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domenica 6 maggio 2012

Il Bar dei Quattro Venti


«Facciamo una passeggiata
Laggiù, sulla spiaggia
so che presto ti sposerai
e desideri sapere da dove vengono i venti»

Hanno aperto il Bar dei Quattro Venti. Ci servono cianuro in vasche da litri, e si paga solo con il sangue. Nikky ha il suo sgabello, bordato di rosso, si appoggia al banco e finge di avere l'aria di un uomo vissuto. Tutta finzione, nei suoi occhi si vede la fragilità di chi si sente solo, senza autostima, e sconfitto dal passato. La barista non lo chiama ancora per nome, ma quando lo vede sa che potrà guadagnarci. Nikky di sangue ne ha molto; beve “dic'otto lune”, e poi versa la sua emoglobina, pagando sino all'ultima goccia.

Ma accanto a lui non c'è mai nessuno che possa capirlo. Nikky vorrebbe solo essere abbracciato, lasciare che il tempo si fermi, divenga tutto buio. Vorrebbe tornare d'improvviso bambino, fingendo che non sia successo mai nulla. Vorrebbe sentirsi stordito ma soccorso, e chi se ne importa dei litigi, degli errori, delle parole e della gelosia; ogni tanto bisognerebbe solo smettere di parlare, e trasformare ogni sillaba in una nota. Se tutti diventassimo una canzone, pensa Nikky, ci si potrebbe mescolare in un concerto, e superare tutte le limitazioni di una vita piatta, che ferma i battiti del cuore per lasciare troppo spazio ai limiti della mente. Nikky si uccide di alcool perché ha troppo amore da dare, vorrebbe solo qualcuno pronto a raccoglierlo. Solo?

Quando Nikky siede sul suo sgabello al Bar dei Quattro Venti, quando diviene una cosa sola col legno e la sua umidità, ciò che lo circonda è solo uno sfondo. Vede gente impolverata che corre, gli sembra che siano tutti coperti di ragnatele. In quelle occasioni il bisogno di Mary esplode; la mente inizia a pensare a lei, le narici a cercare il suo profumo, le labbra a cercare il suo contorno da assaggiare. E il resto del corpo, ogni singola parte, cerca quei brividi di un tempo. Sensazioni che ora sono immaginazione. In quei casi tutto sfuma, e lui non riesce a smettere di cercarla.

Poi le porte si chiudono anche al Bar dei Quattro Venti. La leggenda dice che da quel posto si possa uscire solo da morti. Nikky non può sapere se è vero. È passato un mese da quando Mary se ne è andata, e lui non ha più ripreso a vivere davvero. Si sente come un gesso spezzato, senza una lavagna su cui scrivere. E vorrebbe tanto essere abbracciato.

vedi:

sabato 7 aprile 2012

Cadendo come pioggia

Nikky aveva riprovato con le strisce pedonali su per il naso, come quando, qualche anno fa, aveva pensato di uccidersi impiccandosi con una corda di chitarra. Allora si chiamava Jonathan, ne è passato di tempo. Ora di corde ne ha sei, quindi potrebbe tagliarsi la gola con ognuna di esse, ed ogni tanto sembra davvero la via più facile, soprattutto di notte, soprattutto quando nelle orecchie ha quel vuuuu che ricorda il mare di Ἀγκών. Pensava di avere un cervello nella testa, non si era mai accorto di averne uno anche nel petto, uno nel profondo dello stomaco, ed uno fra le gambe. Quello fra le gambe è il più facile da zittire, basta una mano. Per gli altri ci vuole molto di più. A volte basta un mare d'inchiostro, in cui affogare ogni pensiero con la fantasia. Il fuoco d'anice a volte serve, ma il whisky può anche peggiorare le cose. Ed allora si prova con la farina, sistemata su un tavolo marrone di una casa in zona industriale, al di là del torrente, ed il vuu diventa d'improvviso un bum. Bum bum bum bum bum. Il battito di un muscolo che passa nelle vene, irrora il cervello, si scontra sul timpano. È in quei momenti che Nikky può davvero tuffarsi nel vuoto, scoprire ogni fibra del suo tessuto, sentire le arterie che s'ingrossano, ed essere felice di non poter uccidere Mary. Anche col conforto di due occhi blu, a volte vicinissimi che li puoi sfiorare, a volte così lontani, con due occhi che non si vedono anche quando sono aperti, con le fantasie di una strada che odora d'asfalto anche con il cellulare acceso ma zitto. Anche con le carezze di una puttana coi capelli appena lavati, che gli sussurra «lasciati andare, e a te ci penserò io. Almeno questa notte». Quando la coca arriva al cervello, in quel momento in cui si supera il confine dell'intelligenza, e ci si sente pienamente vivi al di sopra di tutto, anche lì, Nikky capisce di non voler premere il grilletto, di non saper sparare. È in quei momenti che re-impara a sorridere. Ed inizia a cantare una vecchia canzone dei Decibel. Io ripeto anche a chi non chiede niente. Lei è uscita, tornerà immediatamente. Non è così, non sei più qui. Poi, di solito, Nikky si siede, si preme il pollice sulle vene del braccio per sentirle battere. E battono forte, così forte, e sussurrano sempre lo stesso nome. E l'immenso si chiama Mary, così bello quando lo hai affianco, l'immenso sembra diventare ancora più straordinario quando è lontano, e lo puoi solo immaginare, invidiare, volere.

