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sabato 7 aprile 2012
Cadendo come pioggia
Nikky aveva riprovato con le strisce pedonali su per il naso, come quando, qualche anno fa, aveva pensato di uccidersi impiccandosi con una corda di chitarra. Allora si chiamava Jonathan, ne è passato di tempo. Ora di corde ne ha sei, quindi potrebbe tagliarsi la gola con ognuna di esse, ed ogni tanto sembra davvero la via più facile, soprattutto di notte, soprattutto quando nelle orecchie ha quel vuuuu che ricorda il mare di Ἀγκών. Pensava di avere un cervello nella testa, non si era mai accorto di averne uno anche nel petto, uno nel profondo dello stomaco, ed uno fra le gambe. Quello fra le gambe è il più facile da zittire, basta una mano. Per gli altri ci vuole molto di più. A volte basta un mare d'inchiostro, in cui affogare ogni pensiero con la fantasia. Il fuoco d'anice a volte serve, ma il whisky può anche peggiorare le cose. Ed allora si prova con la farina, sistemata su un tavolo marrone di una casa in zona industriale, al di là del torrente, ed il vuu diventa d'improvviso un bum. Bum bum bum bum bum. Il battito di un muscolo che passa nelle vene, irrora il cervello, si scontra sul timpano. È in quei momenti che Nikky può davvero tuffarsi nel vuoto, scoprire ogni fibra del suo tessuto, sentire le arterie che s'ingrossano, ed essere felice di non poter uccidere Mary. Anche col conforto di due occhi blu, a volte vicinissimi che li puoi sfiorare, a volte così lontani, con due occhi che non si vedono anche quando sono aperti, con le fantasie di una strada che odora d'asfalto anche con il cellulare acceso ma zitto. Anche con le carezze di una puttana coi capelli appena lavati, che gli sussurra «lasciati andare, e a te ci penserò io. Almeno questa notte». Quando la coca arriva al cervello, in quel momento in cui si supera il confine dell'intelligenza, e ci si sente pienamente vivi al di sopra di tutto, anche lì, Nikky capisce di non voler premere il grilletto, di non saper sparare. È in quei momenti che re-impara a sorridere. Ed inizia a cantare una vecchia canzone dei Decibel. Io ripeto anche a chi non chiede niente. Lei è uscita, tornerà immediatamente. Non è così, non sei più qui. Poi, di solito, Nikky si siede, si preme il pollice sulle vene del braccio per sentirle battere. E battono forte, così forte, e sussurrano sempre lo stesso nome. E l'immenso si chiama Mary, così bello quando lo hai affianco, l'immenso sembra diventare ancora più straordinario quando è lontano, e lo puoi solo immaginare, invidiare, volere.
L'altra notte Nikky si è svegliato sudato, con la testa che girava. Si è messo le scarpe tagliate, il chiodo, e scappando, coperto dal rumore di chi russava nella camera accanto, si è gettato nel nulla della notte. È andato sino al torrente con una bottiglia di Chardonnay. Un pescatore, con la barba che puzzava di sigaro, gli ha chiesto dove stesse scappando.
«Vado a parlare con l'Avisio, vecchio», gli ha risposto Nikky.
«È la prima volta, capellone?».
«Sì vecchio. Ho assaggiato quest'acqua da poco, ma non so se era il torrente ad essermi parso dolce, o chi mi era accanto, asciugando le mie lacrime.»
«Non c'è nulla più dolce di quest'acqua, ragazzo.»
«Ti sbagli vecchio, c'è Mary.»
«È lei che ti ha portato qui?»
«È lei, ma sono stato anch'io.»
«È sempre una lei che ti porta qui.»
«Anche tu, vecchio?»
«Anch'io». Ed il pescatore ha alzato gli occhi al cielo per nascondere il riflesso d'una lacrima.
«Non è più tornata, vero?»
«Per questo sono ancora qui. Tu cosa vuoi, capellone?»
«Cosa voglio?»
«Cosa chiederai al torrente?»
«Che Mary sia felice, è questo che m'importa».
«Sciocco! Attento a quello che vuoi, perché potrebbe diventare realtà.»
«Questa l'ho già sentita, vecchio. Anni fa, avevo una corda di chitarra, e tante illusioni.»
«Lei potrebbe essere felice senza di te.»
«Lo so, vecchio».
«È questo che vuoi?»
