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sabato 11 febbraio 2012
[REC] Alan Bennett, Gli studenti di storia
È uscita finalmente in questi giorni anche in Italia, per Adelphi, History Boys, l'ultima commedia firmata da Alan Bennett. Scritta e rappresentata per la prima volta nel 2004 (al National Theatre di Londra), possiamo ora apprezzarne anche la traduzione italiana di Mariagrazia Gini, intitolata Gli studenti di storia. È una pièce teatrale pluripremiata, vincitrice di ben sei Tony Awards (gli oscar del teatro), fra cui quello per la migliore rappresentazione. Da essa è stato tratto anche un film omonimo (2006), recitato dagli stessi attori del cast teatrale, e con la regia, anch'essa in comune con il teatro, di Nicholas Hytner.
LA TRAMA – La trama è all'apparenza molto semplice. Siamo nel contesto di una scuola inglese, dove otto studenti, che puntano ad accedere alle prestigiose Università di Cambridge ed Oxford, partecipano ad un corso propedeutico estivo, proprio in vista degli esami in ingresso che dovranno sostenere. Il preside è un uomo orgoglioso, più interessato al prestigio della scuola che al futuro dei suoi studenti, fiero della facciata di rigore che ha costruito (salvo poi lasciarsi andare un po' troppo con la segretaria). I tre professori, incaricati di preparare gli alunni all'esame, sono con gli studenti i veri protagonisti della narrazione. La professoressa Lintott, fautrice di un metodo d'insegnamento tradizionale, è forse il personaggio più concreto. In lei traspare una sottile melanconia, un certo senso di inadeguatezza, mitigato da un certo fiero femminismo. Il professor Hector è un eccentrico pedagogo, amante della poesia, colto e col gusto per la citazione. Ama davvero ciò che insegna, ed odia che il bagaglio di conoscenze sia svilito dalla necessità pratica di superare un esame. Il suo opposto è rappresentato dal giovane professore Irwin, spietato nel vendere la verità al fine pratico di dare agli studenti gli strumenti per superare il test d'ingresso nelle Università. «Mollate il branco.», dice Irwin «Seguite Orwell. Siate provocatòri. E già che cito Orwell, prendete Stalin. Tutti lo definiscono un mostro, e hanno ragione. Quindi voi dissentite. Trovate qualcosa, una qualsiasi cosa da dire in sua difesa. Oggi la storia non ruota intorno alle convinzioni. È performance. È spettacolo. E quando non lo è, fate in modo che lo diventi.»
LA MORALE – La commedia di Bennett vibra d'intelligenza; anche quando la risata è scaturita dall'equivoco, o dall'esplicito ricorso alla sfera semantica dell'erotico, il lettore si rende conto che al di sotto c'è sempre un senso più profondo. Chiedendosi cos'è la storia, come dev'essere studiata e come insegnata, Bennett sfuma verso un concetto che ha dell'esistenziale. Perché il vero tema della commedia è in realtà la vita. Al di là di libri ed esami, la vera storia, quella di ognuno, è fatta da momenti, da eventi che non serviranno mai a superare l'esame per Cambridge. Quella di Bennett è insomma insieme una pungente satira contro il mondo accademico, e un'intelligentissima riflessione. Dopo i sorrisi e le risate, il lettore viene coinvolto in una riflessione interiore, che – come la prefazione ben spiega – nasce direttamente dall'esperienza autobiografica dell'autore. Ma la commedia è un gioco in cui i valori sono costantemente sospesi, quasi sempre annullati, ribaltati. Il significato vero della narrazione è proprio l'assenza apparente di significato; di come ogni cosa sia relativa: l'amore, la poesia, la vita e la morte. E la storia, soprattutto la storia.
pubblicata anche: laRotaliana.it
giovedì 13 ottobre 2011
[REC] Philip Roth, Nemesi
[questa recensione non contiene spoilers]
I Greci parlerebbero di Τύχη (Tyche). Noi, a seconda della nostra cultura e del nostro credo, parliamo di caso, di destino, di Fortuna. O di Dio. Ma esiste un momento, prima o poi, in cui tutti ci chiediamo «perché io?», o «perché non io?». Perché io, ora, son qui a leggere una recensione di un libro, scritta da un idiota qualunque, mentre qualcun altro al mondo sta morendo di fame? Perché io ho un tetto sulla testa, e ci sono bambini che mai vedranno il domani? Perché io…?
A questa domanda, quasi ontologica, la religione ha dato una risposta. “Mistero della fede”, la volontà imperscrutabile di un essere superiore (quale sia il suo nome), a cui ci possiamo avvicinare, ma mai comprendere del tutto. Perché la fede dev'essere cieca, e mai si deve dubitare di un disegno così immenso.
Philip Roth non può accontentarsi. Il personaggio del suo ultimo libro (Nemesi [2010]), Bucky Cantor, nemmeno. Bucky non è ateo, crede davvero nell'esistenza di Dio, ma se accetta la sua presenza, allora.. ancor peggio! Come può Dio essere così malvagio? Mr. Cantor finirà con l'odiare Dio, con l'incolparlo di quel caso, quasi fosse la rivisitazione della dea Fortuna, che ha voluto, per sua sola volontà, girarsi più in là.
Siamo nell'estate, la caldissima estate del 1944. In Europa si sta combattendo la Seconda Guerra Mondiale, ed i soldati americani si devono dividere fra il Vecchio Continente e l'Oriente, il Giappone di Pearl Harbor. Bucky Cantor è un istruttore ventitreenne: durante l'anno scolastico insegna educazione fisica nella scuola di Newark, nel New Jersey; in estate è l'animatore di un campo giochi della città. È sportivo, atletico, lo si direbbe un perfetto soldato: ma a differenza dei suoi più cari amici, Jake e Dave, non è partito per il fronte. Non arruolabile, per colpa della sua vista, è rimasto a Newark, ignorando che, anche nella sicura America, avrebbe dovuto combattere una guerra.
Poliomelite, semplicemente “polio” nel gergo. Per l'ebreo Bucky Cantor il vero nemico, nel 1944, non ha più una svastica sul braccio: è un morbo invisibile, inspiegabile, che contagia ed uccide. Soprattutto i bambini. La poliomelite inizia con sintomi che fanno pensare ad una semplice influenza: brividi, febbre, una forte emicrania. Ma poi evolve, colpisce i muscoli, deforma le persone colpite, le rende storpie. Colpisce le vie respiratorie, sicché gli ammalati possono respirare solo attraverso un polmone d'acciaio. Chi guarisce, rimarrà storpio. Molti, soprattutto bambini, non sopravvivono.
Ed è proprio quando i ragazzi del campo giochi di Mr. Cantor iniziano morire, che inizia la sua tragedia personale. Quel senso di impotenza, ma quella voglia di restare comunque a Newark, quasi per lui fosse un nuovo sbarco in Normandia.