L'altra notte Nikky si è svegliato sudato, con la testa che girava. Si è messo le scarpe tagliate, il chiodo, e scappando, coperto dal rumore di chi russava nella camera accanto, si è gettato nel nulla della notte. È andato sino al torrente con una bottiglia di Chardonnay. Un pescatore, con la barba che puzzava di sigaro, gli ha chiesto dove stesse scappando.
«Vado a parlare con l'Avisio, vecchio», gli ha risposto Nikky.
«È la prima volta, capellone?».
«Sì vecchio. Ho assaggiato quest'acqua da poco, ma non so se era il torrente ad essermi parso dolce, o chi mi era accanto, asciugando le mie lacrime.»
«Non c'è nulla più dolce di quest'acqua, ragazzo.»
«Ti sbagli vecchio, c'è Mary.»
«È lei che ti ha portato qui?»
«È lei, ma sono stato anch'io.»
«È sempre una lei che ti porta qui.»
«Anche tu, vecchio?»
«Anch'io». Ed il pescatore ha alzato gli occhi al cielo per nascondere il riflesso d'una lacrima.
«Non è più tornata, vero?»
«Per questo sono ancora qui. Tu cosa vuoi, capellone?»
«Cosa voglio?»
«Cosa chiederai al torrente?»
«Che Mary sia felice, è questo che m'importa».
«Sciocco! Attento a quello che vuoi, perché potrebbe diventare realtà.»
«Questa l'ho già sentita, vecchio. Anni fa, avevo una corda di chitarra, e tante illusioni.»
«Lei potrebbe essere felice senza di te.»
«Lo so, vecchio».
«È questo che vuoi?»
«Sì. No. Non lo so. Vorrei che fosse felice con me.»
«E tu sei in grado di renderla felice, ragazzo?»
«Un tempo forse sì. Ora non lo so più.»
«Sai cosa devi fare, capellone?»
«Vorrei saperlo.»
«Devi capire cosa vuoi. E se davvero la vuoi…»
«…la voglio!»
«…se davvero la vuoi, preparati a poterla rendere felice, se tornerà.»
«E se non tornerà?»
«Allora…»
«No, non lo voglio sapere!»
«È giusto, ragazzo. Combatti per quello in cui credi. Ed ora va, il torrente ti aspetta.»

