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giovedì 17 marzo 2011

Il senso di essere trentini, e festeggiare il 150° dell'Unità d'Italia

Mi sorprende la fissazione che molti hanno per i confini geografici. Festeggiare oggi i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia è per molti festeggiare la cartina di un'Italia unita in senso geografico, dimenticando forse che per la breccia di porta Pia son serviti ulteriori dieci anni. Chiarisco: la scelta del 17 marzo 1861 come data simbolica è giusta e doverosa, rientra nel novero di quelle date simboliche che si devono ricordare. Ma dietro queste date simboliche c'è sempre qualcosa di più, è quella che gli storici la prospettiva di lungo periodo. Come potremmo pensare al viaggio di Colombo, data simbolica del 1492, dimenticando le scoperte della tecnica fra il XIV e il XV secolo? E gli esempi da fare sarebbero molti, chi studia storia lo sa.

Così c'è chi, e lo scrive vantandosene su facebook, osserva che il 17 marzo 1861 Trento era al di fuori dei confini italiani. Strana forma di regionalismo, che forse dimentica che anche la provincia di Mantova, ad esempio, era parte dell'impero asburgico fino al 1866. Non so se i mantovani, oggi, stiano tenendo fede al culto della polemica, e si vantino di voler aspettare ancora cinque anni per festeggiare. Scritto così suona davvero strano, eppure non c'è molta differenza fra chi dei trentini ricorda che per vedere una Trento italiana si dovette aspettare il Trattato di Saint Germaine del 1919. 
Vero: se consideriamo la ricorrenza di oggi come un mero anniversario di un evento, che si esaurisce in quel 17 marzo di 150 anni fa, non si capisce cos'avrebbero da festeggiare i trentini, i triestini, gli stessi romani, eccetera eccetera.

Ma la scelta del 17 marzo è la scelta di una data simbolo (l'incoronazione di Vittorio Emanuele II a re   del regno d'Italia) per ricordare un movimento di lungo periodo, quello del Risorgimento. Ed il Risorgimento è stato innanzitutto un movimento d'idea, di cultura, di arte. Uno dei parti della nostra Storia di cui dobbiamo andare fieri; il Risorgimento è Mazzini ma anche Hayez, è Garibaldi ma anche Manzoni. Perché in realtà la festa della ricorrenza dell'Unità d'Italia è tutto questo: l'anniversario di un'idea che ha scosso un popolo come non mai. Un'idea che non si deve, e non si può, ricercare sui tratti artificiali di una carta geografica, ma nelle testimonianze, negli scritti, nei quadri, nei giornali (così importanti dopo il 1848!), nelle opere in genere. Il culto del popolo, che diviene il culto della nazione, come ha osservato lo storico George L. Mosse; un nazionalismo di tipo culturale, che rifugge dall'oggettiva condivisione di un territorio: l'appartenenza ad una comunità immaginata (mi rifaccio all'antropologo Benedict Anderson), l'invenzione di una tradizione (e qui il richiamo è allo storico Eric J. Hobsbawm).

E Trento? La Trento asburgica, che solo lo scorrere del sangue di una guerra mondiale porterà a vedere formalmente unita al regno d'Italia, quale forma di nazionalismo italiano poteva avere? Sarebbe semplice pensare ad un nazionalismo di tipo etnico ed oggettivo, che si limita al riconoscimento che i trentini erano d'etnia italiana, con una lingua italiana. Ma si tratterebbe di una valutazione piuttosto sterile, che pure ha accontentato in passato qualche storico (etnicista). Se invece superiamo questo velo, ed andiamo a ricercare se anche a Trento si ha quell'invenzione di una tradizione di cui si diceva prima, ci accorgiamo che in effetti proprio dalla metà dell'Ottocento si sviluppa l'idea di una Trento italiana. Una risposta all'idea tirolese di una grande Germania, ma anche il riconoscimento di un'appartenenza culturale che si sviluppa per imitazione dei contemporanei moti italiani (significativa l'apertura della 'civica biblioteca' nel 1850). 