Ma poi c'è Marcia. La ragazza che ama; la figlia del dottor Steinberg, che tanta sicurezza dà a Bucky, anche nell'incubo dell'epidemia. Quando Marcia proporrà a Bucky di raggiungerla ad Indian Hill, dove lei già è animatrice di un campo estivo, e dove la malattia non è arrivata, per lui inizierà il vero tormento. Cosa fare? Fuggire da Newark e dalla polio, o restare a combattere, con i suoi ragazzi, con l'amata nonna, piangendo i morti e sorreggendo gli storpi?
Nemesi ha in sé sempre quel sottile doppio binario, tipico dell'ultima produzione di Roth. Da una parte Dio ed il destino, quel disegno che sembra scritto da qualcuno; dall'altra noi, che quel disegno muoviamo con i nostri gesti e le nostre scelte. Noi che il destino, la Fortuna, davvero ce la costruiamo da soli. In un libro che di questo ciclo fa parte a pieno titolo, Indignazione (2008), Roth metteva nero su bianco questa concezione, che sta poi alla base anche di Nemesi. «Il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati». Questo è il destino per Roth, questo è il vero Dio per Roth. Ogni nostra scelta, può essere la prima pedina del domino, che ne farà cadere un'altra, e poi un'altra ancora, ed ancora, trascinandoci verso una direzione che altrimenti mai avremmo preso. E, la maggior parte delle volte, l'effetto di una nostra scelta, per quanto meditata, rimane imprevedibile. Questo è essere uomo, questo è vivere: costruire il destino con le proprie scelte, in un modo così “terribile” e così “incomprensibile”.
Nemesi è un libro bellissimo, forse fra i più belli del Roth maturo. Una storia che ti lega alle pagine, ed un contorno che è filosofia, è insegnamento di vita, ti porta a riflessioni profonde. Il tutto con quell'arte della narrazione e della descrizione, che è il vero, immenso tesoro dell'autore americano.
PHILIP ROTH, Nemesi, Torino: Einaudi, 2011
(ed. or. © Philip Roth, 2010)
(ed. or. © Philip Roth, 2010)
€ 19 (Einaudi SuperCoralli), 183 pagine
sul sito Einaudi:
lunedì 26 settembre 2011
[REC] Philip Roth, Everyman
Un libro non è mai solo dello
scrittore; è anche – e forse persino più – di chi lo legge.
Come quando eravamo bambini e nostra madre ci raccontava le fiabe.
Non erano le parole ad interessarci, ma le immagini che vedevamo
chiudendo gli occhi. E così evaporavamo anche noi, diventando un
tutt'uno coi sogni, fino ad addormentarci. Questa dimensione del
leggere (o, sì, dell'ascoltare qualcuno che legge) si sta forse
perdendo sempre più. In genere, più diventiamo razionali, e più
perdiamo la capacità di lasciarci avvolgere dall'istinto della
fantasia. Ma, a ragion veduta, questa capacità umana non si perde
mai del tutto. Leggere un libro non è mai un'esperienza passiva; si
interagisce sempre col testo, lo si rende vivo nel riflesso del
proprio sentimento, e nelle esperienze personali.
Naturalmente anche lo scrittore ci
mette del suo, in ciò che scrive. Ci sono professionisti che hanno
un ottimo gusto nel mentire, e riescono a farti credere che ciò di
cui scrivono è sola finzione. Che la fantasia sia finzione. Ma no!
La fantasia è solo la realtà che passa attraverso Photoshop. Più o
meno evidente, c'è sempre un po' dello scrittore in ciò che scrive:
sia anche solo un ricordo, sia solo il riciclo di qualcosa che ha
letto, sia solo la capacità di mettere un aggettivo al posto giusto,
ed al momento giusto.
E poi ci sono quei libri che sono
evidenti biografie. Magari parlano d'altro, di tutt'altro. Parlano di
vite inventate, come quella del protagonista in Everyman.
Ma saresti sciocco nel non vederci dentro l'autore.
Philip
Roth è un genio della letteratura contemporanea, credo di averlo già
scritto più volte nelle mie modeste recensioni. Ma ormai è vecchio.
Lo sa, uno scrittore non si può mentire. Sa che questo suo
bellissimo viaggio presto finirà. Serve a poco augurarsi – oh,
quanto me lo auguro! - che quella fine arrivi più tardi ancora del
più tardi possibile. Arriverà. E chi ama la vita non può che
rimanerne sconvolto. Il senso dietro ad Everyman
è questo: l'immenso sconvolgente realismo di un uomo che assapora la
caducità della sua vita. Di tutte le vite.
Forse le pagine più belle del romanzo
sono quelle che vedono il protagonista, sempre alle prese con la sua
cartella clinica, trovarsi cinicamente ad odiare il fratello. Quel
fratello che aveva sempre amato; quel fratello che sempre gli era
stato accanto anche nei momenti difficili (come forse solo la figlia
Nancy era riuscita in meglio). Eppure d'improvviso si era trovato ad
essere logoro d'invidia, e sì: davvero ad odiarlo. Non per i
successi di Howie (eccone il nome), non per la sua ricchezza, non per
la sua fortuna di viaggiare il mondo. Nulla di tutto ciò: “odiava
Howie per quella dote biologica che avrebbe dovuto essere anche sua”.
Eccone, fantastica nella sua semplicità, la meravigliosa descrizione
della natura umana. Forse cinica. Forse spietata. Ma
straordinariamente realistica. Un uomo, che potrebbe essere qualsiasi
uomo (everyman), che si trova a lottare contro le malattie di un
corpo caduco. E che non riesce a resistere nel detestare chi, per
qualche mistero della natura, non ne sembra affetto.
Non è un libro facile, questo di Roth.
Bello, davvero bello, ma non facile. Perché ti porta a fare i conti
con la grande paura dell'uomo, quel precipizio dove dovrai lasciarti
andare prima o poi. Ecco perché, per la prima volta credo per Roth,
non ne consiglio a priori la lettura. Il mio discorso è paradossale,
perché ho adorato ogni pagina di questo libro. Ma non è stato
facile fare i conti con questa enorme verità, che è la nostra
caducità. Lo sappiamo, lo sappiamo tutti benissimo. Ma guardare
negli occhi la realtà, non è affatto facile.
Eppure è un insegnamento. Ecco allora
che ritorno alla premessa di questa mia recensione: forse davvero
Everyman è un libro in cui
ognuno di noi si può riflettere, e che può essere vissuto in
maniera differente in base al proprio carattere, o al momento in cui
ci si trova a leggerlo. Per un ragazzo può essere lo stimolo per
rendersi conto che nulla, mai, andrebbe sprecato. Per un ipocondriaco
– un po', lo ammetto, lo sono – può essere una lettura difficile, paurosa. Per un anziano, ahimè, la razionalizzazione dei suoi
sconforti e delle sue paure. Come è stato, ne sono certo, per lo scrittore.
PHILIP ROTH, Everyman, Torino: Einaudi, 2007 (ed. or © P.Roth 2006)
€10 (settembre 2011), 123 pagine.
sul sito Einaudi: http://www.einaudi.it/libro/scheda/(isbn)/978880618609/
domenica 17 luglio 2011
[REC] Philip Roth, Il Seno

Ma, per questo Il Seno, devo ammettere che il termine 'sconvolgente' calza a pennello. D'altronde di per sé 'sconvolgente' è una vox media: sconvolgente è un efferato omicidio, ma sconvolgente è anche la più grande passione d'Amore. E allora: in che senso Il Seno è sconvolgente? Non pretenderete che sia una recensione, per altro umile, a dirvelo?! A volte certe sensazioni si possono vivere soltanto leggendo un libro. È il bello della lettura. È lo sconvolgente della lettura.