Su queste rocce viene la tentazione di fumare. Per vedere come le nuvole di fumo possano intingersi nell'acqua, quasi a fare l'amore. Ma Nikky non ha mai fumato. È strano che non lo abbia mai fatto, è strano come gli sembri assurdo uccidersi con della cenere, ma non si preoccupi di mascherare la Sorella Nera di whisky, in un bicchiere senza ghiaccio. Quella notte però aveva solo del Chardonnay, una bottiglia intera in realtà, e a pensarci bene lo faceva sembrare molto più raffinato di quello che era davvero Non si sentiva più quel dandy che aveva finto di interpretare, in altri momenti, e con altri progetti. Ora si sentiva piuttosto truffato dai mercanti di sogni, con le guance sempre un po' troppo calde, e una nausea che lo spingeva quasi a vomitare. E mentre Nikky iniziò a bere, d'un fiato, il torrente iniziò a parlare.
«Ogni sorso di quel vino è uno strale conficcato nel tuo petto lì sulla sinistra, dove tu che hai un cuore lo senti pulsare fino alla gola».
«Lei non mi ha mai detto» urlò Nikky al torrente «che non sapevo bere».
«Perché ora hai lo sguardo di cera, e tramuti in lacrime ogni cazzo di pensiero che hai? In passato hai pianto per chi nemmeno ricordi più come si chiama. E non sai più nulla di loro, sono passate come un livido che si cancella con il tempo, lasciando una leggera cicatrice che si fa sentire sempre meno.»
«Forse sono tutte morte nel mio fottuto fiume di lacrime, annegate dalla loro mente paranoica, suicide del loro essere troie ben oltre le ossa, fin dentro la più recondita profondità delle viscere.»
«E Mary?»
«Lei è un'altra cosa. Continuo a sognare il suo collo fra le mie mani, quella pelle ch'io un tempo sfioravo di baci.»
«Vorresti quella carnagione così candida da sembrare latte divino sotto la presa forte delle tue dita, per togliere al mondo il peso del suo respiro sul tuo cuore così spezzato?»
«No, cazzo, non potrei vederla morire, vorrei baciarla ancora, accendere per sempre i suoi occhi coi miei, e sentirla ancora implorare il mio nome.»
«Patetico stronzo!»
«Non ho mai avuto la capacità di prendere tutto alla leggera. Anche se so scherzare.»
«Anche su questo?»
«Sì anche su questo!»
«Su, dai, scherza..»
«Non ho mai scherzato con un corso d'acqua…»
«C'è sempre un momento per iniziare.»
«E c'è sempre un momento perché le cose finiscano?»
«Sì c'è.»
«Ed è questo il momento?»
«Sono solo un torrente, io non lo posso sapere.»
«Perché la tua acqua continua a scorrere?»
«Perché evapora, e ritorna come pioggia».
«Mary tornerà?»
«Solo se si trasformerà in pioggia, e tu sarai ancora lì, pronto a mescolarti con lei.»
«Mi ha detto che è troppo tardi!»
«Quand'è troppo tardi perché l'acqua torni ad essere acqua, e perché l'Amore torni ad essere Amore?».

Quando tornò a casa quella notte, Nikky aveva la febbre alta. Si mise a letto, prese un foglio bianco, ed iniziò a scrivere. Tremando, per l'astinenza dello zucchero da naso, e l'astinenza non solo di quello. Iniziò a scrivere, aspettando che Mary lo venga a trovare sul greto, se mai tornerà, almeno per passeggiare insieme, e perché lui le possa presentare il vecchio pescatore. Le sue prime parole furono: «Nikky aveva riprovato con le strisce pedonali su per il naso».

(ogni riferimento a persona o a fatti realmente accaduti è puramente casuale)

sabato 28 gennaio 2012

Vento

piccolo sfogo in versi, non chiamiamolo poesia (sarebbe una sopravvalutazione), minimamente autobiografico.

Poggio i remi
nel vento
volto, giro
per Dio!

Dov'è la rotta?
S'è perso,
s'è perso!
In balia del vento,
s'è perso.

Grido, strattono
il cielo
di insulti,
faccio fulmini
di bestemmie.

Ma la luce
non taglia il vento,
dov'è la via,
dove ho gettato i remi?

Come si ferma il vento,
come si bacia il vento?

venerdì 14 ottobre 2011

Incollati al cielo (2009)

Forse lo avrete intuito, da questo mio blog, che mi piace scrivere. Lo faccio da quando sono piccolo, ed è sempre e solo lo sfogo di un bisogno. Provo un po' di vergogna quando qualcuno mi dice che sono bravo. Un po' per timidezza, un po' perché, davvero, non credo di essere così bravo. Forse è per questo che raramente ho condiviso qualcuno dei miei scritti. E col tempo molti li ho perduti.

