lunedì 24 settembre 2012

«Noi siamo migliori»


Non mi piace scrivere troppo di ciò che non conosco a menadito; e così ho una certa difficoltà a scrivere di quanto sta accadendo in Nord Africa ed in Medio Oriente. Purtroppo questo mio scrupolo non se lo pongono in molti, e mi capita quindi sempre più spesso di sentire analisi approssimate – giudizi che sfuggono nei bar o sugli autobus –, solitamente nate più da una certa saccenteria, che da una conoscenza reale dei fatti. Bene, non voglio fare ora l'errore di cascare nello stesso atteggiamento, come se, non potendo trovarne la cura, volessi ammalarmi di quello stesso male che vorrei debellare.

Ci sono alcuni misteri assoluti della storia, a cui si cerca di dare una risposta con la comprensione della contingenza. Prendiamo certe adesioni, anche di intellettuali affermati o di scrittori di assoluta fama, al fascismo (l'esempio c'entra poco, ma mi pare possa essere facilmente comprensibile): come possiamo comprenderle ora, dall'alto della nostra cultura antifascista? Soprattutto noi giovani, nati nei tempi di una Repubblica che si è voluta legittimare proprio per il suo antifascismo (qui, lo ammetto, c'è l'eco di una lezione che ho seguito oggi in università), non ci possiamo che sentire, per istinto, più vicini ad un Benedetto Croce che ad un Giovanni Gentile. Ma se affrontiamo con più serietà lo studio storico, ci rendiamo conto che spesso cadiamo in un errore, tanto banale quanto difficile da superare. Non possiamo giudicare il passato con gli schemi del presente; o meglio: non possiamo giudicare una situazione a noi distante, senza comprenderla anche dal punto di vista culturale. È una lezione che, nella storiografia, ci arriva soprattutto da certi studiosi francesi.

Ma anche nel giudizio dell'attualità, io credo, non possiamo esimerci da questo sforzo. Possiamo capire l'altro solo conoscendone la cultura; e riuscendo a scrollarci d'addosso la nostra supponenza da “occidentali”, che ci porta a giudicare come peggiore solamente ciò che non conosciamo. (d.e.)

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