«Sì. No. Non lo so. Vorrei che fosse felice con me.»
«E tu sei in grado di renderla felice, ragazzo?»
«Un tempo forse sì. Ora non lo so più.»
«Sai cosa devi fare, capellone?»
«Vorrei saperlo.»
«Devi capire cosa vuoi. E se davvero la vuoi…»
«…la voglio!»
«…se davvero la vuoi, preparati a poterla rendere felice, se tornerà.»
«E se non tornerà?»
«Allora…»
«No, non lo voglio sapere!»
«È giusto, ragazzo. Combatti per quello in cui credi. Ed ora va, il torrente ti aspetta.»
Su queste rocce viene la tentazione di fumare. Per vedere come le nuvole di fumo possano intingersi nell'acqua, quasi a fare l'amore. Ma Nikky non ha mai fumato. È strano che non lo abbia mai fatto, è strano come gli sembri assurdo uccidersi con della cenere, ma non si preoccupi di mascherare la Sorella Nera di whisky, in un bicchiere senza ghiaccio. Quella notte però aveva solo del Chardonnay, una bottiglia intera in realtà, e a pensarci bene lo faceva sembrare molto più raffinato di quello che era davvero Non si sentiva più quel dandy che aveva finto di interpretare, in altri momenti, e con altri progetti. Ora si sentiva piuttosto truffato dai mercanti di sogni, con le guance sempre un po' troppo calde, e una nausea che lo spingeva quasi a vomitare. E mentre Nikky iniziò a bere, d'un fiato, il torrente iniziò a parlare.
«Ogni sorso di quel vino è uno strale conficcato nel tuo petto lì sulla sinistra, dove tu che hai un cuore lo senti pulsare fino alla gola».
«Lei non mi ha mai detto» urlò Nikky al torrente «che non sapevo bere».
«Perché ora hai lo sguardo di cera, e tramuti in lacrime ogni cazzo di pensiero che hai? In passato hai pianto per chi nemmeno ricordi più come si chiama. E non sai più nulla di loro, sono passate come un livido che si cancella con il tempo, lasciando una leggera cicatrice che si fa sentire sempre meno.»
«Forse sono tutte morte nel mio fottuto fiume di lacrime, annegate dalla loro mente paranoica, suicide del loro essere troie ben oltre le ossa, fin dentro la più recondita profondità delle viscere.»
«E Mary?»
«Lei è un'altra cosa. Continuo a sognare il suo collo fra le mie mani, quella pelle ch'io un tempo sfioravo di baci.»
«Vorresti quella carnagione così candida da sembrare latte divino sotto la presa forte delle tue dita, per togliere al mondo il peso del suo respiro sul tuo cuore così spezzato?»
«No, cazzo, non potrei vederla morire, vorrei baciarla ancora, accendere per sempre i suoi occhi coi miei, e sentirla ancora implorare il mio nome.»
«Patetico stronzo!»
«Non ho mai avuto la capacità di prendere tutto alla leggera. Anche se so scherzare.»
«Anche su questo?»
«Sì anche su questo!»
«Su, dai, scherza..»
«Non ho mai scherzato con un corso d'acqua…»
«C'è sempre un momento per iniziare.»
«E c'è sempre un momento perché le cose finiscano?»
«Sì c'è.»
«Ed è questo il momento?»
«Sono solo un torrente, io non lo posso sapere.»
«Perché la tua acqua continua a scorrere?»
«Perché evapora, e ritorna come pioggia».
«Mary tornerà?»
«Solo se si trasformerà in pioggia, e tu sarai ancora lì, pronto a mescolarti con lei.»
«Mi ha detto che è troppo tardi!»
«Quand'è troppo tardi perché l'acqua torni ad essere acqua, e perché l'Amore torni ad essere Amore?».
Quando tornò a casa quella notte, Nikky aveva la febbre alta. Si mise a letto, prese un foglio bianco, ed iniziò a scrivere. Tremando, per l'astinenza dello zucchero da naso, e l'astinenza non solo di quello. Iniziò a scrivere, aspettando che Mary lo venga a trovare sul greto, se mai tornerà, almeno per passeggiare insieme, e perché lui le possa presentare il vecchio pescatore. Le sue prime parole furono: «Nikky aveva riprovato con le strisce pedonali su per il naso».
