'imposta sulla casa erano un minimo di ossigeno in un paese già ammalato, o quanto meno prossimo alla malattia. Togliere un'imposta è facile, e, come detto, porta voti. Quando ti accorgi di pagare meno tasse, allora è difficile che fai caso ai tagli che vengono fatti altrove, magari alla sicurezza, alla salute, alla cultura.

Togliere tasse è facile, dicevo, rimetterle diventa un'impresa. Sono abbastanza convinto che nel 2013 le elezioni verranno vinte da quei politici che prometteranno misure economiche più eque. Una nuova forma di democrazia, che non punta più sulla possibilità che ognuno possa essere rappresentato, ma che ognuno paghi il giusto, e che non vi sia uno spietato sistema oligarchico, in cui a pagare siano sempre gli stessi. In questo senso, Mario Monti ha avuto il merito e l'intelligenza di alcuni passi in avanti. La misura simbolica di rinunciare al proprio stipendio. Quella significativa di tassare beni di lusso, come yacht o aeromobili.

La misura mi è parsa, quindi, come minimo un passo in avanti in alcuni aspetti. Ma rimangono i punti che mi hanno lasciato perplesso. Non sono un economista, non ho nemmeno il barlume delle conoscenze accademiche del professor Monti, ma vorrei che qualcuno mi spiegasse davvero il senso di un aumento dell'Iva al 23% (anche se a partire dal settembre prossimo). Con l'aumento dei prezzi, indistinto ed acritico, non si riducono anche i consumi? Non si peggiora, così, anche la crisi economica, colpendo soprattutto le piccole aziende, ed i singoli acquirenti?  

sabato 12 novembre 2011

Berlusconi dimesso: la Storia agli occhi dei giovani

Oggi è una giornata storica. Non è mia intenzioni dare valutazioni politiche, né scrivere bugie su quello che sarà il domani. Un domani difficile, di un paese che, anche senza Berlusconi, è sull'orlo della bancarotta. Ma è indubbio che il 12 novembre del 2011 entrerà nei libri di storia.



Dicevo: non voglio dare giudizi – almeno su queste pagine – sul significato politico dell'addio di Berlusconi. Commenti, editoriali, valutazioni più o meno oggettive le leggeremo domani sui giornali, le troviamo già ora su Twitter o negli speciali di Ballarò o La7, le sentiremo per giorni nei bar e sugli autobus. Voglio solo riflettere sul significato emotivo dell'uscita di scena di un personaggio che, sul tetto d'Italia, ha vissuto per quasi diciotto anni.

Noi giovani abbiamo imparato ad avere ricordi sbiaditi della Storia italiana. Un'immagine che ci arriva dai libri e, per gli episodi recenti, dai racconti dei nostri genitori. Noi che eravamo piccoli quando Craxi veniva bersagliato di monetine fuori dall'hotel Raphael, noi che al Parlamento abbiamo sempre visto le stesse facce, alternate a qualche volto nuovo, piombato dal nulla, ma con le stesse idee dei gerarchi di governo ed opposizione. Certo, noi giovani non siamo così sconsiderati dal credere che con Berlusconi scomparirà d'improvviso la vecchia politica, quell'odioso sistema di casta che ben conosciamo. Ma, vedendo questa sera la Storia camminare su un colle di Roma, anche noi ci siamo resi conto di una fantastica verità: nulla è eterno, e tutto può cambiare. Non è la soluzione, ma un buon punto di partenza per il nostro futuro.

domenica 30 ottobre 2011

La felicità



Che cos'è la felicità? La domanda è filosofica, esistenziale, forse psicologica. La soluzione varrebbe milioni di dollari, ma, dice la saggezza popolare, «i soldi non fanno la felicità». Così almeno voleva la tradizione, poi è arrivata la luminare Terry De Nicolò, facendo capire che per alcuni il concetto non è più tanto attuale. E allora la domanda si ripresenta: davvero, cos'è la felicità? «È un bicchiere di vino, con un panino», o piuttosto la cena con caviale, escort e cocaina? Vorrei che la domanda fosse pura retorica, ma la cronaca – e le voci per strada – mi portano a pensare che nulla sia così scontato.


Ma soprattutto, la felicità esiste, o è solo un bagliore? È quell'illusione che ti rende profugo e clandestino, quel sentimento che ti porta semplicemente a “voler cambiare” la tua vita, o piuttosto il sapersi accontentare di ciò che già c'è? È l'essere ricchi, avere l'oggetto che più si desidera, o lo spogliarsi come S. Francesco?

E per parlare di felicità, quanto deve durare? Sono i quindici minuti di celebrità, quelli di Andy Warhol, o l'eterna giovinezza di Peter Pan o Dorian Gray? Già, Dorian Gray: essere felici significa essere belli, è un fatto esteriore, o, come diceva Henry Van Dyck, pura interiorità? I Greci parlavano di òlbios quando la felicità era esteriore, e di eudàimon per la felicità intima: cos'è la nostra felicità?

La felicità è un frutto. Ce lo dice l'etimologia, in Catone l'arbor felix è il fico, l'albero fruttifero. Dalla stessa etimologia deriva il feto, il frutto per eccellenza, e fecondare, che è produrre prole, quindi frutti. La felicità è allora davvero un frutto, qualcosa che cresce, qualcosa che si produce nel tempo, qualcosa che si deve coltivare, o è qualcosa di innato? O solo i bambini, che immaginiamo senza preoccupazioni, possono essere felici?

Scriveva Alda Merini«Bambino, se trovi l'aquilone della tua fantasia | legalo con l'intelligenza del cuore. | Vedrai sorgere giardini incantati | e tua madre diventerà una pianta | che ti coprirà con le sue foglie. | Fa delle tue mani due bianche colombe | che portino la pace ovunque | e l'ordine delle cose. | Ma prima di imparare a scrivere | guardati nell'acqua del sentimento.» 
Forse la felicità è, anche per noi giovani ed adulti, questo abbandonarsi alla fantasia, il lasciarsi andare alla creatività, l'inseguire un aquilone?


articolo da me scritto, ed originariamente pubblicato qui:
http://www.larotaliana.it/home/i-commenti/item/1347-felicit%C3%A0-=-fantasia%20creativit%C3%A0?.html

giovedì 20 ottobre 2011

La morte di Gheddafi

Questo blog è uno sfogo. Si presta a fraintendimenti, contiene linguaggio scurrile.
Nessuno vi obbliga a leggere. Ma prima di fraintendere, potete sempre commentare.

Berlusconi bacia la mano di Gheddafi (marzo 2010!!!)

Verrà un giorno in cui ricorderemo il nostro passato, e parleremo delle morti di Saddam Hussein, Osama Bin Laden e Mu'ammar Gheddafi. Tre uomini simbolo, tre protagonisti – per quanto diversi – della storia di Novecento e primi anni Duemila. Tre uomini che l'Occidente, in diversa maniera e più o meno sotto la luce del sole, ha appoggiato e sostenuto, salvo poi voltar loro le spalle, quando la contingenza lo chiedeva. L'Occidente, questo cavaliere oscuro che si dipinge senza macchia, che vuole esportare la democrazia nel mondo. Come se la democrazia fosse esportabile, calabile dal cielo come le bombe. Questi Bin Hussein Gheddafi, déi del male, questi bastardi dittatori, ora finalmente cadaveri, impiccati, cibo per pesci, col volto sfigurato dal sangue. Che bella la democrazia; che bell'insegnamento per i nostri figli queste mille piazze Loreto, il volto di Nemesi – come una statua con la torcia sulla skyline di Manhattan -, in una buca fra il fango di Sirte. Vendetta è fatta! Giustizia per il mondo libico, per i cittadini di Iraq. Per le famiglie che piangono sulle macerie delle Twin Towers e scorrono il dito su un atlante, che stracciano la cartina dell'Afghanistan, e la calpestano, e ci sputano sopra. Vaffanculo, la democrazia! Vaffanculo perché non ha memoria, perché festeggia la morte di Gheddafi, come fossimo tifosi allo stadio, come se Roberto Baggio non avesse sbagliato il rigore nella finale dei Mondiali del '94. Vaffanculo, io non riesco ad essere felice perché è morto Gheddafi, e sì che lo odio con tutte le viscere, e sempre l'ho odiato.. io ho ancora la nausea per la prostituzione di Roma, quando uno stato schiavo s'inchinava ad un dittatore. Ho la nausea per i bambini afghani uccisi dalle bombe d'Occidente. Ho la nausea per l'umanità, e la nostra democrazia che è schiavitù inconsapevole, di un sistema oligarchico, fatto di petrolio, bombe e puttane. Fa tutto schifo, e la morte di Gheddafi non cancellerà questo schifo.  