Ho approfittato di un'edizione economica, allegata all'interessantissimo e consigliatissimo inserto domenicale di cultura de “Il Sole 24 ore”, per acquistare finalmente questo libro. Era nella mia lista delle “letture da affrontare, prima o poi” ormai da qualche anno, da quando almeno avevo letto Il professore di desiderio e L'animale morente, altri due libri di Roth diversi fra loro, ma con in comune il protagonista, David Kepesh. A formare una sorta di trilogia (ma particolarissima), anche ne Il Seno il protagonista è appunto Kepesh.
Se il mio lavoro fosse quello di scrivere recensioni, ora potrei pure perdermi in una lunga, e forse noiosa, parentesi sulle analogie fra i tre libri. Ne verrebbe fuori probabilmente un ritratto un po' particolare del concetto di 'trilogia'. Perché, in effetti, a quanto ricordo i libri sono dei monoliti che hanno in comune soltanto un nome. Ma probabilmente sto sbagliando, l'ho scritto che non sono un recensore di professione. Non ho ripreso in mano i libri che ho già letto, ho qui davanti solo Il Seno, che fra l'altro dei tre è quello scritto prima, anche se io l'ho letto per ultimo.
Suvvia. Poche palle: penso che dei richiami reciproci fra i tre libri siano stati effettivamente pensati dall'autore (a pagina 40 della mia edizione de Il Seno si accenna di una passata avventura del protagonista con due donne in contemporanea, con finale fra il patetico ed il drammatico per una delle due; non è forse una vicenda poi approfondita nella prima parte de Il professore di desiderio? non credo di sbagliare), ma i tre libri hanno il loro centro in eventi del tutto slegati fra loro. L'animale morente, ad esempio, si inserisce perfettamente nell'ultima produzione di Roth, in cui l'autore riflette sulla vecchiaia e su quanto sia volubile la vita. E Il Seno? Beh, la sua trama è del tutto particolare. Forse è il caso di accennarla.
David Kepesh è uno stimato docente universitario di Letteratura. Fra i suoi difetti vi è l'ipocondria, è vero, ma non è il caso di drammatizzare, visto che ogni sua paura si è sempre rilevata infondata. Almeno fino a quel giorno in cui uno strano colore della pelle, lì al di sotto del pene, gli fa pensare ad un cancro. Lo fosse stato! Almeno la diagnosi, per quanto drammatica, sarebbe stata 'normale'. Ed invece, questo, per il povero Kepesh, è solo il primo stadio di una metamorfosi, che lo trasformerà, in una notte, in una gigantesca mammella di donna.
Metamorfosi, e la mente corre a Kafka. Anche lui uno scrittore ebreo, come Roth. Sicuramente di Roth è stato, attraverso i suoi libri, grande maestro. Lo sappiamo, se non sbaglio, proprio da Il professore di desiderio, dove ad un certo punto Kepesh si rifugia a Praga; l'occasione è colta al balzo da Roth, che ci regala alcune bellissime pagine critiche su Kafka (dovrei rileggerle!). E di Kafka Roth parla anche nelle Chiacchiere di Bottega, un libro in cui intervista altri colleghi scrittori, ed in cui il richiamo al Maestro è spesso presente. E non può evitare, nello stesso Il Seno, in una sorta di colpo da metateatro, di inserire il nome di Kafka. Quando il protagonista si convince d'esser diventato pazzo, credo di esserlo perché sin troppo suggestionato dalla lettura del classico kafkiano e de Il naso di Gogol'.
Ma se la rilettura, ironica, delle Metamorfosi è stato probabilmente l'input – me lo immagino!, Roth sulla poltrona di casa sua, a parlare con un vecchio studente delle Metamorfosi. «Ve lo vedete voi, il protagonista non più trasformato in scarafaggio, ma in una grossa tetta? ahah che ridere! Oh però, coff coff, l'idea è buona!» -, i temi trattati sono quelli cari già ad altra della produzione dello scrittore americano. L'ossessione per il sesso, ovviamente, la ricerca per il piacere che rifugge dai dogmi, e si tuffa in nuove perversioni. Ecco, la stessa ontologia mammellica, il divenire Seno, è di per sé una perversione. L'indagine originale e, ancora, sconvolgente di cos'è l'essere tetta! Questa meravigliosa misteriosità che è il seno femminile, tripudio estetico ed estatico si potrebbe dire, ma ancor più miracolo della natura: miracolo come è miracolosa la capacità umana di provare piacere, attraverso quel sentiero anatomico e sensoriale che si accende in climax fisici. Sensazioni che dell'uomo sono parte, ma che rifuggono dalla sua capacità di un totale discernimento. In questa selva di bellezza e mistero, Roth prova ad avventurarsi attraverso l'arma duplice di ironia e paradosso, sfonda i confini dell'immaginazione tentando di rendere verosimile persino una siffatta metamorfosi! Così l'uomo diviene Seno, ma rimane uomo, con le sue debolezze di fronte alla carne, alle prese con una realtà che va al di là della sua concezione. E le reazioni sono poi facili da immaginare; quando Kepesh supera il mero istinto, selvaggia ricerca del piacere, ecco che arrivano quelle che definisce come crisi. Prima un professore che, vedendolo, non riesce a trattenersi dal ridere; poi la sua incredulità, a cui risponde con l'improvvisa illusione di star vivendo solo un sogno. O una forma di follia, ispirata, come detto, da una sorta di suggestione data da quei maestri del parossismo che sono Kafka e Gogol'.
Ciò che è straordinario in Roth è proprio questo, il continuo giocare, il filo che scorre fra l'assurdo ed il verosimile, straordinaria indagine dell'istinto e del pensiero umano, psicologia dell'impossibile che diviene verosimile. Ecco la straordinarietà di Roth. Valicare i confini del paradosso, e riuscire a dare comunque un brivido al lettore, quando sfoglia l'ultima pagina.
Philip Roth, Il seno, Torino: Einaudi, 2005
pubblicato per la prima volta in Italia nel 1973 con il titolo La mammella
Edizione recensita: I libri del Sole 24 Ore, edizione speciale, 2011
su ibs:
mercoledì 29 dicembre 2010
1488

Esistono, e si ritrovano anche in internet, degli elenchi di libri che si dovrebbero leggere prima di morire. E’ un elenco sempre arbitrario, ma che porta anche molti lettori fecondi ad una serie di questo-non-l’ho-letto, che atterrisce un poco.