(ogni riferimento a persona o a fatti realmente accaduti è puramente casuale)
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venerdì 14 ottobre 2011
Incollati al cielo (2009)
Forse lo avrete intuito, da questo mio blog, che mi piace scrivere. Lo faccio da quando sono piccolo, ed è sempre e solo lo sfogo di un bisogno. Provo un po' di vergogna quando qualcuno mi dice che sono bravo. Un po' per timidezza, un po' perché, davvero, non credo di essere così bravo. Forse è per questo che raramente ho condiviso qualcuno dei miei scritti. E col tempo molti li ho perduti.
Non credo sia un male. Penso anzi che molte cose che ho scritto meritassero di andare perdute. Però qualcosa è rimasto, nero su bianco. E mi sono reso conto che ho sempre avuto un difetto, che è poi il più grande difetto di quanti provino a scrivere, da dilettanti. Me lo ha fatto osservare la migliore critica di me stesso, colei che ascolto davvero, e che credo sia riuscita nell'impresa di migliorare anche il mio stile. Non credo di esser diventato bravo, non ancora. Ma almeno leggo più volentieri ciò che scrivo. Ogni tanto.
Ora ho deciso di provare a superare l'ostacolo del cassetto chiuso. Con questo mio blog, ho sempre voluto mettere in campo parte di me, render pubblico, per quanto virtuale, ciò che ho tenuto a lungo nascosto…ecco, allora, che ho deciso di ricopiare sul mio blog alcuni miei racconti del passato.
Con la precisazione di questa premessa. Li ricopierò così come sono, senza modificarli. E con tutti i difetti che hanno. Il difetto vero di cui parlavo è la retorica. L'essere prolissi, il voler per forza dimostrare di 'saper scrivere'. Il risultato è che il racconto si appesantisce, perde la sua vena narrativa, diventa quasi solo un esercizio di stile. Ogni tanto ci ricasco, forse puntualmente ci ricasco. Ma ora non scrivo più solo ed assolutamente così. Non scrivo solo per mettermi alla prova, inizio a pensare ad un ipotetico, per quanto sempre immaginato, lettore.
Ma questo mio blog vuole essere anche un occhio sul passato, e quindi va bene anche che io pubblichi qualcosa che non scriverei più. I commenti, se vorrete leggere e vorrete scrivere le vostre opinioni, mi saranno comunque davvero utili. Perché quel bisogno di scrivere..beh, non mi è mai venuto meno; anzi, forse è aumentato. E se riuscissi anche a scrivere bene, sarebbe una gran conquista.
*
Il primo racconto che pubblico è del 2008/2009. Scritto fra la fine del 2008 e del 2009, se la memoria non mi inganna. L'ho scelto per primo proprio perché è il riassunto di quanto scrivevo prima: magari, senza modestia, ha anche degli spunti interessanti.. ma sono mal sviluppati.. troppa retorica, troppo patetismo..
PS: oggi mi son svegliato alle 5, ed ho dormito 5 ore.. non escludo ci sia anche questo, nel motivo che mi ha spinto a scrivere queste cose.. puro delirio da mancanza di sonno..
PS: oggi mi son svegliato alle 5, ed ho dormito 5 ore.. non escludo ci sia anche questo, nel motivo che mi ha spinto a scrivere queste cose.. puro delirio da mancanza di sonno..
*
Incollati al cielo
V'è un sospeso senso di benessere nell'astronomia, nell'osservare il cielo e sospettare che le stelle riposino per il volere di qualcuno. Non so dirvi di chi, ben inteso, ma sono al loro posto, a nutrirsi del buio con la luce, perché è l'unica cosa che possono fare. Forse è per questo che odio l'estate: d'agosto talvolta vedo le stelle cadere, e non mi sembra possibile che anche loro si lascino andare. Alle stelle cadenti molti associano romanticismo, io penso alla vita, e come nulla vi sia di sicuro: nemmeno loro stanno incollate al cielo, lasciano di peso la natia casa quando sfumano nel vuoto, urlano un'ultima scia di speranza, ma si gettano infine nel buio.
Riposo l'anima fra i sussulti della mia terra, seduto al bordo d'un fiume. In mano stringo l'Antologia di Spoon River, ben chiusa, quasi a temere che i personaggi possano avvertire il freddo. Non del vento, ma del mio respiro, il tremare d'un uomo che ha paura. A volte vorrei correi, tuffarmi nel fiume, lasciando che la corrente mi trascini quasi fossi una stella cedente. L'ultima scia di luce d'uno sconfitto. Abbandonare così ogni emozione, imporre il silenzio alle grida del cervello, e nascondere le lacrime nel gelo dell'acqua fino al comparire del buio.