venerdì 14 ottobre 2011

Incollati al cielo (2009)

Forse lo avrete intuito, da questo mio blog, che mi piace scrivere. Lo faccio da quando sono piccolo, ed è sempre e solo lo sfogo di un bisogno. Provo un po' di vergogna quando qualcuno mi dice che sono bravo. Un po' per timidezza, un po' perché, davvero, non credo di essere così bravo. Forse è per questo che raramente ho condiviso qualcuno dei miei scritti. E col tempo molti li ho perduti.

Non credo sia un male. Penso anzi che molte cose che ho scritto meritassero di andare perdute. Però qualcosa è rimasto, nero su bianco. E mi sono reso conto che ho sempre avuto un difetto, che è poi il più grande difetto di quanti provino a scrivere, da dilettanti. Me lo ha fatto osservare la migliore critica di me stesso, colei che ascolto davvero, e che credo sia riuscita nell'impresa di migliorare anche il mio stile. Non credo di esser diventato bravo, non ancora. Ma almeno leggo più volentieri ciò che scrivo. Ogni tanto.

Ora ho deciso di provare a superare l'ostacolo del cassetto chiuso. Con questo mio blog, ho sempre voluto mettere in campo parte di me, render pubblico, per quanto virtuale, ciò che ho tenuto a lungo nascosto…ecco, allora, che ho deciso di ricopiare sul mio blog alcuni miei racconti del passato.

Con la precisazione di questa premessa. Li ricopierò così come sono, senza modificarli. E con tutti i difetti che hanno. Il difetto vero di cui parlavo è la retorica. L'essere prolissi, il voler per forza dimostrare di 'saper scrivere'. Il risultato è che il racconto si appesantisce, perde la sua vena narrativa, diventa quasi solo un esercizio di stile. Ogni tanto ci ricasco, forse puntualmente ci ricasco. Ma ora non scrivo più solo ed assolutamente così. Non scrivo solo per mettermi alla prova, inizio a pensare ad un ipotetico, per quanto sempre immaginato, lettore.

Ma questo mio blog vuole essere anche un occhio sul passato, e quindi va bene anche che io pubblichi qualcosa che non scriverei più. I commenti, se vorrete leggere e vorrete scrivere le vostre opinioni, mi saranno comunque davvero utili. Perché quel bisogno di scrivere..beh, non mi è mai venuto meno; anzi, forse è aumentato. E se riuscissi anche a scrivere bene, sarebbe una gran conquista.

*

Il primo racconto che pubblico è del 2008/2009. Scritto fra la fine del 2008 e del 2009, se la memoria non mi inganna. L'ho scelto per primo proprio perché è il riassunto di quanto scrivevo prima: magari, senza modestia, ha anche degli spunti interessanti.. ma sono mal sviluppati.. troppa retorica, troppo patetismo..

PS: oggi mi son svegliato alle 5, ed ho dormito 5 ore.. non escludo ci sia anche questo, nel motivo che mi ha spinto a scrivere queste cose.. puro delirio da mancanza di sonno.. 

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Incollati al cielo

V'è un sospeso senso di benessere nell'astronomia, nell'osservare il cielo e sospettare che le stelle riposino per il volere di qualcuno. Non so dirvi di chi, ben inteso, ma sono al loro posto, a nutrirsi del buio con la luce, perché è l'unica cosa che possono fare. Forse è per questo che odio l'estate: d'agosto talvolta vedo le stelle cadere, e non mi sembra possibile che anche loro si lascino andare. Alle stelle cadenti molti associano romanticismo, io penso alla vita, e come nulla vi sia di sicuro: nemmeno loro stanno incollate al cielo, lasciano di peso la natia casa quando sfumano nel vuoto, urlano un'ultima scia di speranza, ma si gettano infine nel buio.

Riposo l'anima fra i sussulti della mia terra, seduto al bordo d'un fiume. In mano stringo l'Antologia di Spoon River, ben chiusa, quasi a temere che i personaggi possano avvertire il freddo. Non del vento, ma del mio respiro, il tremare d'un uomo che ha paura. A volte vorrei correi, tuffarmi nel fiume, lasciando che la corrente mi trascini quasi fossi una stella cedente. L'ultima scia di luce d'uno sconfitto. Abbandonare così ogni emozione, imporre il silenzio alle grida del cervello, e nascondere le lacrime nel gelo dell'acqua fino al comparire del buio.

Ma poi arriva Alice, benedetta visione, il suo volto si dipinge nel greto dove si specchiano i miei occhi. Mi sembra di vedere i capelli dorati mescolarsi alla luna riflessa, la pelle bianca dove dormono le trote, persino i grilli mi ricordano la sua voce. Allora il senso di tutto mi diventa così chiaro, siamo nati per amare, e se siamo come stelle, è l'amore che ci lega al cielo delle nostre vite.

Alice è la mia figlia di sei anni, così fragile al mondo ma già così grande. A settembre andrà a scuola, si staccherà dal cuscino di seta che le abbiamo creato ed inizierà a scoprire com'è il mondo. Da bruco sarà farfalla, da fiocco diverrà neve, ancor prima che me ne accorga avrà un cuore spezzato. Sarà così bella la prima volta che piangerà. Da grande ad ogni passo sospireranno i salici e s'innamoreranno i cavalieri; ma nemmeno la sua purezza potrà sconfiggere le ingiustizie ed i peccati. Verrà il giorno in cui sederà su quest'erba ad inseguire l'eco degli stessi miei pensieri; mi strapperei il cuore per fermare il tempo ed evitarle ogni dolore.

Ma che può fare un uomo, quando i suoi sogni vanno oltre l'essenza stessa della vita? Non può che alzarsi e fingere che tutto vada per il verso giusto, ed arrivare a credere che in fondo sognare è soltanto una perdita di tempo.

La notte talvolta sembra urlare il suo silenzio, il vuoto cancellare i contorni delle case. I buoni posano le loro menti nei labirinti di Morfeo, mentre i corpi stanchi si svuotano dei pesi fra le pieghe delle lenzuola. I cattivi escono dalle tane, prendono il volo si solchi dell'asfalto, aprono l'inferno e lo fanno assaggiare ai mortali. C'è chi crede che il male si nutra di tenebra, rifugga il sole come fosse un vampiro. In realtà all'alba tinge il suo volto, si nasconde fra giacche e cravatte, desideri infranti e banconote d'avidità. Mi sono innamorato di pesche al cianuro, ho riassunto la mia anima in illusioni giovanili, ho inseguito la bellezza finché ho capito che non si può raggiungere. Il domani è un ostacolo troppo grande, prima della vita c'è sempre la necessità, prima del profumo occorre trovare l'ossigeno per respirare. Così ho sacrificato i miei idoli su un altare di compromessi, ho accoltellato le nuvole e baciato capre e serpenti. Mi son fatto schiavo di ciò che odiavo, ho spinto la mia mente oltre l'innocenza, sono cresciuto diverso. Credevo d'aver perso la possibilità di sorridere, e talvolta lo penso ancora.