Mi son messo a fare un calcolo. Mettiamo per ipotesi che si riescano a leggere due libri per intero, nel corso di un mese (mi sembra comunque già una buona media, se si considerano i soli libri letti per diletto, e non per studio), si avranno poi ventiquattro libri letti in un anno. Ipotizziamo pure che un lettore inizi a leggere a quindici anni (molti, per fortuna, iniziano anche molto prima, ma i quindici anni mi sembrano comunque la giusta età per acquisire coscienza del piacere della lettura), e che per limiti d’età legga fino ad ottant’anni (ancora: per fortuna molti riescono a leggere anche oltre). Si avranno quindi sessantadue anni da lettore, che - moltiplicato per ventiquattro libri letti all’anno - significano 1488 libri letti nel corso di una vita. Senza considerare i periodi in cui non si riesce a leggere, le malattie, le sventure, i pensieri che corrono verso tutto ciò che non è il libro dimenticato sul comodino.

Perdonatemi allora se prenderei a calci l’editore che pubblica il libro-brutto-che-però-si-vende, ma so che non c’è tempo.. abbiamo solo un migliaio di libri ancora da leggere, forse dovremmo sceglierli bene.
martedì 14 dicembre 2010
Gli ebook possono cambiare il popolo? #2
Susanna, nella sua pragmaticità, mi ha suggerito che un lettore rimarrà un non-lettore, sia col supporto cartaceo, sia con l'ebook. Chiaro, il mio blog precedente (questo) era giocato su un filo di utopia ed idealismo. Resto comunque dell'opinione che l'ebook dovrebbe essere meno demonizzato. Ma posso sempre cambiare idea, la discussione l'ho aperta appositamente. Aspetto, ahimè credo inutilmente, altri commenti.
Gli ebook possono cambiare il popolo?
Discutendo, per quanto possibile in 140 caratteri, sull'ebook in twitter, ho ricevuto una bella risposta di Giovanni Maria Vencato. "I libri sono come l'eroina, leggi perchè per un po' stai meglio". Ci ho riflettuto, e penso che sia proprio una bella definizione.
Aggiunge "non metterei l'accento sull'aspetto etico della lettura". Il motivo è l'interrogativo che io gli ponevo: "se l'alternativa all'ebook è il nulla,allora forse val la pena di accettarli?in modo che si diffonda un po'di coscienza..o no?". Ecco appunto l'aspetto etico della lettura, quale veicolo principale, io credo, della diffusione di una coscienza civile (prima ancora che intellettuale). Sull'aspetto ho già riflettuto su questo stesso blog (qui): l'ebook può essere un compromesso per difendere e diffondere il piacere della lettura; quasi fosse il veicolo di quella che Vencato definisce "eroina"?
Si legge per piacere, sono d'accordo, ma non c'è anche un aspetto subliminale nella lettura? Chi legge non impara sempre qualcosa, anche senza accorgersene? Dipende da ciò che si legge, sia chiaro. Nel mercato della narrativa non tutto ciò che si vende è pedagogico, e forse ha proprio ragione Vencato nel porre l'accento sull'aspetto più ludico e di disimpegno ("per stare meglio") della lettura. Ma forse illusoriamente io ritengo che un popolo di lettori, sia sempre un popolo illuminato. E siccome il demos ha ancora un certo - seppur relativo - potere, allora un popolo colto e cosciente dovrebbe essere davvero l'auspicio comune. E può la diffusione della lettura creare questo popolo colto, contro quell'anticultura, rappresentata forse dal mezzo televisivo? E' pur sempre utopia, ma se così non fosse, io continuo a ritenere che l'innovazione tecnologica dell'ebook potrebbe portare altre menti ad entrare in contatto con il piacere della cultura, ed i suoi effetti benevoli.
I Lettori, quelli veri, continueranno a preferire il profumo della carta, il calore delle librerie, il vanto di scaffali pieni di volumi e polvere. Ma forse non dovrebbero vedere gli ebook come i nemici assoluti, più gravi persino dell'ignoranza e dell'ostracismo al libero pensiero.
I Lettori, quelli veri, continueranno a preferire il profumo della carta, il calore delle librerie, il vanto di scaffali pieni di volumi e polvere. Ma forse non dovrebbero vedere gli ebook come i nemici assoluti, più gravi persino dell'ignoranza e dell'ostracismo al libero pensiero.
giovedì 9 settembre 2010
[REC] Stephen King, L'acchiappasogni
Quando ci si abitua a certi standard qualitativi, è difficile poi prendere con serenità un passo falso.
In appendice al libro che sto recensendo, L'Acchiappasogni (2010, Sperling&Kupfer, ed. or. 2001), è riportata una citazione dello stesso King, che in parte avvalla questa mia premessa: "A me interessa aggredire le emozioni dei lettori, scipparle. Non credo che i libri debbano essere una questione intellettuale. Il mio lavoro è quello di farvi bruciare la cena mentre leggete. Se poi spegnete la luce e avete paura che ci sia qualcosa sotto il letto, bene." Ecco, nelle sue parole ben si spiega ciò che intendo. E' un discorso che non mi sento di condividere in pieno - i libri, o almeno alcuni libri, sono esattamente una questione intellettuale! -, ma che esprime con precisione lo stile di King. E della maggior parte degli autori di narrativa.
Ed allora dove stanno quegli standard qualitativi, di cui parlavo in apertura? Se non nell'estetica della scrittura - beh, piccola precisazione: King sa scrivere, ed anche molto bene… ma non è né un Oscar Wilde, né un Saramago; e nemmeno vorrebbe esserlo -, sicuramente nella capacità d'inventare. Non nella cornice, ma nella sostanza. Non è uno scrittore barocco, il suo talento lo si trova nella straordinaria capacità d'evocare storie, incubi ed emozioni. Si leggano It (1986) e Misery (1987), probabilmente i suoi due capolavori del filone orrorifico, per comprendere appieno quale sia il dono che lo ha reso così celebre.
Sorprende quindi che L'Acchiappasogni abbia un intreccio meno riuscito, quasi un gioco sarcastico di citazionismo, in cui si riprendono canoni propri di certa fantascienza, e li si fa propri in un contesto originale e non sempre efficace. Così la possessione aliena avviene attraverso l'incorporamento di esseri mostruosi, definiti dai protagonisti come "donnole di merda" (sic!), che si palesano attraverso le nauseabonde scoregge (di nuovo sic!) degli sfortunati impossessati. Di tutti, sia chiaro, tranne uno dei protagonisti, Jonesy, che la presenza aliena - definita Mr. Gray, ed è ancora una citazione - riesce solo a controllare a livello intellettuale, provocando allucinazioni e deliri. Fintantoché lo stesso Jonesy rimane seduto in una sorta d'ufficio nel suo cervello, il controllo alieno avviene anche sul fisico di Jonesy (che è così costretto a macchiarsi di svariati omicidi). Ma mentre Mr. Gray inizia la sua umanizzazione scoprendo il fantastico mondo del bacon (ancora sic!), con l'aiuto di Duddits - un ritardato, conosciuto nell'infanzia, ma che ha straordinari poteri telepatici - Jonesy riesce infine a ribellarsi, in uno scontro finale che avviene in un'immaginifica situazione allucinatoria. A condire il tutto, ci si mette anche Kurtz, un pazzo che misteriosamente è a capo dell'operazione militare contro gli alieni, e che decide di ordire una disinfestazione di massa, uccidendo tutto ciò che è entrato in contatto con le presenze extraterrestri (e con un virus, che gli umani chiamano Ripley - citazione da Alien -, e gli invasori chiamano - che originalità! - byrus), compresi animali, civili e soldati. La situazione evolve insomma in una sorta di lungo inseguimento, con alla testa Jonesy controllato da Mr.Gray (che vuole raggiungere una torre dell'acqua, per diffondere attraverso essa il virus), alle spalle Henry (amico di Jonesy, con cui è anche in contatto telepaticamente), Duddits, ed Owen (un soldato che si è ribellato a Kurtz). Da ultimi, lo stesso Kurtz, che si vuole vendicare di Owen.