Ma poi arriva Alice, benedetta visione, il suo volto si dipinge nel greto dove si specchiano i miei occhi. Mi sembra di vedere i capelli dorati mescolarsi alla luna riflessa, la pelle bianca dove dormono le trote, persino i grilli mi ricordano la sua voce. Allora il senso di tutto mi diventa così chiaro, siamo nati per amare, e se siamo come stelle, è l'amore che ci lega al cielo delle nostre vite.
Alice è la mia figlia di sei anni, così fragile al mondo ma già così grande. A settembre andrà a scuola, si staccherà dal cuscino di seta che le abbiamo creato ed inizierà a scoprire com'è il mondo. Da bruco sarà farfalla, da fiocco diverrà neve, ancor prima che me ne accorga avrà un cuore spezzato. Sarà così bella la prima volta che piangerà. Da grande ad ogni passo sospireranno i salici e s'innamoreranno i cavalieri; ma nemmeno la sua purezza potrà sconfiggere le ingiustizie ed i peccati. Verrà il giorno in cui sederà su quest'erba ad inseguire l'eco degli stessi miei pensieri; mi strapperei il cuore per fermare il tempo ed evitarle ogni dolore.
Ma che può fare un uomo, quando i suoi sogni vanno oltre l'essenza stessa della vita? Non può che alzarsi e fingere che tutto vada per il verso giusto, ed arrivare a credere che in fondo sognare è soltanto una perdita di tempo.
La notte talvolta sembra urlare il suo silenzio, il vuoto cancellare i contorni delle case. I buoni posano le loro menti nei labirinti di Morfeo, mentre i corpi stanchi si svuotano dei pesi fra le pieghe delle lenzuola. I cattivi escono dalle tane, prendono il volo si solchi dell'asfalto, aprono l'inferno e lo fanno assaggiare ai mortali. C'è chi crede che il male si nutra di tenebra, rifugga il sole come fosse un vampiro. In realtà all'alba tinge il suo volto, si nasconde fra giacche e cravatte, desideri infranti e banconote d'avidità. Mi sono innamorato di pesche al cianuro, ho riassunto la mia anima in illusioni giovanili, ho inseguito la bellezza finché ho capito che non si può raggiungere. Il domani è un ostacolo troppo grande, prima della vita c'è sempre la necessità, prima del profumo occorre trovare l'ossigeno per respirare. Così ho sacrificato i miei idoli su un altare di compromessi, ho accoltellato le nuvole e baciato capre e serpenti. Mi son fatto schiavo di ciò che odiavo, ho spinto la mia mente oltre l'innocenza, sono cresciuto diverso. Credevo d'aver perso la possibilità di sorridere, e talvolta lo penso ancora.
Ma le mie gambe seguono il profilo della strada, spalancano la porta di casa, trovano l'ancora della mia salvezza. È notte, Alice dorme nel suo mondo d'incanto, non sa quali sono i miei pensieri, prego Dio che non li scoprirà mai. I capelli le incorniciano il volto, gli occhi chiusi si muovono appena, dipingono chissà quali dolcezze.
Ad un tratto sembra sorridere, inseguo quel sospiro come se fosse l'unica cosa che ho. Istintivamente le accarezzo il volto, il movimento la fa svegliare. Mi guarda, sembra frastornata.
«Papà», mormora con un filo di voce.
Le suggerisco di tornare a dormire, ma è già assopita. Soffoco le lacrime negli occhi, mi sdraio sul pavimento freddo, accanto al suo letto.
Papà.
Quella parola sembra riecheggiare al di sopra di ogni pensiero, mi rendo conto che non ho bisogno di altro, sento il cuore prendere il volo, e la mia mente inseguirlo.
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lunedì 23 marzo 2009
D'improvviso io scenderei (in tre non si può)
Esiste un concetto morale in un concerto, che lo strumento non può tacere, fingere, scappare. Lo strumento è parte: un’orchestra muore dentro, se un singolo spigolo si stende e diviene cerchio. Non si può scendere dal treno quando viaggia, il fiato che si mozza e la claustrofobia che sale, non può essere peggio della carne che si sfalda sui binari. Sicché non si può: l’etica d’una realtà che trasale, s’accorge di evadere dall’illusione di un mito che non esiste. Chi m’assicurerà che l’universo è infinito, mentre il mio si spegne? E la sera si torna se stessi, pensare, pensare, pensare. Ieri ho incontrato Rosita.