Ma le mie gambe seguono il profilo della strada, spalancano la porta di casa, trovano l'ancora della mia salvezza. È notte, Alice dorme nel suo mondo d'incanto, non sa quali sono i miei pensieri, prego Dio che non li scoprirà mai. I capelli le incorniciano il volto, gli occhi chiusi si muovono appena, dipingono chissà quali dolcezze.

Ad un tratto sembra sorridere, inseguo quel sospiro come se fosse l'unica cosa che ho. Istintivamente le accarezzo il volto, il movimento la fa svegliare. Mi guarda, sembra frastornata.

«Papà», mormora con un filo di voce.

Le suggerisco di tornare a dormire, ma è già assopita. Soffoco le lacrime negli occhi, mi sdraio sul pavimento freddo, accanto al suo letto.

Papà.

Quella parola sembra riecheggiare al di sopra di ogni pensiero, mi rendo conto che non ho bisogno di altro, sento il cuore prendere il volo, e la mia mente inseguirlo.

giovedì 13 ottobre 2011

[REC] Philip Roth, Nemesi

[questa recensione non contiene spoilers]

I Greci parlerebbero di Τύχη (Tyche). Noi, a seconda della nostra cultura e del nostro credo, parliamo di caso, di destino, di Fortuna. O di Dio. Ma esiste un momento, prima o poi, in cui tutti ci chiediamo «perché io?», o «perché non io?». Perché io, ora, son qui a leggere una recensione di un libro, scritta da un idiota qualunque, mentre qualcun altro al mondo sta morendo di fame? Perché io ho un tetto sulla testa, e ci sono bambini che mai vedranno il domani? Perché io…?
A questa domanda, quasi ontologica, la religione ha dato una risposta. “Mistero della fede”, la volontà imperscrutabile di un essere superiore (quale sia il suo nome), a cui ci possiamo avvicinare, ma mai comprendere del tutto. Perché la fede dev'essere cieca, e mai si deve dubitare di un disegno così immenso.
Philip Roth non può accontentarsi. Il personaggio del suo ultimo libro (Nemesi [2010]), Bucky Cantor, nemmeno. Bucky non è ateo, crede davvero nell'esistenza di Dio, ma se accetta la sua presenza, allora.. ancor peggio! Come può Dio essere così malvagio? Mr. Cantor finirà con l'odiare Dio, con l'incolparlo di quel caso, quasi fosse la rivisitazione della dea Fortuna, che ha voluto, per sua sola volontà, girarsi più in là.

Siamo nell'estate, la caldissima estate del 1944. In Europa si sta combattendo la Seconda Guerra Mondiale, ed i soldati americani si devono dividere fra il Vecchio Continente e l'Oriente, il Giappone di Pearl Harbor. Bucky Cantor è un istruttore ventitreenne: durante l'anno scolastico insegna educazione fisica nella scuola di Newark, nel New Jersey; in estate è l'animatore di un campo giochi della città. È sportivo, atletico, lo si direbbe un perfetto soldato: ma a differenza dei suoi più cari amici, Jake e Dave, non è partito per il fronte. Non arruolabile, per colpa della sua vista, è rimasto a Newark, ignorando che, anche nella sicura America, avrebbe dovuto combattere una guerra.
Poliomelite, semplicemente “polio” nel gergo. Per l'ebreo Bucky Cantor il vero nemico, nel 1944, non ha più una svastica sul braccio: è un morbo invisibile, inspiegabile, che contagia ed uccide. Soprattutto i bambini. La poliomelite inizia con sintomi che fanno pensare ad una semplice influenza: brividi, febbre, una forte emicrania. Ma poi evolve, colpisce i muscoli, deforma le persone colpite, le rende storpie. Colpisce le vie respiratorie, sicché gli ammalati possono respirare solo attraverso un polmone d'acciaio. Chi guarisce, rimarrà storpio. Molti, soprattutto bambini, non sopravvivono.
Ed è proprio quando i ragazzi del campo giochi di Mr. Cantor iniziano morire, che inizia la sua tragedia personale. Quel senso di impotenza, ma quella voglia di restare comunque a Newark, quasi per lui fosse un nuovo sbarco in Normandia.
Ma poi c'è Marcia. La ragazza che ama; la figlia del dottor Steinberg, che tanta sicurezza dà a Bucky, anche nell'incubo dell'epidemia. Quando Marcia proporrà a Bucky di raggiungerla ad Indian Hill, dove lei già è animatrice di un campo estivo, e dove la malattia non è arrivata, per lui inizierà il vero tormento. Cosa fare? Fuggire da Newark e dalla polio, o restare a combattere, con i suoi ragazzi, con l'amata nonna, piangendo i morti e sorreggendo gli storpi?

Nemesi ha in sé sempre quel sottile doppio binario, tipico dell'ultima produzione di Roth. Da una parte Dio ed il destino, quel disegno che sembra scritto da qualcuno; dall'altra noi, che quel disegno muoviamo con i nostri gesti e le nostre scelte. Noi che il destino, la Fortuna, davvero ce la costruiamo da soli. In un libro che di questo ciclo fa parte a pieno titolo, Indignazione (2008), Roth metteva nero su bianco questa concezione, che sta poi alla base anche di Nemesi. «Il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati». Questo è il destino per Roth, questo è il vero Dio per Roth. Ogni nostra scelta, può essere la prima pedina del domino, che ne farà cadere un'altra, e poi un'altra ancora, ed ancora, trascinandoci verso una direzione che altrimenti mai avremmo preso. E, la maggior parte delle volte, l'effetto di una nostra scelta, per quanto meditata, rimane imprevedibile. Questo è essere uomo, questo è vivere: costruire il destino con le proprie scelte, in un modo così “terribile” e così “incomprensibile”.

Nemesi è un libro bellissimo, forse fra i più belli del Roth maturo. Una storia che ti lega alle pagine, ed un contorno che è filosofia, è insegnamento di vita, ti porta a riflessioni profonde. Il tutto con quell'arte della narrazione e della descrizione, che è il vero, immenso tesoro dell'autore americano.

PHILIP ROTH, Nemesi, Torino: Einaudi, 2011
(ed. or. © Philip Roth, 2010)
€ 19 (Einaudi SuperCoralli), 183 pagine


lunedì 10 ottobre 2011

Sotto il melo

Sono ostaggio di altri pianeti, confinato nella clessidra del tempo che scorre. E sacrifico proprio voi, miei adorati Epitaffi Viventi!
Verrà il tempo di mele più rosse, che cresceranno anche su questi rami, che non posso - né voglio - dimenticare.

Pazienza, fantasia e tempo. Soprattutto tempo. Ditemi che di tempo ne ho ancora a valanghe.. e che potrò in eterno essere il Conrad Siever del web.