Il riassunto rende l'idea di quale sia la storia dietro le pagine del libro. E' un po' ingiusto, perché forse ridicolizza una narrazione che è in alcuni tratti costruita magistralmente (soprattutto quando si parla dell'amicizia fra i protagonisti, un tema che King tratta spesso, e sempre con competenza). Ma la trama non è mia invenzione, ed anche mentre si legge ci si rende conto che talvolta si esce un po' dal seminato. Spiace dirlo, da assoluto fan di Stephen King da tempo immemore, ma forse in questo libro si è verificato ciò che Seth MacFarlene aveva stigmatizzato con la solita irriverenza in un episodio della sua Family Guy (in italiano, I Griffin: vedi lo spezzone cliccando qui ). Al sottoscritto il libro è comunque piaciuto, e sicuramente soddisferà molti dei fan dello scrittore americano. Ma non mi sentirei di consigliare questa lettura a chi si vuole avvicinare a King, non avendo mai letto nulla prima.
Stephen King, L'acchiappasogni, Milano: Sperling&Kupfer SuperBestSeller, 2010 (ed. or. Sperling&Kupfer, 2001, da Id., The Dreamcatcher, 2001)
in vendita a 11.90 € (a settembre 2010)
domenica 5 settembre 2010
La crisi dell'Editoria (quella con la E)
"L’editoria, non solo quella italiana ma mondiale, si indirizza a un non lettore. Gira e rigira, è la demagogia del cliente, è l’acchiappare gli sfigati e le sfigate che nel libro cercano il passatempo, la consolazione, la cabala rivelata dell’amore, del sogno nel cassetto ovvero dell’assassinio di una vita, il chip misticheggiante per far ripartire alla meglio la loro arrugginita macchina ghiandolare."
Aldo Busi
(M. Cavalli, Aldo Busi: "Io e il caso Mondadori", Oggi 36, pp. 28-32) //
intervista completa disponibile online: qui
intervista completa disponibile online: qui
venerdì 18 giugno 2010
Addio a Josè Saramago
dalla Fondaçao José Saramago:
dal sito dell'Einaudi:

"C'è chi passa tutta la vita a leggere senza mai riuscire ad andare al di là della lettura, restano appiccicati alla pagina, non percepiscono che le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lí solo per farci arrivare all'altra sponda, quella che conta è l'altra sponda." Josè Saramago, La caverna, Torino: Einaudi, 2000

"C'è chi passa tutta la vita a leggere senza mai riuscire ad andare al di là della lettura, restano appiccicati alla pagina, non percepiscono che le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lí solo per farci arrivare all'altra sponda, quella che conta è l'altra sponda." Josè Saramago, La caverna, Torino: Einaudi, 2000
José Saramago se ne è andato. Resta la sua arte, i suoi libri, uno dei quali - per puro caso - ho recentemente recensito. Quando se ne va un uomo che tanto ha donato all'umanità, si sente come un vuoto. Il vuoto di tutto ciò che ancora ci avrebbe potuto dare, la mancanza di quelle parole che avrebbe, solo lui, saputo trovare. Beh - lo si capisce dall'ironia dei suoi libri - lui avrebbe scherzato anche sulla sua partenza. Lo avrebbe fatto con la sua superlativa intelligenza.
Grazie José, continueremo a leggerti.
Scrittore portoghese, Josè Saramago era nato il 16 novembre 1922. Aveva vinto il premio Nobel nel 1998. Fra i suoi capolavori, Cecità del 1995.
Etichette:
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Saramago José
martedì 15 giugno 2010
[REC] José Saramago, Le intermittenze della morte

Ci sono alcuni libri che quando finiscono ti lasciano una strana forma d’estasi. Una volta voltata la fatidica ultima pagina, ti senti sospeso fra il mondo rinchiuso in quelle righe, ed uscirne e ritrovarti a faccia a faccia con la realtà ti lascia un po’ a disagio. Come in una forma di subitanea nostalgia che si mescola con il senso di meraviglia, senti che qualunque parola potresti dire a commento sarebbe fuori luogo, così inutile per aggiungere qualcosa alla perfezione di ciò che hai appena letto. E’ una variante della sindrome di Stendhal, il vero motivo per cui il finale di un libro è così importante. Quante sono invece le delusioni di romanzi ben scritti, ma che si chiudono in maniera banale o scontata; a volte sembra che l’autore, che così tanto si è prodigato nello strutturare il suo genio narrativo, sia arrivato alla fine esausto, e voglia solo mettere l’ultimo punto come un lavoratore allo scoccare della sera. Alle volte noi lettori ci arrabbiamo, ci sentiamo presi in giro perché veniamo salutati così male, le nostre aspettative così disilluse (o perfettamente rispettate, in una fiera dell’ovvietà), ci troviamo a giudicare un buon libro così negativamente solo per quelle ultime righe. Forse è per questo che alcuni scrittori hanno dichiarato d’iniziare la stesura dei loro romanzi proprio dal finale, quasi che volessero attingere dal fuoco delle muse quando è ancora un incendio, e lasciare così traccia indelebile su carta dell’ispirazione, proprio nel momento in cui il lettore è più esigente.
Non so come Saramago, così fortunato nell’aver trasformato il suo fantastico talento in un lavoro, si approcci a quest’ultimo. Certo è che questo “Le intermittenze della morte” riesce a lasciare quel senso di meraviglia di cui parlavo sopra.
Sia chiaro: tutto il libro è ispirato; fantastica l’idea paradossale di fondo d’un paese ove la Morte ha deciso di pensionare il suo operato, intelligente - nello stile di Saramago - la forma di scrittura, con la capacità pungente di sfumare il paradossale verso l’ironia sociale. Straordinaria anche la capacità di mutare il senso del romanzo, conducendo il lettore verso una nuova imprevista prospettiva, che porta al finale. Quel finale, quel colpo di maestro, che solo uno dei più grandi scrittori contemporanei poteva scrivere.
in vendita a 11€ (aprile 2010, edizione super ET)
su ibs: http://www.ibs.it/code/9788806184872/saramago-jos-eacute/intermittenze-della-morte.html
giovedì 4 marzo 2010
[REC] Philip Roth, Il lamento di Portnoy
Solitamente scrivo una recensione di un libro che ho appena concluso senza leggere le opinioni altrui, sia perché non ne voglio essere influenzato, sia perché potrebbe demoralizzarmi il vedere che tutto ciò che potrei scrivere è in realtà già stato scritto.