Sicché si ha la sensazione di dovere, di dover spiegare perché non si sa perché, di dover motivare un pensiero nato dalla mente. Chi mi dice che la mente è razionale ha già ceduto alla morte, ha dimenticato cos’è vivere. Ogni volta che penso d’aver paura della mia carne che si sfalda cedo alla morte, e così non salto mai. Ed è etico che io non salti, perché esploderebbe l’orchestra. Ed io al concetto morale del concerto tengo, perché se viene meno, non potrebbe che essere un danno per me.
Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto è ciò che io penso. Perde ogni senso la spiegazione, perché non esiste verità più sacrosanta di quella del narratore. Io sono il dipinto di un ordine superiore, e voglio elevarmi a capo burattinaio. Voglio stendere i fili intorno a me, da strumento divenire direttore d’orchestra.
Dannata Ippolita, ingravida, disgrazia di Otranto: io voglio Isabella, la giovane fanciulla. Sarò per lei l’incestuoso padre, accoglierò il peccato. Finché sono Manfredo non esiste peccato, il futuro dei miei figli o il piacere di quell’istante. Non chiedetemi perché, dal momento che non v’è altra spiegazione che la mia mente. Ed il mondo è governato dal mio pensiero, sicché per me non esiste altro mondo, se non il mio. Voglio Isabella. Ho scelto lei.
Sicché si ha la sensazione di dovere, di dover spiegare perché non si sa perché, di dover motivare un pensiero nato dalla mente. Chi mi dice che la mente è razionale ha già ceduto alla morte, ha dimenticato cos’è vivere. Ogni volta che penso d’aver paura della mia carne che si sfalda cedo alla morte, e così non salto mai. Ed è etico che io non salti, perché esploderebbe l’orchestra. Ed io al concetto morale del concerto tengo, perché se viene meno, non potrebbe che essere un danno per me.
Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto è ciò che io penso. Perde ogni senso la spiegazione, perché non esiste verità più sacrosanta di quella del narratore. Io sono il dipinto di un ordine superiore, e voglio elevarmi a capo burattinaio. Voglio stendere i fili intorno a me, da strumento divenire direttore d’orchestra.
Dannata Ippolita, ingravida, disgrazia di Otranto: io voglio Isabella, la giovane fanciulla. Sarò per lei l’incestuoso padre, accoglierò il peccato. Finché sono Manfredo non esiste peccato, il futuro dei miei figli o il piacere di quell’istante. Non chiedetemi perché, dal momento che non v’è altra spiegazione che la mia mente. Ed il mondo è governato dal mio pensiero, sicché per me non esiste altro mondo, se non il mio. Voglio Isabella. Ho scelto lei.
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lunedì 4 agosto 2008
Il tempio dei falliti
Quello laggiù è Fortunato, di nome intendo, viene qui da sempre. Fissa lo stesso punto vuoto, quasi stesse aspettando che si riempia. Ha le labbra insanguinate di vino, il respiro affannoso di chi urla in silenzio, così pochi capelli che si potrebbero contare. L'ho visto pagare una puttana solo per farsi dire che è bello, e se gli chiedeste perché l'ha fatto, lui vi risponderebbe che un complimento vale ben venti euro, o che i soldi non servono a nulla se non si sa come spenderli. Qualcuno pensa che sia pazzo, qualcun altro che sia triste, nessuno sa che non è né uno né l'altro. Perché, in realtà, ha smesso di essere tanto tempo fa: ha venduto la sua anima ad una mercante di illusioni, e sta ancora aspettando invano che gliela restituisca.
Questo qui, con una manica di pelle che copre il mio banco, è Michele. Ha vent'anni, forse ventuno, ma ha già capito che vivere significa sempre avere un po' di male al culo. Qualcuna gli ha detto che è una persona meravigliosa, ma credo sia stata la stessa ragazza che lo ha impiccato. E trascinato qui, a riempire di sperma e sangue il muro bianco, e a fissare un cellulare che non suonerà mai. Stasera ha deciso di buttarlo nel fiume, quel cazzo di cellulare. Forse aspetterà domani, chissà che non lo chiami proprio questa notte. Il culo gli fa ancora più male, ha una cazzo di galleria di dietro, un fottuto traforo.