Per ora, ho iniziato anche a collaborare con un Magazine online, che, se dovessi banalizzare, definirei 'locale' o 'della mia regione'.
Lo scovate qui: http://www.larotaliana.it/
e qui i miei articoli: http://www.larotaliana.it/home/le-cronache/itemlist/user/232-danieleerler.html
Nel mio piccolo, ne vado fiero.

lunedì 26 settembre 2011

[REC] Philip Roth, Everyman


Un libro non è mai solo dello scrittore; è anche – e forse persino più – di chi lo legge. Come quando eravamo bambini e nostra madre ci raccontava le fiabe. Non erano le parole ad interessarci, ma le immagini che vedevamo chiudendo gli occhi. E così evaporavamo anche noi, diventando un tutt'uno coi sogni, fino ad addormentarci. Questa dimensione del leggere (o, sì, dell'ascoltare qualcuno che legge) si sta forse perdendo sempre più. In genere, più diventiamo razionali, e più perdiamo la capacità di lasciarci avvolgere dall'istinto della fantasia. Ma, a ragion veduta, questa capacità umana non si perde mai del tutto. Leggere un libro non è mai un'esperienza passiva; si interagisce sempre col testo, lo si rende vivo nel riflesso del proprio sentimento, e nelle esperienze personali.
Naturalmente anche lo scrittore ci mette del suo, in ciò che scrive. Ci sono professionisti che hanno un ottimo gusto nel mentire, e riescono a farti credere che ciò di cui scrivono è sola finzione. Che la fantasia sia finzione. Ma no! La fantasia è solo la realtà che passa attraverso Photoshop. Più o meno evidente, c'è sempre un po' dello scrittore in ciò che scrive: sia anche solo un ricordo, sia solo il riciclo di qualcosa che ha letto, sia solo la capacità di mettere un aggettivo al posto giusto, ed al momento giusto.
E poi ci sono quei libri che sono evidenti biografie. Magari parlano d'altro, di tutt'altro. Parlano di vite inventate, come quella del protagonista in Everyman. Ma saresti sciocco nel non vederci dentro l'autore.
Philip Roth è un genio della letteratura contemporanea, credo di averlo già scritto più volte nelle mie modeste recensioni. Ma ormai è vecchio. Lo sa, uno scrittore non si può mentire. Sa che questo suo bellissimo viaggio presto finirà. Serve a poco augurarsi – oh, quanto me lo auguro! - che quella fine arrivi più tardi ancora del più tardi possibile. Arriverà. E chi ama la vita non può che rimanerne sconvolto. Il senso dietro ad Everyman è questo: l'immenso sconvolgente realismo di un uomo che assapora la caducità della sua vita. Di tutte le vite.
Forse le pagine più belle del romanzo sono quelle che vedono il protagonista, sempre alle prese con la sua cartella clinica, trovarsi cinicamente ad odiare il fratello. Quel fratello che aveva sempre amato; quel fratello che sempre gli era stato accanto anche nei momenti difficili (come forse solo la figlia Nancy era riuscita in meglio). Eppure d'improvviso si era trovato ad essere logoro d'invidia, e sì: davvero ad odiarlo. Non per i successi di Howie (eccone il nome), non per la sua ricchezza, non per la sua fortuna di viaggiare il mondo. Nulla di tutto ciò: “odiava Howie per quella dote biologica che avrebbe dovuto essere anche sua”. Eccone, fantastica nella sua semplicità, la meravigliosa descrizione della natura umana. Forse cinica. Forse spietata. Ma straordinariamente realistica. Un uomo, che potrebbe essere qualsiasi uomo (everyman), che si trova a lottare contro le malattie di un corpo caduco. E che non riesce a resistere nel detestare chi, per qualche mistero della natura, non ne sembra affetto.
Non è un libro facile, questo di Roth. Bello, davvero bello, ma non facile. Perché ti porta a fare i conti con la grande paura dell'uomo, quel precipizio dove dovrai lasciarti andare prima o poi. Ecco perché, per la prima volta credo per Roth, non ne consiglio a priori la lettura. Il mio discorso è paradossale, perché ho adorato ogni pagina di questo libro. Ma non è stato facile fare i conti con questa enorme verità, che è la nostra caducità. Lo sappiamo, lo sappiamo tutti benissimo. Ma guardare negli occhi la realtà, non è affatto facile.
Eppure è un insegnamento. Ecco allora che ritorno alla premessa di questa mia recensione: forse davvero Everyman è un libro in cui ognuno di noi si può riflettere, e che può essere vissuto in maniera differente in base al proprio carattere, o al momento in cui ci si trova a leggerlo. Per un ragazzo può essere lo stimolo per rendersi conto che nulla, mai, andrebbe sprecato. Per un ipocondriaco – un po', lo ammetto, lo sono – può essere una lettura difficile, paurosa. Per un anziano, ahimè, la razionalizzazione dei suoi sconforti e delle sue paure. Come è stato, ne sono certo, per lo scrittore.

PHILIP ROTH, Everyman, Torino: Einaudi, 2007 (ed. or © P.Roth 2006)
€10 (settembre 2011), 123 pagine.


Addio Sergio Bonelli, e grazie di tutto

Guardo la mia collezione di Dylan Dog. Quante emozioni. Chi non legge fumetti, chi non è cresciuto accompagnato dalle sensazioni che un foglio bianco riempito di china può dare, forse faticherà a capire la mia commozione. Non c'è nulla di infantile in un fumetto. Non c'è nulla di assurdo nell'essere dispiaciuti, ora.

Sergio Bonelli si è spento oggi, dopo breve malattia, ed il mondo della cultura italiana è più vuoto. Nato nel 1932, fu sceneggiatore ed editore di fumetti. Il padre Gian Luigi ideò il personaggio di Tex Willer, celebre in tutto il mondo, e Sergio fu il primo a sostituirlo alla sceneggiatura.

Diciamolo: la Sergio Bonelli Editore è stata, ed è ancora, un vanto italiano. Un vanto certo marchiato dal genio di sceneggiatori ed artisti, ma che alle spalle ha sempre avuto la protezione di un mecenate, di un uomo che – lo hanno detto in molti – è cresciuto per il fumetto, ed ha amato ciò per cui è vissuto.

Si moltiplicheranno, oggi, gli attestati di stima, i ricordi di chi lo ha conosciuto. Non sono fra loro, sia chiaro. La mia è solo la commozione di chi è stato preso per mano, e si è lasciato accompagnare nella fabbrica dei sogni (questa la definizione, mi pare giustissima, che viene data alla Sergio Bonelli Editore nel suo sito ufficiale). Ora resta il suo insegnamento, che verrà ereditato dal figlio. E restano i personaggi che ha creato, o su cui ha creduto: Tex, appunto Dylan, Martin Mystere, Zagor, Mister No, Nathan Never, Julia, Dampyr, Demian, Napoleone, Magico Vento, eccetera eccetera. Non sono pezzi di carta, sono davvero prodotti di quella fabbrica. Sono sogni.

Per chi è cresciuto con questi fumetti, Sergio Bonelli è sempre stato come un secondo padre. Pare la retorica del necrologio, e forse un po' di esagerazione mi sfugge. Parole più concrete verranno scritte domani sui giornali; le ritroveremo poi nei libri che inevitabilmente daranno a Sergio Bonelli un posto di privilegio fra i personaggi della cultura italiana. Questi pensieri non sono altro che il ricordo commosso di un sognatore. Ed un modesto ringraziamento. «Adios, y suerte», come direbbe Tex.



Questo articolo, che ho scritto io, è anche qui: http://www.larotaliana.it/rubriche/arte-e-cultura/item/1270-addio-sergio-bonelli-e-grazie-di-tutto.html