Nei fatti, la richiesta politica più urgente è in questo periodo quella di un Tirolo italiano (un Welschtirol), separato ed autonomo, attraverso la definizione di prerogative che poi verranno ben ereditate da un giovane Alcide De Gasperi, e col tempo porteranno alla definizione dell'attuale regione autonoma. 
Ma faremmo un errore di valutazione se pensassimo che quel sogno di un'unione all'Italia si sia fermato a Borghetto, sul confine col Veneto: Trento è parte pulsante di un Risorgimento, che è innanzitutto la riscoperta di comuni radici culturali, la formazione di nuovi paradigmi di valore, che sono la radice dell'identità italiana. Ecco il significato di questa ricorrenza: è la possibilità di rivolgersi al passato per riscoprire il senso di un movimento che, dall'Illuminismo a Mike Bongiorno, ha portato infine a definire i valori di un'unità nazionale. In questi giorni in cui la cultura sta subendo le mortificazioni che ben sappiamo, in cui si sta perdendo ogni senso della Storia e del passato, festeggiare in questo presente un simbolico centocinquantesimo, da Bolzano a Bronte, da Quarto a Teano, è ciò che di meglio si possa fare. Perché, attraverso la grandezza del nostro passato (ed anche imparando dai suoi errori e contraddizioni), possiamo costruire un grande futuro. Per la nostra Italia.

Ma diffidiamo da revisionisti, da chi pretende di spiegare una realtà che non è mai esistita, solo per giustificare idee del presente. La realtà è che, quando si parla di Storia, ci si dovrebbe fermare un po' di più ad ascoltare gli storici. Non politici, non giornalisti, ma storici, e per esserlo non basta nemmeno scrivere di storia (occorre un percorso di studi, di confronto, in poche parole di 'specializzazione'). Ecco cosa intendo: il mio non è orgoglio di casta, ma vi chiedo, vorreste che a difendervi in tribunale fosse un avvocato o un panettiere, che le vostre case fossero frutto del lavoro di ingegneri ed architetti o di un salumiere?
Salvo illustri eccezioni (oggi col Corriere della Sera esce il volume sul Risorgimento della Storia d'Italia di Indro Montanelli, che come opera di divulgazione storica è sicuramente significativa), il giornalista che s'improvvisa storico è come il chiromante che s'improvvisa medico.

mercoledì 1 dicembre 2010

H-Factor. Ovvero, speranze per il futuro.

Fra i ricordi migliori di quel lungo periodo del liceo, vi era quella settimana di febbraio definita, con una sorta di neologismo, cogestione. Pareva quasi una reminiscenza sessantottina, lontano eco delle occupazioni, in realtà un modo per staccare fra la fine del primo e secondo quadrimestre. In concreto, erano tre giorni (quindi non una vera "settimana") in cui si sospendevano le normali attività didattiche, sostituite da conferenze alternative, in teoria pensate ed organizzate da docenti e studenti. Non tutti i professori, in effetti, erano d'accordo; anzi, in una scuola con quella patina un po' arcaica, quale era - ed in parte è ancora, sebbene già nei pochi anni della mia frequenza le cose siano cambiate non poco - il liceo classico di Trento, si elevavano sempre i cori contrari. "E' solo una perdita di tempo", sbottava la vecchia di turno; lei che uno speciale-parlamento avrebbe dovuto condannare per l'uccisione culturale che portava avanti ogni giorno, arroccata sulla cattedra, con metodi paleolitici, contraria ad ogni ammodernamento (che non fosse l'aggiornamento mensile dello stipendio). In realtà, non è un caso che ricordo ancora quei momenti come i migliori della mia formazione, attimi in cui mi accorgevo di uno dei pregi migliori della cultura…anzi, di più: dell'umanità, della natura, della vita…la varietà. Il saper cogliere stimoli ovunque, l'inseguire il piacere di ciò che piace, l'uscire dagli schemi di programmi-di-studio, di ciò-che-si-deve-fare; cogliere il pregio dell'humanitas, un elevamento dello Spirito, dell'anima. Che gran soddisfazione capire che tutte queste cose erano inarrivabili per quelle stesse vecchie-megere in cattedra. Che bello scoprire che essere giovani significa avere una marea di chiavi, e poi basta solo capire quali sono le porte che possiamo aprire.