Per Il lamento di Portnoy (2000, Einaudi, ed. or. 1967) di Philip Roth ho fatto una piccola eccezione: sono corso su anobii, leggendo alcune delle recensioni negative (per fortuna erano la minoranza), per il semplice motivo che non riuscivo a credere che ci fosse qualcuno che possa non amare questo libro. Perché?, mi son chiesto. La risposta era semplice, e sono stato stupido a non pensarci prima: perché è volgare. Oh certo, un romanzo che ha come file rouge la sessualità del suo protagonista, che tratta di temi scabrosi come l'onanismo o la fellatio – ed in termini ben più espliciti di questi -, non poteva che essere definito così. Il pubblico di benpensanti, moralizzatori e moralizzati, non poteva che trovarsi schifato dalla mancanza di censure del buon Roth, e cascare fra le ortiche di quel pensiero che tanto ancora ossessiona la società: cos'è giusto? Cos'è sbagliato? Il secondo capitolo di questo libro s'intitola seghe, e questo è sbagliato, no?
Bene, precisiamolo subito. Se state leggendo queste righe non per caso, ma perché avete visto in libreria questo titolo, e ne siete stati in qualche modo incuriositi (magari solo per la copertina, con quei manichini tutti uguali...), ma prima di spendere 10.50€ preferite cercare qualche consiglio (ed ecco che siete capitati qui!)... voglio essere chiaro! Se per voi parlare di sesso e affini è come compiere un'eresia, Il lamento di Portnoy, così come tutta la narrativa di Roth, non fa per voi. Scandalizzarsi è un diritto sacrosante di ogni persona umana. A volte è difficile da comprendere – come, consentitemi, in questo caso –; ma rimane un diritto.
Curioso però che il punto centrale del libro è proprio questo: la costante lotta fra la morale, quella che il protagonista Alexander Portnoy impara a forza dai genitori, ed ildesiderio, che si muove ossessivamente fra l'istinto e la ricercatezza di una ribellione. Il tema era certamente attuale alla vigilia del '68, quando il libro è stato scritto, ma come si evince curiosamente anche dalla premessa alla mia recensione una certa attualità rimane ancora. Non occorre essere ebrei, e lottare contro le istanze più reazionarie della religione (come si trova a fare Alex), il pregio del lamento di Portnoy è che il suo è il lamento di molti uomini (ed anche del sottoscritto, sia chiaro), la lotta sconvolgente fra la moralità, la tradizione, e la voglia di qualcosa di diverso. Poco importa se il protagonista cerca il diverso tuffandosi nella masturbazione, nei ménage à trois, nel sesso esclusivamente con non ebree (shikse, in yddish). Il romanzo prettamente erotico è il contorno - spesso anche indubbiamente divertente o persino comico -, di un monologo intelligentissimo (caratteristica essenziale della narrativa di Roth, anche i suoi detrattori glielo dovrebbero riconoscere).
Insomma, Il lamento di Portnoy e' un libro che fa ridere, commuove, ma soprattutto coinvolge e fa pensare. Oh certo, può anche scandalizzare; ma forse in quel caso il lettore dovrebbe interrogarsi sul motivo di tutto questo scandalo.Cos'è giusto? Cos'è sbagliato?
Philip Roth, Il lamento di Portnoy, Torino: Einaudi, 2000 (da Id., Portnoy's Complaint, 1967)
in vendita a 10,50 € (a febbraio 2010)
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sabato 27 febbraio 2010
[REC] Paola Barbato, Il filo rosso
Il vero guaio di uno scrittore è che non sa mai a chi verrà accostato al momento della sua lettura. E' esattamente ciò che avviene, soprattutto in Italia, anche per i musicisti.
Intendo questo su due piani: il primo quello della critica. Non può esistere uno scrittore, o quanto meno non un nuovo scrittore, che non venga associato ad un altro nome (spesso preso a caso fra coloro che possono vantare la scritta BEST SELLER su un loro volume). Legge del marketing, e dell'editoria che non vive solo di bei libri, ma anche e soprattutto di vendite. E' la regola del gioco che sa benissimo chi scrive, e ci si potrebbe persino divertire a trovare le strane associazioni – per altro molte volte contrastanti – che identificano uno stesso autore. Perché non esiste scrittore che non possa essere associato ad un altro, mai.
Ma un secondo piano, ancor più inevitabile, è quello della sequenza di letture che fa chi il libro lo ha già comprato. Qualsiasi libro ci parrà un capolavoro, se lo leggiamo dopo aver riposto sullo scaffale Scusa ma ti chiamo amore di Moccia (libro che per altro non ho mai letto, ma credo di aver comunque azzeccato l'esempio). Credo che parte delle recensioni contrastanti - che si trovano su anobii, su ibs, ma anche sulle riviste specializzate - variano appunto per questa inconscia incapacità di astrarre un libro e prenderlo come assoluto: il non poter giudicare senza confrontare, più o meno volutamente. Ed ecco la sfiga della Barbato e de Il filo rosso (2010, Rizzoli).
Il libro l'ho preso nel giorno stesso in cui è uscito, sia perché stimo il lavoro alle sceneggiature di Dylan Dog della sua autrice, sia perché avevo letto volentieri il precedente Mani Nude (2008, Rizzoli). La Barbato era poi stata abile nel ruolo di Mastrota (oh no, ecco una nuova spontanea associazione!), suscitandomi una certa curiosità, dando vita ad un blog che dispensava saggiamente spunti ed anticipazioni sul libro in questione. Ma – ecco la sfiga! - l'effettiva lettura de Il filo rosso l'ho affrontata dopo aver riposto sullo scaffale The Dome di Stephen King (2009, Sperling&Kupfer) e prima di comprare Il lamento di Portnoy di Philip Roth (2000, Einaudi [or. 1967]), che ancora sto leggendo. La Barbato se l'è quindi dovuta vedere con un maestro della narrazione ed uno della scrittura; come se il San Marino si qualificasse ai Mondiali e trovasse il Brasile sulla sua strada, come se Pupo gareggiasse contro Jimi Hendrix, come se il Bangladesh venisse invaso dagli Stati Uniti. Beh, a queste condizioni, era ovvio che alcune delle pagine de Il filo rosso mi sembrassero un po' più difficili da digerire.
Ma se mi sforzo di dimenticare i miei amati King e Roth, se prendo Il filo rosso per quello che, credo, vuole essere: “un buon libro, con una trama avvincente, che però non rimane fine a sé stessa, ma lascia intravedere un significato più profondo”.. beh, bingo, quello della Barbato è un lavoro che merita di troneggiare nella mia libreria. Il pregio è la storia (“hai detto poco!”). In una prosa quasi registica, i colpi di scena vengono distribuiti sapientemente, costringendo il lettore a rimanere legato alle pagine, superando anche i tratti in cui il libro sembra meno ispirato.
Il San Marino non vincerà mai contro il Brasile, ma può giocare una buona partita. Il filo rosso merita una chance, e se lo affronterete senza troppe pretese, ne sarete anche piacevolmente colpiti.