sabato 27 agosto 2011

Un pomeriggio ad Xfactor - Le selezioni per XFactor 5

Faccio outing; seguo X-Factor dalla seconda edizione, quella che qui in Trentino era diventata una sorta di moda, vista la partecipazione dei conterranei Bastard Sons Of Dioniso (secondi classificati di quell'anno). Non lo seguo mai con attenzione, né con troppa partecipazione.. solitamente anzi sono iper-critico, e come potrei non esserlo? Sono cresciuto circondato da persone che vivono la loro vita in un garage, vivendo per la Musica e per la soddisfazione di un pubblico composto da trenta persone. Una gavetta piena di sacrifici, per poi non raccogliere, a conti fatti, nulla di ciò che avrebbero meritato. XFactor pretende di voler trovare il cosiddetto fattore X.. peccato che poi ti ritrovi in una trasmissione con personaggi costruiti, tentativi spietati di audience che si rifanno alle tipiche atmosfere dei reality (lacrime, ostentazione delle tragedie personali, e quant'altro).
Piccola osservazione. I detrattori di XFactor, io per primo, fanno forse troppo spesso l'errore di addossare proprio al programma la colpa di questo carrozzone che lo accompagna. In realtà basta un po' di onestà intellettuale per accorgersi che la furbizia di Simon Cowell è stata quella di inserirsi in un sistema pre-costruito, e di illuminare con le luci della ribalta tutto lo sporco che già c'era. 
La realtà è un'altra: la Musica è, dal punto di vista commerciale (parlare della Musica come di un commercio mi schifa, ma purtroppo in questo discorso è l'unica ottica su cui mi concentro), come un'azienda prossima alla bancarotta. I motivi si sanno: venir meno del gusto del pubblico (per un generale impoverimento culturale, che porta ad una sorta di massificazione anche dei gusti), pirateria, prezzi troppo elevati dei supporti musicali...il tutto è un paradossale enorme gatto che si mangia la coda: la musica non vende, perché la gente scarica da internet. La gente non compra, perché la musica originale costa troppo. 
I motivi di questa crisi non sono insomma una novità, altri se ne potrebbero trovare. La realtà non cambia: la crisi impedisce alle case discografiche di rischiare. Tristezza immane, chissà quanti talenti non emergono oggi proprio per questo motivo! La Musica in passato è vissuta proprio grazie a questo rischio.. la possibilità di promuovere il perfetto sconosciuto, nella speranza che divenga un grande, ed inizi anche a vendere!
Un tempo, un mancato profitto per l'insucesso di un cantante significava semplicemente un errore di valutazione. Oggi può rappresentare la condanna per una casa discografica. Infatti, ormai nel mercato musicale - come in quello editoriale - riescono a sopravvivere con una relativa tranquillità solo le major, le multinazionali del settore. E non son certo loro a puntare sul primo-arrivato.

Cosa serve quindi, oggi, per riuscire a sfondare? Una gavetta impressionante, una qualità superiore e, soprattutto, o le conoscenze giuste, o la cosiddetta - termine tecnico - botta-di-culo. Che tristezza.

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XFactor, quindi. Per molti è una scorciatoia. Per molti è un demonio. In realtà penso sia una via di mezzo fra le definizioni. È un programma che prostituisce il gusto musicale, quanto - anzi forse meno - di ciò che fanno le case discografiche e le radio. 
È un programma televisivo. Molti lo dimenticano. Come programma televisivo dovrebbe essere sia interpretato, sia giudicato. Chi pensa che XFactor uccida la Musica o è un esaltato, o è poco onesto. La musica, questa musica, in realtà è già morente da anni. 
La Musica. Vive solo nell'ombra dei vicoli, nelle sale prove impolverate di ogni città. Nei timpani sfondati da un amplificatore dal volume troppo alto. Nelle dita insanguinate di un aspirante chitarrista; nel suo sorriso per una semplice scala pentatonica a tempo di metronomo. Questa Musica non è la musica delle case discografiche, non è la musica che si vende e si compra, è la Musica della vita, non è la musica che muore, non è la musica dei media, non è la musica della tv. Non è la musica di XFactor.

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Scindiamo allora i due aspetti. XFactor non è, non può essere, né vuole essere, la sintesi di tutto. È un talent show, in cui si coltivano dei personaggi, per gettarli e farli stritolare dal mondo mediatico. Nulla che mi appartenga per gusto e condivisione. Ma, se si riesce davvero ad essere così onesti da giudicare XFactor come programma televisivo, allora lo si può criticare almeno con più coscienza di causa.

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Il Teatro S.Chiara di Trento
Ho voluto fare di più. Non mi sono tirato indietro con quel sospiro da saccente che molti gettano quando si parla di un talent show. Approfittando del fatto che quest'anno gran parte delle selezioni per i partecipanti di XFactor si tengono a Trento, la mia città, vi ho preso parte. Nel pubblico, sia chiaro..le mie doti canore non meritano di essere esibite.
Mi sono sentito un po' un pesce for d'acqua. Gran parte delle canzoni proposte non mi piacevano; i personaggi che si sono presentati mi sono sembrati a tratti stucchevoli, a tratti persino fastidiosi. Solo in un paio di casi credo di esser stato colpito favorevolmente.
Ma..ci crederete? Mi sono divertito! Beh, lo scrivo chiaramente! Smettiamola di vivere XFactor come un programma musicale; interpretiamolo come una trasmissione di disimpegno! Ecco, io ho vissuto così il mio pomeriggio al teatro S. Chiara. Come qualcosa di nuovo, per passare un pomeriggio diverso. Non sorprendetevi, e non giudicatemi male, se vedrete il mio faccione su Sky. Né se starò persino applaudendo. Tenete per voi il vostro sospiro di supponenza, e cambiate semplicemente canale. Anch'io, come immagino molti dei miei lettori, preferisco di gran lunga altro.. Preferisco un libro alla lobotomia davanti ad uno schermo. Ma, che importa! Non mi precludo nulla! Nemmeno un pomeriggio ad XFactor!

lunedì 8 agosto 2011

Piccolo "appello"

Mi son reso conto che stanno aumentando i 'mi piace'..Quelli anonimi, sotto ai miei interventi, incredibile ma vero! Non voglio esagerare con l'egocentrismo, però permettetemi di dedicarmi e dedicarvi qualche, brevissimo, pensiero.
Non m'importa molto che ciò che scrivo piaccia a qualcuno. Anzi, mi spiego meglio: mi rende felicissimo riuscire ad interessare degli amici, dei conoscenti, o persino delle persone che capitano qui per caso! Ma ancor più adoro sapere che ciò che scrivo sia, semplicemente, letto da qualcuno! 

Alla fine mi son sempre convinto che un blog auto-coltivato, come un piccolo orto dove riversare i miei pensieri, fosse l'unico obiettivo che volessi conseguire..scrivere qui di ciò che mi solletica la mente, solo per volerlo fare! Ma non prendiamoci in giro, se davvero mi accontentassi di questo, beh.. terrei un diario in un  quaderno da quattro soldi, piuttosto che scrivere il tutto online. In fondo, ho sempre sperato che venisse il giorno in cui mi rendessi conto che c'è qualcuno che legge! Perché? Uhm..a dire il vero non so.. mi piace e basta! L'animo umano ricava soddisfazione ed appagamento dalle cose più strane!

Ora, vi chiedo.. ma chi siete? chi siete voi che ogni tanto mettete 'mi piace'? Chi siete voi che leggete? Perché lo fate? Come siete capitati qua? Ci tornerete?
Perdonatemi, ma muoio di curiosità!

PS: lo scorso primo di agosto il blog ha compiuto tre anni.. gulp! gasp!

giovedì 28 luglio 2011

[REPORT] Viaggio a Londra | High Voltage Fest 2 (Judas Priest, Dream Theater, ...) [1]

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REPORT
Viaggio a Londra
High Voltage Festival
22 luglio 2011 - 27 luglio 2011

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PRIMA PARTE

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Premessa.

Questa è stata la mia seconda volta. La prima, di cui potete leggere il report qui, era quella della meraviglia. Dell'inaspettato. Della sorpresa. Questa sarebbe stata, lo sapevo, quella della consapevolezza. La conferma o la smentita di tutto. Il rischio di una delusione poteva essere fortissimo, dopo un anno in cui non ho fatto altro che coltivare la mia voglia di tornare a Londra.
La seconda volta che si fa l'amore con una città, lo si fa con uno sguardo diverso. Solitamente si riesce a penetrare quella cortina del primo approccio, si ha il tempo di sondarla più a fondo. Per una città come Londra, che ti rapisce col suo fascino e le sue contraddizioni, con il suo essere unica e così diversa al suo interno, forse anche questo ritorno non mi ha permesso di capirla del tutto. Ma è andata bene. Meravigliosamente bene.