Non credo sia un male. Penso anzi che molte cose che ho scritto meritassero di andare perdute. Però qualcosa è rimasto, nero su bianco. E mi sono reso conto che ho sempre avuto un difetto, che è poi il più grande difetto di quanti provino a scrivere, da dilettanti. Me lo ha fatto osservare la migliore critica di me stesso, colei che ascolto davvero, e che credo sia riuscita nell'impresa di migliorare anche il mio stile. Non credo di esser diventato bravo, non ancora. Ma almeno leggo più volentieri ciò che scrivo. Ogni tanto.

Ora ho deciso di provare a superare l'ostacolo del cassetto chiuso. Con questo mio blog, ho sempre voluto mettere in campo parte di me, render pubblico, per quanto virtuale, ciò che ho tenuto a lungo nascosto…ecco, allora, che ho deciso di ricopiare sul mio blog alcuni miei racconti del passato.

Con la precisazione di questa premessa. Li ricopierò così come sono, senza modificarli. E con tutti i difetti che hanno. Il difetto vero di cui parlavo è la retorica. L'essere prolissi, il voler per forza dimostrare di 'saper scrivere'. Il risultato è che il racconto si appesantisce, perde la sua vena narrativa, diventa quasi solo un esercizio di stile. Ogni tanto ci ricasco, forse puntualmente ci ricasco. Ma ora non scrivo più solo ed assolutamente così. Non scrivo solo per mettermi alla prova, inizio a pensare ad un ipotetico, per quanto sempre immaginato, lettore.

Ma questo mio blog vuole essere anche un occhio sul passato, e quindi va bene anche che io pubblichi qualcosa che non scriverei più. I commenti, se vorrete leggere e vorrete scrivere le vostre opinioni, mi saranno comunque davvero utili. Perché quel bisogno di scrivere..beh, non mi è mai venuto meno; anzi, forse è aumentato. E se riuscissi anche a scrivere bene, sarebbe una gran conquista.

*

Il primo racconto che pubblico è del 2008/2009. Scritto fra la fine del 2008 e del 2009, se la memoria non mi inganna. L'ho scelto per primo proprio perché è il riassunto di quanto scrivevo prima: magari, senza modestia, ha anche degli spunti interessanti.. ma sono mal sviluppati.. troppa retorica, troppo patetismo..

PS: oggi mi son svegliato alle 5, ed ho dormito 5 ore.. non escludo ci sia anche questo, nel motivo che mi ha spinto a scrivere queste cose.. puro delirio da mancanza di sonno.. 

*

Incollati al cielo

V'è un sospeso senso di benessere nell'astronomia, nell'osservare il cielo e sospettare che le stelle riposino per il volere di qualcuno. Non so dirvi di chi, ben inteso, ma sono al loro posto, a nutrirsi del buio con la luce, perché è l'unica cosa che possono fare. Forse è per questo che odio l'estate: d'agosto talvolta vedo le stelle cadere, e non mi sembra possibile che anche loro si lascino andare. Alle stelle cadenti molti associano romanticismo, io penso alla vita, e come nulla vi sia di sicuro: nemmeno loro stanno incollate al cielo, lasciano di peso la natia casa quando sfumano nel vuoto, urlano un'ultima scia di speranza, ma si gettano infine nel buio.

Riposo l'anima fra i sussulti della mia terra, seduto al bordo d'un fiume. In mano stringo l'Antologia di Spoon River, ben chiusa, quasi a temere che i personaggi possano avvertire il freddo. Non del vento, ma del mio respiro, il tremare d'un uomo che ha paura. A volte vorrei correi, tuffarmi nel fiume, lasciando che la corrente mi trascini quasi fossi una stella cedente. L'ultima scia di luce d'uno sconfitto. Abbandonare così ogni emozione, imporre il silenzio alle grida del cervello, e nascondere le lacrime nel gelo dell'acqua fino al comparire del buio.

Ma poi arriva Alice, benedetta visione, il suo volto si dipinge nel greto dove si specchiano i miei occhi. Mi sembra di vedere i capelli dorati mescolarsi alla luna riflessa, la pelle bianca dove dormono le trote, persino i grilli mi ricordano la sua voce. Allora il senso di tutto mi diventa così chiaro, siamo nati per amare, e se siamo come stelle, è l'amore che ci lega al cielo delle nostre vite.