PAOLA BARBATO, Il filo rosso, Milano: Rizzoli, 2010
in vendita a 19€ (febbraio 2010)
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mercoledì 14 ottobre 2009
Leggere: altra forma di sessualità umana
Talvolta dandomi in pasto alla retorica (cosa che faccio spesso, soprattutto quando scrivo!, e c'è chi mi critica per questo), riconosco che esistono dei libri che cambiano la vita di chi li legge. Credo sinceramente che qualsiasi essere avulso alla lettura, e di conseguenza al pensiero, perda la possibilità di scoprire una parte migliore di sé. Non nego che esista un altro tipo di cultura - la cosiddetta cultura di vita - di cui un illetterato è spesso più colto di un accademico. Ma l'Arte (intesa in ogni sua essenza: anche quella figurativa, ma non solo) è la sola strada per un certo tipo di piacevole intelligenza. Si tratta di un sapere che può sì sfociare nell'erudizione, ma che trova la sua prima linfa nell'istinto umano di ricerca del piacere. Leggere Oscar Wilde è un qualcosa di diverso dall'avere un orgasmo, ma qualcosa anche di maledettamente simile.
L'uomo legge per conoscere, aumentare la propria capacità di raziocinio e la propria cultura, così come l'uomo si dà al sesso per salvare la propria specie! L'obbiettivo finale, che è tutto per i teorici o gli studiosi del mondo, è un pensiero in realtà nemmeno sfiorato nella praticità. Verrà il giorno in cui ognuno di noi si darà al letto solo per far nascere vita dal seme, ma prima di quel momento c'è sempre quello - se non si è puritani o maledettamente teofili - in cui si insegue solo il piacere. Il piacere, e talvolta (in alcuni spesso) il piacere unito all'amore (o anche l'amore è un'altra forma del piacere? argomento interessante, ma non posso svilupparlo ora).
Ecco: credo che nella lettura non vi sia nulla di dissimile. Si può consacrare la vita ad essa, solo se ci si dedica innanzitutto per proprio gusto, per proprio desiderio, perché se ne ha bisogno. Finché si crede che si debba leggere per dovere - o fare l'amore per necessità riproduttive - allora si perde veramente il gusto per l'atto. Se invece ci si abbandona pienamente alla ricerca del piacere, ed al piacere che inevitabilmente deriva (non credo a chi sostiene il contrario), i sensi - ancor prima dell'intelligenza - ne riescono appagati.
Ed ecco il motivo per cui credo che certi libri cambino la vita. Sì, leggere Edgar Lee Masters è come farsi fare un pompino dall'anima gemella (sarebbe piaciuta l'immagine a Fernanda Pivano?): un'esperienza criticabile solo da chi non l'ha mai provata. C'è una piccola linea che corre fra l'immensità di un libro, l'immensità dell'esperienza sessuale, l'immensità dell'amore: questa linea è il Desiderio dell'istinto umano, che è come un'autostrada di nervi che danno vita all'uomo. E solo la soddisfazione del piacere può poi portare al reale appagamento.
PS: se c'è qualcuno che mai leggerà queste parole, in commento può - oltre alle sue osservazioni - appuntare qualche titolo di libri che gli hanno cambiato la vita. Che bello sarebbe ricavarne dei consigli! Per conto mio, due titoli li ho già sottointesi: sono l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Einaudi) ed Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (varie edizioni).
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martedì 6 ottobre 2009
Il potere del sesso
"Essere casti, vivere senza sesso, be', come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi? Questo aiuta, ma è niente rispetto all'altra cosa. Perché l'altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticarla mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?"
Philip Roth, L'animale morente, Torino: Einaudi, 2002
(traduzione di V. Mantovani, da The Dying Animal, 2001), p. 52
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martedì 8 settembre 2009
Arriva Kindle: il futuro della lettura?

Arriva Kindle: è il futuro della lettura?
Duttilità, praticità e salvezza editoriale, o empietà culturale omicida della poesia?
Duttilità, praticità e salvezza editoriale, o empietà culturale omicida della poesia?
Arriverà in Europa nel 2010 il Kindle, strumento nato dalla mente degli americani di Amazon. Si tratta di un sistema digitale che permette la lettura di libri, naturalmente anch’essi digitalizzati, nonché di quotidiani, blog, e quant’altro. La piattaforma è elegante, l’uso intuitivo. Il Corriere della Sera è il primo quotidiano italiano che si può leggere, per ora in America, anche su Kindle. Attraverso un abbonamento (9.99$ al mese), il reader riceve automaticamente ogni notte l’edizione del quotidiano, che può essere così consultata la mattina al risveglio. Anche l’acquisto di libri, attraverso Amazon, può essere fatto senza l’utilizzo di un computer e con il solo Kindle. In meno di sessanta secondi si possono ricevere dei titoli direttamente sulla piattaforma. Ulteriori informazioni si possono ricavare attaverso numerosi video dimostrativi in youtube.
Chi ritiene che un sistema che è rimasto sostanzialmente coerente negli ultimi secoli non possa essere modificato, intendo quello della lettura, dimentica forse che anche l’invenzione della stampa in epoca moderna ha portato ad un radicale cambiamento nell’uso e nel rapporto con il libro. O ancora, per rientrare nella contemporaneità, di come i supporti per la musica (altra forma di cultura) si siano radicalmente modificati negli ultimi anni: dal vinile alla musicassetta, dal cd all’mp3. Chi tuona contro gli ebooks avrà i suoi buoni motivi per farlo, ma dire che il kindle rimarrà fantascienza credo sia altrettanto sbagliato.
Non tutte le invenzioni hanno avuto successo, bisogna ammetterlo. Nel 1992 la Sony lanciò il Mini Disc, un supporto che nell’ottica dell’azienda avrebbe dovuto sostituire nell’uso il cd. Rimane un’alternativa poco usata, se non del tutto soppiantata dai lettori mp3, o dalla tenacia resistenza dei cd e di qualche vinile. Un’invenzione che sulla carta avrebbe potuto attecchire (la grande novità stava nella possibilità di riutilizzazione di uno stesso supporto per masterizzazioni virtualmente infinite), ma che nell’effettivo non ha riscontrato un successo di pubblico.
Torniamo al Kindle, e al libro soprattutto. La prima obbiezione, la più istintiva per qualsiasi lettore, è che l’avvento di questo mezzo comporterà un abbandono della poesia della letture. L’odore della carta, il rumore delle pagine che si sfogliano, il maniacale vizio di poter esporre con vanto una libreria; ma anche il poter vagare in una libreria o biblioteca: tutti vizi del lettore che il Kindle pretende, di punto in bianco, di spazzare via, in un tornado di pixel. Mi si perdoni ancora il paragone musicale: mi torna in mente il gracchiare di un vinile, sostituito dalla freddezza dell’mp3. Ma, fra la maggior parte dei nostalgici (e fra questi mi si può annoverare) del classico ellepì, è davvero difficile trovare chi non si è arreso alla comodità degli mp3: la praticità che vince sulla poesia. Non sempre, ma in un largo numero di persone.