Primo giorno. 
venerdì, 22 luglio 2011

Tutto alle spalle. Ecco l'imperativo, per me e Susi, la mia ragazza e compagna di viaggio. Via tutto, si parte. Finalmente è arrivato il giorno, basta pensare all'università, agli obblighi, a… beh, a tutto quello che non sia questo. La paura più grande dev'essere il peso di una valigia. Lo stress più forte, il volo. Nient'altro. Si può cancellare tutto di colpo? Mesi e mesi, forse proprio un anno, di pensieri, che si accalcano come una fogna nel tuo cervello? Sì, si può. È l'imperativo a cui l'uomo ha risposto con questo strano concetto che è la vacanza. Spender dei soldi, per non pensare a null'altro che a..niente! Entrare in una nuova realtà, giocare ad essere ciò che non si è. Immedesimarsi nell'utopia che tutto sia diverso. Perché tutto è diverso, anche se solo per cinque giorni.
Londra. Londra ed il 'mind the gap', Londra e gli indiani nel supermercato, Londra ed i ristoranti italiani. Londra. Quale posto migliore per nascondersi? Quale posto migliore per diventare uno dei tanti?  

Ecco i nostri pensieri mentre il nostro volo prendeva il cielo, da quello soleggiato e malodorante di Milano, fino a quello nebuloso e quasi autunnale (così sembra, dal nostro punto di vista) londinese. Il nostro albergo è in una zona abbastanza affollata, vicino alla stazione della metropolitana di Mile End. Sin da subito, a vederlo dall'esterno, ci sembra piccolissimo. Non abbiamo pagato molto, non ci possiamo lamentare che per raggiungere il cucinino che il gestore (un gentilissimo indiano) ci mostra rischiamo la vita, con degli scalini che sembrano cadere a pezzi. Nemmeno ci possiamo lamentare che la nostra stanza è davvero minuscola, quasi claustrofobica. "E' l'ultima rimasta", ci dice l'indiano. "Se volete, da domani ne potrete avere un'altra".
Ma che c'importa! In vacanza tutto è bello. A Londra tutto è bello. Anche dormire temendo che al risveglio un nostro starnuto possa far crollare l'intero albergo. Terremo questa stanza fino all'ultimo giorno, ed inizieremo anche a chiamarla 'casa'.


Secondo giorno. 
sabato, 23 luglio 2011
primo giorno di festival

High Voltage 2011 Line Up
Ogni amante della musica dovrebbe vivere l'esperienza di un festival. Non in Italia. Non lo scrivo per una forma di esterofilia, sarei così lieto che un concerto di qualità si tenesse nella nostra penisola. Sarebbe lieto anche il mio portafoglio.
Ma la verità è proprio questa: il festival vero, quello che ti rimane impresso nei ricordi più felici, non è fatto dai soli gruppi che lo compongono. È parte fondamentale, certo; ma c'è anche un contorno che è altrettanto essenziale: l'organizzazione, si potrebbe dire sintetizzando. 
Ecco cosa rende l'High Voltage Festival così speciale. Il contorno. E la gente, ovviamente.

Arriviamo abbastanza presto al Victoria Park, sede del concerto. C'è già una lunga fila di persone; ma, raccattati i braccialetti che ci avrebbero permesso di entrare al concerto, non tardiamo ad essere finalmente all'ingresso del festival. Qualche problema tecnologico, con uno scanner che non riesce a leggere il codice a barre del nostro braccialetto, ci rallenta ulteriormente. Ma che ci importa! A Londra tutto è bello, e stanno per accendersi gli amplificatori, le chitarre stanno per urlare, i nostri pugni si leveranno presto al cielo.

domenica 17 luglio 2011

[REC] Philip Roth, Il Seno

Sconvolgente. Credo che molta critica etichetti così ogni libro di Philip Roth. D'altronde il puritanesimo da Indice dei Libri Proibiti ha messo le radici nel pensiero comune, e scrivere di sesso è comunque la prova sufficiente per anatemizzare uno scrittore. Non pare un caso che, ad oggi, uno dei più grandi scrittori viventi non sia stato insignito del premio Nobel. Uno dei più grandi scrittori? Sì. Perché la verità è proprio questa, la stessa per cui mi sono battuto nelle altre mie recensioni ai libri di Roth: l'americano potrebbe persino parlare delle sue defecazioni mattutine, e lo farebbe comunque in un tessuto narrativo d'incantevole qualità.
Ma, per questo
Il Seno, devo ammettere che il termine 'sconvolgente' calza a pennello. D'altronde di per sé 'sconvolgente' è una vox media: sconvolgente è un efferato omicidio, ma sconvolgente è anche la più grande passione d'Amore. E allora: in che senso Il Seno è sconvolgente? Non pretenderete che sia una recensione, per altro umile, a dirvelo?! A volte certe sensazioni si possono vivere soltanto leggendo un libro. È il bello della lettura. È lo sconvolgente della lettura.

Ho approfittato di un'edizione economica, allegata all'interessantissimo e consigliatissimo inserto domenicale di cultura de “Il Sole 24 ore”, per acquistare finalmente questo libro. Era nella mia lista delle “letture da affrontare, prima o poi” ormai da qualche anno, da quando almeno avevo letto Il professore di desiderio e L'animale morente, altri due libri di Roth diversi fra loro, ma con in comune il protagonista, David Kepesh. A formare una sorta di trilogia (ma particolarissima), anche ne Il Seno il protagonista è appunto Kepesh.
Se il mio lavoro fosse quello di scrivere recensioni, ora potrei pure perdermi in una lunga, e forse noiosa, parentesi sulle analogie fra i tre libri. Ne verrebbe fuori probabilmente un ritratto un po' particolare del concetto di 'trilogia'. Perché, in effetti, a quanto ricordo i libri sono dei monoliti che hanno in comune soltanto un nome. Ma probabilmente sto sbagliando, l'ho scritto che non sono un recensore di professione. Non ho ripreso in mano i libri che ho già letto, ho qui davanti solo Il Seno, che fra l'altro dei tre è quello scritto prima, anche se io l'ho letto per ultimo.
Suvvia. Poche palle: penso che dei richiami reciproci fra i tre libri siano stati effettivamente pensati dall'autore (a pagina 40 della mia edizione de Il Seno si accenna di una passata avventura del protagonista con due donne in contemporanea, con finale fra il patetico ed il drammatico per una delle due; non è forse una vicenda poi approfondita nella prima parte de Il professore di desiderio? non credo di sbagliare), ma i tre libri hanno il loro centro in eventi del tutto slegati fra loro. L'animale morente, ad esempio, si inserisce perfettamente nell'ultima produzione di Roth, in cui l'autore riflette sulla vecchiaia e su quanto sia volubile la vita. E Il Seno? Beh, la sua trama è del tutto particolare. Forse è il caso di accennarla.

David Kepesh è uno stimato docente universitario di Letteratura. Fra i suoi difetti vi è l'ipocondria, è vero, ma non è il caso di drammatizzare, visto che ogni sua paura si è sempre rilevata infondata. Almeno fino a quel giorno in cui uno strano colore della pelle, lì al di sotto del pene, gli fa pensare ad un cancro. Lo fosse stato! Almeno la diagnosi, per quanto drammatica, sarebbe stata 'normale'. Ed invece, questo, per il povero Kepesh, è solo il primo stadio di una metamorfosi, che lo trasformerà, in una notte, in una gigantesca mammella di donna.