Alice è la mia figlia di sei anni, così fragile al mondo ma già così grande. A settembre andrà a scuola, si staccherà dal cuscino di seta che le abbiamo creato ed inizierà a scoprire com'è il mondo. Da bruco sarà farfalla, da fiocco diverrà neve, ancor prima che me ne accorga avrà un cuore spezzato. Sarà così bella la prima volta che piangerà. Da grande ad ogni passo sospireranno i salici e s'innamoreranno i cavalieri; ma nemmeno la sua purezza potrà sconfiggere le ingiustizie ed i peccati. Verrà il giorno in cui sederà su quest'erba ad inseguire l'eco degli stessi miei pensieri; mi strapperei il cuore per fermare il tempo ed evitarle ogni dolore.

Ma che può fare un uomo, quando i suoi sogni vanno oltre l'essenza stessa della vita? Non può che alzarsi e fingere che tutto vada per il verso giusto, ed arrivare a credere che in fondo sognare è soltanto una perdita di tempo.

La notte talvolta sembra urlare il suo silenzio, il vuoto cancellare i contorni delle case. I buoni posano le loro menti nei labirinti di Morfeo, mentre i corpi stanchi si svuotano dei pesi fra le pieghe delle lenzuola. I cattivi escono dalle tane, prendono il volo si solchi dell'asfalto, aprono l'inferno e lo fanno assaggiare ai mortali. C'è chi crede che il male si nutra di tenebra, rifugga il sole come fosse un vampiro. In realtà all'alba tinge il suo volto, si nasconde fra giacche e cravatte, desideri infranti e banconote d'avidità. Mi sono innamorato di pesche al cianuro, ho riassunto la mia anima in illusioni giovanili, ho inseguito la bellezza finché ho capito che non si può raggiungere. Il domani è un ostacolo troppo grande, prima della vita c'è sempre la necessità, prima del profumo occorre trovare l'ossigeno per respirare. Così ho sacrificato i miei idoli su un altare di compromessi, ho accoltellato le nuvole e baciato capre e serpenti. Mi son fatto schiavo di ciò che odiavo, ho spinto la mia mente oltre l'innocenza, sono cresciuto diverso. Credevo d'aver perso la possibilità di sorridere, e talvolta lo penso ancora.

Ma le mie gambe seguono il profilo della strada, spalancano la porta di casa, trovano l'ancora della mia salvezza. È notte, Alice dorme nel suo mondo d'incanto, non sa quali sono i miei pensieri, prego Dio che non li scoprirà mai. I capelli le incorniciano il volto, gli occhi chiusi si muovono appena, dipingono chissà quali dolcezze.

Ad un tratto sembra sorridere, inseguo quel sospiro come se fosse l'unica cosa che ho. Istintivamente le accarezzo il volto, il movimento la fa svegliare. Mi guarda, sembra frastornata.

«Papà», mormora con un filo di voce.

Le suggerisco di tornare a dormire, ma è già assopita. Soffoco le lacrime negli occhi, mi sdraio sul pavimento freddo, accanto al suo letto.

Papà.

Quella parola sembra riecheggiare al di sopra di ogni pensiero, mi rendo conto che non ho bisogno di altro, sento il cuore prendere il volo, e la mia mente inseguirlo.

lunedì 10 ottobre 2011

Sotto il melo

Sono ostaggio di altri pianeti, confinato nella clessidra del tempo che scorre. E sacrifico proprio voi, miei adorati Epitaffi Viventi!
Verrà il tempo di mele più rosse, che cresceranno anche su questi rami, che non posso - né voglio - dimenticare.

Pazienza, fantasia e tempo. Soprattutto tempo. Ditemi che di tempo ne ho ancora a valanghe.. e che potrò in eterno essere il Conrad Siever del web.