Il Kindle potrebbe essere, insomma, non un sostituto del libro (giammai!), ma un’alternativa. Uno strumento che trova i suoi pregi nell’economicità dell’acquisto dei titoli, nella velocità, nel minimo ingombro, nel mancato dispendio di carta (poveri alberi!). Senza contare che l'editoria in difficoltà potrebbe trarne un beneficio (Books Aren't Dead, they're just going digital, ha tuonato il 'Newsweek' tempo fa). Se poi, come l’i-phone, diverrà anche uno strumento alla moda, ben venga: chissà che Amazon non abbia trovato il modo per inculcare il piacere della lettura (ed un conseguente accrescimento culturale ed intellettivo) in chi, normalmente, ne è del tutto estraneo.
mercoledì 19 agosto 2009
Lutto nel mondo della cultura

MILANO - È morta all'età di 92 anni la scrittrice e giornalista Fernanda Pivano. A lei, nata a Genova nel 1917 ma trasferitasi presto a Torino con la famiglia, si deve la conoscenza in Italia dei grandi autori della letteratura americana. Da Edgar Lee Masters a Hemingway, dai poeti e gli scrittori della «beat generation» a Bob Dylan, i più grandi e rappresentativi autori della nuova America sono stati portati ai lettori italiani dalla sua capacità di interpretare, capire, raccontare e descrivere un mondo ancora sconosciuto al pubblico italiano. Di quasi tutti questi autori, Fernanda Pivano è diventata amica e confidente, riuscendo a trasferire nelle versioni italiane delle loro opere, lo spirito più vicino possibile a quello dell'originale. Scrittrice e anche giornalista, è stata a lungo collaboratrice del Corriere della Sera, cui ha regalato interventi e scritti di grande. Il suo ultimo testo scritto per il Corriere in occasione del suo 92 esimo compleanno, il 18 luglio scorso, era una nostalgica ma anche serena riflessione sulla vecchiaia con tanti ricordi degli scrittori conosciuti nella sua vita. La Pivano si è spenta martedì sera in una clinica privata di Milano, dove era ricoverata da tempo. I funerali si svolgeranno probabilmente venerdì prossimo, a Genova. «È stata una protagonista della cultura italiana» ha scritto il capo dello Stato Giorgio Napolitano in un messaggio di cordoglio alla famiglia.
http://video.corriere.it?v
MILANO - "I miei adorati scrittori americani mi accompagnavano durante la guerra facendomi coraggio con le loro storie". E lei, Fernanda Pivano, la compagna italiana degli scrittori americani, si è spenta in una clinica privata di Milano, un mese dopo il suo novantaduesimo compleanno.
Scrittrice, giornalista, traduttrice e critica, nasce a Genova il 18 luglio 1917. A ventiquattro anni - e in piena seconda guerra mondiale - si laurea in Lettere con una tesi in letteratura americana su Moby Dick. Il capolavoro di Melville è la chiave che le apre la porta sul mondo della grande letteratura made in Usa. Nel 1943, pubblica la prima parziale traduzione dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Il suo mentore è Cesare Pavese, già suo professore al liceo D'Azeglio di Torino e il primo di una serie di incontri fondamentali, tra cui quello con il marito, il grande architetto e designer Ettore Sottsass. L'incontro del 1948, a Cortina, è con Ernest Hemingway. Nasce un rapporto di amicizia e di lavoro. Nel 1949, Mondadori manda in stampa la traduzione di Addio alle armi. La Pivano sarà la maggiore curatrice delle opere dell'autore de Il vecchio e il mare.
Il primo viaggio negli Stati Uniti è del 1956. Al suo ritorno, porterà in Italia la poetica, le pagine di letteratura e di vita della beat generation. Di Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e poi William Burroughs. La prefazione a Sulla strada di un certo Jack Kerouac è sua. Negli anni successivi, traduce Allen Ginsberg, ma anche Bob Dylan. Il suo approccio alla letteratura non conosce steccati. Di Fabrizio De Andrè dirà, prima di altri, "è il più grande poeta italiano del Novecento".
Scrittrice, giornalista, traduttrice e critica, nasce a Genova il 18 luglio 1917. A ventiquattro anni - e in piena seconda guerra mondiale - si laurea in Lettere con una tesi in letteratura americana su Moby Dick. Il capolavoro di Melville è la chiave che le apre la porta sul mondo della grande letteratura made in Usa. Nel 1943, pubblica la prima parziale traduzione dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Il suo mentore è Cesare Pavese, già suo professore al liceo D'Azeglio di Torino e il primo di una serie di incontri fondamentali, tra cui quello con il marito, il grande architetto e designer Ettore Sottsass. L'incontro del 1948, a Cortina, è con Ernest Hemingway. Nasce un rapporto di amicizia e di lavoro. Nel 1949, Mondadori manda in stampa la traduzione di Addio alle armi. La Pivano sarà la maggiore curatrice delle opere dell'autore de Il vecchio e il mare.
Il primo viaggio negli Stati Uniti è del 1956. Al suo ritorno, porterà in Italia la poetica, le pagine di letteratura e di vita della beat generation. Di Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e poi William Burroughs. La prefazione a Sulla strada di un certo Jack Kerouac è sua. Negli anni successivi, traduce Allen Ginsberg, ma anche Bob Dylan. Il suo approccio alla letteratura non conosce steccati. Di Fabrizio De Andrè dirà, prima di altri, "è il più grande poeta italiano del Novecento".
Intanto, inizia a raccogliere i ricordi dei grandi che ha incontrato: Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Dorothy Parker, William Faulkner. Tutti protagonisti del suo libro I mostri degli anni Venti, del 1976. Seguono l'intervista a Charles Bukowski, Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle e una fondamentale biografia di Hemingway.
I suoi Diari (1917-1973), pubblicati da Bompiani, sono una messe di aneddoti ed episodi tratti da una vita straordinaria. Negli ultimi anni, la Pivano continua a promuovere e a riconoscere il talento dei nuovi narratori d'America: Bret Easton Ellis, Chuck Palahniuk, David Foster Wallace. Il suo amore per la musica la porta a partecipare al video di Luciano Ligabue,Almeno credo, e a partecipare alla realizzazione del disco di Morgan omaggio-remake a De Andrè, Non al denaro, non all'amore né al cielo.
I funerali si svolgeranno venerdì a Genova, nella basilica dell'Assunta in Carignano. La stessa dove si celebro, dieci anni fa, l'addio all'amico poeta De Andrè.
I suoi Diari (1917-1973), pubblicati da Bompiani, sono una messe di aneddoti ed episodi tratti da una vita straordinaria. Negli ultimi anni, la Pivano continua a promuovere e a riconoscere il talento dei nuovi narratori d'America: Bret Easton Ellis, Chuck Palahniuk, David Foster Wallace. Il suo amore per la musica la porta a partecipare al video di Luciano Ligabue,Almeno credo, e a partecipare alla realizzazione del disco di Morgan omaggio-remake a De Andrè, Non al denaro, non all'amore né al cielo.
I funerali si svolgeranno venerdì a Genova, nella basilica dell'Assunta in Carignano. La stessa dove si celebro, dieci anni fa, l'addio all'amico poeta De Andrè.
(18 agosto 2009)
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