Metamorfosi, e la mente corre a Kafka. Anche lui uno scrittore ebreo, come Roth. Sicuramente di Roth è stato, attraverso i suoi libri, grande maestro. Lo sappiamo, se non sbaglio, proprio da Il professore di desiderio, dove ad un certo punto Kepesh si rifugia a Praga; l'occasione è colta al balzo da Roth, che ci regala alcune bellissime pagine critiche su Kafka (dovrei rileggerle!). E di Kafka Roth parla anche nelle Chiacchiere di Bottega, un libro in cui intervista altri colleghi scrittori, ed in cui il richiamo al Maestro è spesso presente. E non può evitare, nello stesso Il Seno, in una sorta di colpo da metateatro, di inserire il nome di Kafka. Quando il protagonista si convince d'esser diventato pazzo, credo di esserlo perché sin troppo suggestionato dalla lettura del classico kafkiano e de Il naso di Gogol'.
Ma se la rilettura, ironica, delle Metamorfosi è stato probabilmente l'input – me lo immagino!, Roth sulla poltrona di casa sua, a parlare con un vecchio studente delle Metamorfosi. «Ve lo vedete voi, il protagonista non più trasformato in scarafaggio, ma in una grossa tetta? ahah che ridere! Oh però, coff coff, l'idea è buona!» -, i temi trattati sono quelli cari già ad altra della produzione dello scrittore americano. L'ossessione per il sesso, ovviamente, la ricerca per il piacere che rifugge dai dogmi, e si tuffa in nuove perversioni. Ecco, la stessa ontologia mammellica, il divenire Seno, è di per sé una perversione. L'indagine originale e, ancora, sconvolgente di cos'è l'essere tetta! Questa meravigliosa misteriosità che è il seno femminile, tripudio estetico ed estatico si potrebbe dire, ma ancor più miracolo della natura: miracolo come è miracolosa la capacità umana di provare piacere, attraverso quel sentiero anatomico e sensoriale che si accende in climax fisici. Sensazioni che dell'uomo sono parte, ma che rifuggono dalla sua capacità di un totale discernimento. In questa selva di bellezza e mistero, Roth prova ad avventurarsi attraverso l'arma duplice di ironia e paradosso, sfonda i confini dell'immaginazione tentando di rendere verosimile persino una siffatta metamorfosi! Così l'uomo diviene Seno, ma rimane uomo, con le sue debolezze di fronte alla carne, alle prese con una realtà che va al di là della sua concezione. E le reazioni sono poi facili da immaginare; quando Kepesh supera il mero istinto, selvaggia ricerca del piacere, ecco che arrivano quelle che definisce come crisi. Prima un professore che, vedendolo, non riesce a trattenersi dal ridere; poi la sua incredulità, a cui risponde con l'improvvisa illusione di star vivendo solo un sogno. O una forma di follia, ispirata, come detto, da una sorta di suggestione data da quei maestri del parossismo che sono Kafka e Gogol'.

Ciò che è straordinario in Roth è proprio questo, il continuo giocare, il filo che scorre fra l'assurdo ed il verosimile, straordinaria indagine dell'istinto e del pensiero umano, psicologia dell'impossibile che diviene verosimile. Ecco la straordinarietà di Roth. Valicare i confini del paradosso, e riuscire a dare comunque un brivido al lettore, quando sfoglia l'ultima pagina.

Philip Roth, Il seno, Torino: Einaudi, 2005
pubblicato per la prima volta in Italia nel 1973 con il titolo La mammella
Edizione recensita: I libri del Sole 24 Ore, edizione speciale, 2011

su ibs:

sabato 2 luglio 2011

I nuovi delfini

"CHI SARA' IL NUOVO PAPA?"

Lo ammetto: a scrivere così pare di essere in un nuovo reality show. Dopo il Grande Fratello, ecco a voi il Grande Cocnclave: chiamate il numero in sovraimpressione, o inviate un sms, e potrete esprimere il vostro televoto. In regalo riceverete direttamente sul vostro cellulare la suoneria del Fratello sole, sorella luna o dell'Alleluia.
Pare una blasfemia. Eppure sappiamo che in età antica il vescovo di Roma era acclamato dal popolo, quindi di per sé l'idea del televoto avrebbe persino un fondamento storico. Fortunatamente è in realtà un parto paradossale della mia mente: l'istituzione del conclave è ancora un fondamento dell'organizzazione ecclesiastica.

Eppure: c'è un eppure. Esiste una categoria, una sottospecie, di giornalisti che sono i vaticanisti. Solitamente sono dei laici fortemente religiosi, spesse volte la versione edulcorata di quell'altra sottospecie di giornalisti che sono gli esperti dei regnanti. Questi vaticanisti sanno i fondamenti della teologia, qualcosa di storia della Chiesa, ma soprattutto sono informati su tutti i gossip che circolano nello Stato del Vaticano. Rispetto ai giornalisti che si occupano dei regnanti inglesi hanno ben meno possibilità di lucrare sulla loro fantasia: qui non abbiamo amanti palesi, non si può parlare dell'ultima scappatella dell'aspirante al trono, né rinvangare con la voce drammatica il ricordo della bella e tormentata principessa, morta in un incidente stradale. No: qui il contesto è sin troppo serio: i nostri sono allora costretti a stemperare la serietà della teologia assecondando la superstizione popolare (con enfasi su episodi che di religioso hanno poco), ricordando gli eroi del passato (in Italia van di moda San Pio e Giovanni Paolo II: due personalità senz'altro significative anche dal punto di vista storico, ma non è questa la prospettiva con cui vengono ricordati), e, appunto, interrogandosi su quel quesito sempre sospeso: 'chi sarà il nuovo papa?'.

Mi occorre una piccola parentesi. Intendiamoci: non credo che i vaticanisti siano tutti di questa staffa. Ve ne sono di seri, che attraverso il loro commento oculato permettono di comprendere appieno gli atteggiamenti delle istituzioni ecclesiastiche. Non son più gli equivalenti degli esperti dei regnanti, ma degli ottimi commentatori politici. Né vorrei che si intendessero le mie frecciatine a certi giornalisti (quelle qui non sono le prime nel blog) come un tentativo di delegittimare il giornalismo: contraddirei una delle mie aspirazioni, che è appunto quella di scrivere per un giornale. La realtà è che penso vi siano, in ogni categoria, delle personalità che, forse per lucro o forse per necessità, gettano infine discredito sulla stessa categoria a cui appartengono. 

Il punto è proprio questo. Alla domanda 'Chi sarà il nuovo papa?' un vaticanista serio dovrebbe rispondere in due modi. Primo. Il papa attuale è ancora in vita, né pare avere problemi di salute, o intenzione di dimettersi. Secondo. Ogni previsione, soprattutto ora, non è altro che mera speculazione; sappiamo come il conclave sia innanzitutto risposta di una contingenza. Touché.

Ma non sono pochi i sensazionalisti, i vaticansensazionalisti (evviva i neologismi), che proprio in questi giorni hanno invece già trovato il nome del nuovo papa. Con una strabiliante certezza, hanno detto che il successore di Ratzinger sulla cattedra di San Pietro sarà Angelo Scola. Il motivo è presto detto. Già investito della carica cardinalizia come patriarca di Venezia, nei giorni scorsi egli è stato nominato da Benedetto XVI arcivescovo di Milano, succedendo al dimissionario Dionigi Tettamanzi. Ebbene: per qualcuno questa è già un'indicazione testamentaria dell'attuale papa, che avrebbe così voluto assicurare la successione di una persona stimata, come monsignor Scola, alla Sede Apostolica. Non un'indicazione che riguarda la sola diocesi ambrosiana, quindi, ma l'intera ecumene cattolica. Quest'interpretazione tiene senz'altro conto della storica preferenza per la sede di Milano all'interno del conclave, ma ignora completamente quel punto che già indicavo come fondamentale nella storia di ogni elezione papale: la contingenza. E lo stato di salute di Benedetto XVI, ovviamente.

Strani destini quelli dei delfini. Non parlo di Flipper, ma degli eredi al trono, spesse volte indicati da un'opinione comune poi smentita dai fatti. Soprattutto oggi, nella società mediatica che è innanzitutto società dei sensazionalismi. In questi giorni è stato acclamato, a furor di partito (con un plebiscito ipocrita ed anch'esso sensazionalistico), Angelino Alfano come nuovo segretario del Partito delle Libertà. Sono stati in molti i commentatori che hanno visto proprio in Alfano il successore di Berlusconi, colui che proprio l'attuale premier avrebbe voluto indicare come erede. Ecco che si torna ai due punti fondamentali: il papa..pardon, il presidente..è ancora vivo; e la sua successione sarà figlia della contingenza. Quando accadrà. Ogni speculazione, oggi, resta sempre una speculazione. Touchè.