Alla sua destra c'è Giampaolo, quello dal "nome più lungo del suo pisello". Anche lui ha pagato la puttana della quarta riga, ma non certo per farla parlare. Centocinquanta euro buttati nel cesso, per una donna-piccione che non è poi meglio della sua mano. Non c'è mai niente di meglio della sua mano, in fondo. Un pugno non ha bisogno d'amore, ed una fantasia può essere tutto. Lo pensa sempre, ma ci crede solo dal sesto vino.
L'uomo che è entrato adesso, col viso sudato e lo sguardo incendiato, è Cesare. Viene sempre da me dopo aver ucciso una donna, tagliare le gole gli dà una sorta di eccitazione che poi spegne bevendo. Qualcuno crede che serva un motivo per ammazzare, Cesare non ci pensa e lo fa soltanto. Sono io l'unico che conosce il suo piccolo segreto, me l'ha confidato mentre stava pisciando, l'altra sera. Tanto sa che io non dirò mai niente a nessuno.
Il barista si chiama Giovanni, e lavora per me da ormai cinque anni. Dice d'aver scelto questo lavoro dopo che Bukowski gli è apparso in sogno, e nessuno sa se scherza o se ci crede davvero. Ha il tipico carisma di chi ci sa fare, potrebbe far bere cianuro a chiunque. Ma ha deciso d'andarsene, questa è la sua ultima notte qui. Da domani servirà whisky nell'ade, e disseterà Jack Daniel in persona.
Ed io? Io ci sarò sempre. Io sono il bar. Ed ora, vieni, accomodati. E raccontami cosa c'è che non va.
Questo qui, con una manica di pelle che copre il mio banco, è Michele. Ha vent'anni, forse ventuno, ma ha già capito che vivere significa sempre avere un po' di male al culo. Qualcuna gli ha detto che è una persona meravigliosa, ma credo sia stata la stessa ragazza che lo ha impiccato. E trascinato qui, a riempire di sperma e sangue il muro bianco, e a fissare un cellulare che non suonerà mai. Stasera ha deciso di buttarlo nel fiume, quel cazzo di cellulare. Forse aspetterà domani, chissà che non lo chiami proprio questa notte. Il culo gli fa ancora più male, ha una cazzo di galleria di dietro, un fottuto traforo.
Alla sua destra c'è Giampaolo, quello dal "nome più lungo del suo pisello". Anche lui ha pagato la puttana della quarta riga, ma non certo per farla parlare. Centocinquanta euro buttati nel cesso, per una donna-piccione che non è poi meglio della sua mano. Non c'è mai niente di meglio della sua mano, in fondo. Un pugno non ha bisogno d'amore, ed una fantasia può essere tutto. Lo pensa sempre, ma ci crede solo dal sesto vino.
L'uomo che è entrato adesso, col viso sudato e lo sguardo incendiato, è Cesare. Viene sempre da me dopo aver ucciso una donna, tagliare le gole gli dà una sorta di eccitazione che poi spegne bevendo. Qualcuno crede che serva un motivo per ammazzare, Cesare non ci pensa e lo fa soltanto. Sono io l'unico che conosce il suo piccolo segreto, me l'ha confidato mentre stava pisciando, l'altra sera. Tanto sa che io non dirò mai niente a nessuno.
Il barista si chiama Giovanni, e lavora per me da ormai cinque anni. Dice d'aver scelto questo lavoro dopo che Bukowski gli è apparso in sogno, e nessuno sa se scherza o se ci crede davvero. Ha il tipico carisma di chi ci sa fare, potrebbe far bere cianuro a chiunque. Ma ha deciso d'andarsene, questa è la sua ultima notte qui. Da domani servirà whisky nell'ade, e disseterà Jack Daniel in persona.
Ed io? Io ci sarò sempre. Io sono il bar. Ed ora, vieni, accomodati. E raccontami cosa c'è che non va.
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venerdì 1 agosto 2008
Livido

Linciami d’indifferenza, quello che resta di me seguirà i labirinti della tua mente, finché svanirà il mio corpo, e sarò ombra, e sarò sabbia, e sarò io il tuo male, un nuovo livido nel cuore.
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