Per ora, ho iniziato anche a collaborare con un Magazine online, che, se dovessi banalizzare, definirei 'locale' o 'della mia regione'.
Lo scovate qui: http://www.larotaliana.it/
e qui i miei articoli: http://www.larotaliana.it/home/le-cronache/itemlist/user/232-danieleerler.html
Nel mio piccolo, ne vado fiero.

mercoledì 22 giugno 2011

Maturità

Ogni anno seguo l'uscita dei titoli dell'esame di maturità, soprattutto per quanto riguarda la prima prova, con un certo interesse. Da un lato perché i responsabili della scelta cercano sempre di stupire, discostandosi dalla prevedibilità e scovando qualche opera minore (spesso comunque di gran pregio). Dall'altra, lo ammetto, anche perché è una grande gioia vivere l'esame di maturità con distacco, come un qualcosa di lontano e di passato.
Di per sé è un discorso che sembra quasi incoerente, visto che proprio oggi ho affrontato un esame in università. Ma non ho un ricordo positivissimo delle scuole superiori, sebbene mi son reso conto che ciò che ho studiato in passato mi è servito poi molto, ed altrettanto molto mi son pentito di ciò che non ho studiato (per la tipica pigrizia adolescenziale). Credo però sinceramente che non vi sia cosa peggiore dello studio di ciò che non si ama; veramente: lo studio può essere, deve essere, un piacere, un otium, la soddisfazione di una curiosità. Quando diventa un obbligo, allora il suo senso si perde nel circolo delle tante costrizioni della vita. Ho vissuto il mio esame di maturità come il climax di questa fase della vita, in cui tutto sembra un obbligo. Certo: anche affrontare l'esame di maturità mi è servito, ma l'ho capito solo col tempo. Allora mi sembrava lo scempio burocratico di un sentimento vampiristico, in cui il peso del dover conseguire un pezzo di carta mi si incollava al collo come una zecca. Quanto avrei voluto essere libero, anche di studiare (ma per mia scelta!), senza quell'ultimo spasmo di obbligatorietà. Mi sentivo già fuori dalla scuola molto, ma molto, tempo prima di esser dichiarato “maturato”. L'esame di maturità è una selva di radici che tentano di legarti ad un passato che, ormai, è già sfumato altrove.

*

Lo ammetto: questo mio commento all'esame di maturità è decisamente esistenzialistico. Forse esagerato nei termini. In effetti l'esame è in qualche modo una prova di vita, che per qualcuno scorre come il dispiego di una formalità, per qualcun altro diventa un ricordo che, più o meno, ritornerà nel corso di tutta l'esistenza (come un fantasma, un incubo). Leggete i giornali in questi giorni, e avrete il vip di turno che vi dirà la stessa cosa. Bene, lasciate che ve lo dica anch'io: l'esame è una prova, e come tale può essere affrontata in mille modi. Sta a voi.
Mi rivolgo direttamente ai maturandi. Il mio consiglio è di prenderla alla leggera, in fondo le vere prove sono altre, e l'esame può essere anche formativo. “Bella forza”, mi risponderebbero questi maturandi “è più facile a dirsi che a farsi!”. Avrebbero assolutamente ragione.

*

L'esame, con il suo orribile nome di 'maturità' (uno Stato retto da immaturi ha pure il coraggio di definirmi più o meno maturo? Vergogna!), cinicamente è proprio questo. Una prova. E cos'è l'esistenza se non un insieme di prove?
Ecco che ritorna questa similitudine abusata, e a cui nemmeno io so rinunciare. Lo scoglio artificiale, burocratico, di un esame, attraverso cui le istituzioni vogliono insegnarci ad affrontare gli scogli della vita. Anche dal punto di vista pedagogico, l'esame è proprio questo; non un metro di giudizio: salvo casi particolari, sappiamo che chi è ammesso all'esame ha già aperte le porte per le università o il mondo del lavoro.