Certo, nel concreto questi sono tutti pensieri che ho compreso solo di recente, ammetto che ai tempi il tutto mi sembrava un "modo migliore per cui alzarsi la mattina e andare a scuola". Ma d'altronde credo che molti dei migliori insegnamenti ci arrivano addosso, senza nemmeno che ce ne rendiamo conto.

(Piccolo aneddoto: è proprio durante una di queste conferenze che ho conosciuto Giancarlo Alessandrini, grandissimo disegnatore della Bonelli. Io da appassionato di fumetti, e di Dylan Dog in particolare, avevo vinto la mia proverbiale timidezza, ed avevo chiesto di fotocopiare una tavola dell'Indagatore dell'Incubo, nella versione nata dalle sue chine. Me l'ero portata a casa con gioia ed orgoglio, con tanto di dedica e firma.

Ebbene: qualche anno dopo, per altre strade, ho conosciuto quella che di Giancarlo Alessandrini è la figlia, Susanna, di cui si ritrovano tracce in altri miei interventi nel blog (più o meno esplicite). La stranezza sta nel fatto che in realtà non sapevo delle parentele-celebri di Susanna, con cui nel frattempo avevo avuto qualche flirt. Immaginatevi la stranezza di scoprire la firma del padre sul muro di casa mia, la sera in cui strane coincidenze l'hanno portata a dormire da me.
Tra l'altro, sempre per la cronaca, io e Susanna ora siamo felicemente innamorati, da ormai "quasi" tre anni).

L'atmosfera di quei tempi passati, l'ho ritrovata incredibilmente oggi, presso la mia università. L'iniziativa, dal nome simpatico (ma anche un po' inquietante, nello scoprire ancora una volta quale sia l'influenza televisiva su tutto) di H-Factor, era volta a dar credito alla facoltà umanistica, nei suoi sbocchi lavorativi. Quali sono le possibilità che si aprono per i laureati; quali possono essere i punti d'incontro con le aziende, quali i pregi in genere degli umanisti? Pare un normale incontro orientativo, come molti se ne hanno nelle università, ed ancor prima proprio nei licei. In realtà è il tentativo, difficile, di far comprendere che una laurea in Lettere non significa, a prescindere, un antipasto al sussidio di disoccupazione. E' una crociata che, nei mille dialoghi avuti a riguardo, porto avanti da molto tempo; avere un supporto da chi non si è nutrito di soli sogni, ma anche di pane conquistato da vero-lavoro, è stato il primo aspetto della giornata di oggi.
In pratica: durante la giornata si sono alternati diversi relatori, ognuno portatore (più o meno sano) di una laurea umanistica. Sono stati loro, forti di un'esperienza decennale, a farsi testimoni di come anche il laureato in Lettere può lavorare. Ed ancor più: essere apprezzato, ed aver successo.
Grazie a Alida Caramagno, archivista, Paolo Di Stefano, giornalista de Il Corriere della Sera, e Patricia Chendi, editor di Sonzogno (tutte persone che, più o meno, fanno lavori vicini ai miei sogni), son riuscito  finalmente a capire cosa dovrò rispondere a chi mi chiederà cosa voglio fare nella vita - spesso con un tono sprezzante, e mezzo-retorico -. 

"Io voglio fare l'umanista"

E cioè? non lo so ancora, ma ho ancora una vita per capirlo. E il giorno in cui arriverò a quello sbocco professionale, chissà dove sarà quel tale che mi chiedeva, con curiosità polemica, del mio futuro. Chissà se mi ricorderò ancora di lui, e lui di me.

PS: intanto, io un biglietto da visita me lo son portato a casa. Chissà che.. no beh, meglio non dar ordini al destino!