La mia idea è che Angelo Scola non diverrà papa, e che Angelino Alfano non sarà mai presidente del consiglio. Ma non può essere che una sensazione.

venerdì 1 luglio 2011

Picturarum adoratores


Nel 388, Agostino d’Ippona collocava i picturarum adoratores (gli adoratori delle icone) tra le categorie di cristiani più superstiziosi che illuminati. Allora il fenomeno era poco diffuso, ma stava per incontrare una certa fortuna soprattutto in Oriente. Immagini miracolose, prese come oggetti di culto, che si diffondono sempre più, sino a divenire una vera minaccia per l’ortodossia. La conseguenza, nell’VIII secolo ma ancora altre volte nella storia, sarà la tendenza opposta, l’iconoclasmo. Gli storici sanno come questa tendenza sia stata anche, in parte, una disfida strumentale; lo devo dire per non sembrare troppo sprovveduto come studente di Storia, ma l’argomento di questo mio blog - come amo saltare di palo in frasca! - è in realtà un altro.

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Torniamo ai giorni nostri, ma non usciamo dal recinto dei picturarum adoratores. Quali sono le icone d’oggi? Non mi riferisco più alla religiosità: sia un bene o un male, ormai la religione sta perdendo sempre più le sue influenze sulla cultura di tutti i giorni. Sia un bene o un male, dicevo: credo che di per sé è sia un bene sia un male. Un bene, perché sappiamo i danni sociali che una religiosità troppo impregnante, al di là persino delle concezioni evangeliche, ha fatto in passato. Un male, perché il Cattolicesimo - volenti o nolenti - portava con sé una serie di valori, che dovrebbero essere il retroterra comune di qualsiasi uomo, cattolico o ateo, ma che solo il timore di Dio riusciva davvero a diffondere. Almeno idealmente, sia chiaro, non è questo il momento di discutere quanto la pràxis si potesse discostare da un ritratto così semplicistico, come quello che sto abbozzando.
Ma torniamo al punto: chi sono allora gli adoratori di icone di oggi? Siamo noi donne ed uomini così attaccati, ancora, al culto dell’immagine. Che falsità! Che ignoranza! Siamo sempre più superstiziosi, e sempre meno illuminati. Le nuove icone sono le riviste patinate, le orde di modelli impazziti usciti dai balletti di ‘Ciao Darwin’. Ecco: ‘Ciao Darwin’; avete presenti quegli scimmioni nel pubblico, che si mettevano ad ululare durante le sfilate di intimo? Da bambino li guardavo con un certo divertimento, credevo fossero degli attori pagati per fare i deficienti. Dei clown!
Ecco l’amara scoperta: quei deficienti li sto ritrovando, ora, persino sui banchi della mia Università. Sono ancora una minorità, per fortuna, ma c’è un concetto che ancora sfugge dalla mia logica: come può una persona che ama studiare, ama la cultura, anche fino ad arrivare al punto quasi masochistico di iscriversi ad una facoltà umanistica, togliersi poi la maschera ed essere uno scimmione? Bene, c’è davvero qualcosa che non va nel circolo universitario. Credo si sia arrivati al punto in cui si premia sempre più il nozionismo, e sempre meno la cultura. L’alto flusso di studenti lo impone. Ma ecco allora che alla laurea non arriva più solo l’élite culturale del Paese, anche gli scimmioni riescono ad avere una carriera di studi apparentemente brillante. Non mi spiego altrimenti come possa essere testimone di certe discussioni da deficienti, che odo ahimè anche nei cortili della mia università.

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Agostino d’Ippona. Ciao Darwin. Università. Bene: mi rendo conto che questo mio intervento è stato sin troppo delirante, ben al di là dei miei soliti standard. Ma, sotto sotto, un senso per me lo ha. Se mai diventerò professore universitario - un sogno -, devo ricordarmi mentalmente un dogma: non sono (solo) le nozioni a far lo studente; sempre più è importante, fondamentale, in una società deviata e deviante, riuscire a fare il salto di qualità. Un universitario deve iniziare a studiare anche la cultura della vita e la cultura del pensiero. Non può essere il prodotto di uno stampino, che lo incanala in un flusso di pensieri formulati da altri. Non può essere uno schiavo delle icone. Un picturarum adorator.

Ma non pretendo di aver esaurito l’argomento con queste righe, in realtà sono solo uno sfogo.

mercoledì 29 giugno 2011

Parole, parole, parole

Oggi pomeriggio camminavo per andare in biblioteca, quando, passando vicino all’oratorio del mio paese, ho sentito provenirmi delle note a me controvoglia ben note! “BOOOMBA, A MOVIMENTO MUY SEXYYY, SENSUAAL”.. Ho dato un’occhiata al cortile, ed ho visto decine di bambini che ballavano in gruppo la canzone (“SENSUAAAAL”). In un oratorio, ribadisco. Oh come sono cambiati i tempi!

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Non vorrei fare alcun moralismo, in fondo se c’è qualsivoglia malizia la vedrebbero solo gli adulti, non i bambini (che si stavano solo divertendo). Però mi ha fatto pensare al difetto tutto italiano di giudicare le canzoni solo per l’aspetto musicale, a non far caso ai testi. Forse una canzone che inneggia alla sensualità non è proprio la più adatta per dei bambini ed un oratorio, non perché lo credo io, ma perché probabilmente, se ci facessero caso, lo crederebbero gli stessi preti che in quell’oratorio hanno dimora. Ma che importa..la canzone è allegra, e tanto basta!

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Mio padre ha letto un tempo che se gli italiani avessero compreso appieno i testi dei Beatles, avrebbero avuto un po’ meno del successo che hanno effettivamente avuto. Mi sembra un discorso un po’ banale, a dire il vero, perché forse proprio la semplicità dei loro testi è stata una delle chiavi proprio della loro presa sul pubblico. E, nella loro straordinaria capacità di variare, i Beatles sono riusciti a passare con coscienza da testi effettivamente di poco valore, come quello di “Love Me Do”, a poesie come “The Long And Winding Road” o a inni per la libertà, come “Revolution” Beh, inutile che mi perda in odi ai Beatles, non era questo il senso del mio intervento. Credo però che effettivamente se gli scarafaggi di Liverpool avessero parlato di cacciaviti e brugole, di banane e lamponi o di Amore, per l’italiano degli anni Sessanta non sarebbe cambiato nulla.
Fortuna che anche in Italia son nati i cantautori, gente come De Andrè, Dalla, De Gregori, Guccini, eccetera eccetera, che hanno provato ad insegnare anche agli italiani che la Musica può essere uno dei veicoli della Poesia. In qualche modo il concetto è passato, ed ancor oggi vediamo masse di persone che sfoggiano la citazione di De Andrè, alternata a quella di Oscar Wilde. Lo faccio anch’io. Giusto dare ai poeti la dignità dei Poeti, anche se si facevano accompagnare da una chitarra. Già i Greci non si scandalizzavano di accompagnare quella che per noi è Letteratura con la Musica.

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Ma questi sono casi illuminati; la realtà è che la maggior parte degli ascoltatori di musica ormai canta parole senza nemmeno pensare al loro significato. Fateci caso: chiedete a qualsiasi persona di cantarvi l’ultima di Lady Gaga, e saprà probabilmente - anche in modo maccheronico - esibirsi. Ma chiedetegli il senso di quello che sta cantando, e cadrà dalle nuvole. Lo stesso per l’ultima di Shakira; ed è un bene, perché se ne analizzassimo effettivamente il testo (come mi son preso la briga di fare), utilizzando termini filologici approvati dall’accademia della Crusca, potremmo definirla una puttanata. E pure se ne sta lì, nelle prime posizioni della classifica, pronta a farsi modello letterario per centinaia di ragazzine.. O tempora, o mores!