*

Mi son divertito ad immaginarmi la commissione che ha scritto le tracce. Mi son figurato questi barbuti vecchiardi, riuniti intorno ad un tavolo di legno, fra libri e fogli di appunti, che si arrovellano a pensare su cosa proporre ai maturandi. Me li vedo: o tutti zitti sui loro fogli sudati, che non riescono a trovare la traccia adatta (che non sia uscita su internet, mi raccomando!), o che litigano fra loro, perché ognuno vorrebbe che il suo autore prediletto fosse oggetto dei commenti degli studenti. Fra tutti, proprio il tema letterario è quello che deve essere ponderato meglio: deve essere un tema che possa far riflettere, ma non deve essere scontato.
Mi immagino il vecchio professore di turno che, all'improvviso, si alza urlando “CE L'HOOO! UNGARETTI!!”.. e piovono i fischi degli altri professori: Ungaretti, che banalità! Foglie d'autunno, lui che s'illumina d'immenso; tutte cose già sentite, tutti i siti internet lo hanno già previsto; che poi la guerra non è neanche più di moda! Ora bisogna parlare di facebook. Dei reality show! (“Ehilà”, fa uno, “potremmo proporre un titolo su Andy Warhol!”).
“Ma no colleghi” riprende sicuro il primo tale “Proponiamo il commento alla poesia 'Lucca'!!!”. Silenzio generale. I vari professori si gettano sui loro libri. Uno finge un malore. Lucca? Niente foglie sugli alberi? E chi l'ha mai sentita?
“Colleghi, questa è una genialata! Proponiamo una poesia sull'esistenza, nell'esame di maturità!”. Silenzio, qualcuno bisbiglia. Uno urla: “l'ho trovata! È de 'L'Allegria'!”. “Sì certo, una poesia sulla vita, data all'esame di maturità, che è una prova di vita..”, riprende il primo “i sentimenti legati ad una città, che fanno da sfondo ad una riflessione più piena sul senso dell'esistenza. Fino alla morte”. I vari professori si guardano fra loro. Uno inizia ad applaudire. Un altro si accoda. In pochi minuti sembra di essere allo stadio, tutti che applaudono, qualcuno si alza. Standing ovation. Quello che aveva finto il malore si rianima. La traccia è scelta.

*

Domani c'è la seconda prova. Ai miei tempi scelsero una versione di Seneca che persino alcuni latinisti faticarono a tradurre. Miei cari maturandi, se ce la fate, fregatevene altamente! Sono gli ultimi spasmi di cinismo, di un sistema che vi avrà ancora per poco. Poi va beh, lì fuori c'è la vita. E quella è tutta un'altra storia. Chiedetelo ad Ungaretti!

lunedì 11 ottobre 2010

Nonna

NONNA
Sei sorta d'inverno,
coi capelli innevati,
mi tendevi la mano,
se cadevo sul ghiaccio.

Ti chiedevo del gelo,
mi rispondevi di camminare,
t'imploravo un sorso di sole,
non rispondevi nemmeno.

Fumavi il cielo,
e si trasformava in nuvole,
continuavi a camminare,
ed io ti seguivo.

Ti sei fermata su un prato,
ti ho chiesto dov'eravamo,
tu m'hai detto "a casa".

"Che casa?", ho chiesto,
"La tua casa" mi hai risposto,
"Questa è la primavera".

E sei sparita.
Daniele Erler
 
- ho preso questo vizio. La seconda poesia della mia vita -.

domenica 10 ottobre 2010

Vuoti a rendere

VUOTI A RENDERE
I pensieri sono insorti,
salpano nei greti,
si perdono sulle rive.

Cercano pescatori
con ami di cellule,
ed occhi e lacrime.

La carta l’inchiostra,
ma non è una prigione,
hanno ali per volare,
ed altre vite in cui vivere.
Daniele Erler
 
- sì beh son io, ma voglio sia chiara la mia colpa -.

lunedì 12 luglio 2010

Ti ruberò al cielo stanotte



Tu parlavi spesso del mare,
ora è il mare a parlare,
non vedi che le onde hanno 
il tuo nome, o il tuo nome,
sì il tuo nome è l’eco delle onde.

Tu poi parlavi spesso del sole,
ma il sole s’è spento stasera,
se n’è già andato a dormire,
portandoti via con i suoi sogni
tu che anche il sole fai sognare.

Dovrei dirti più spesso che sei bella
ma che senso hanno queste parole
senza il colore dei nostri occhi,
occhi nati per starsi a guardare.
Ti ruberò al cielo stanotte.


sabato 24 ottobre 2009

Future vittime del nostro passato

Scriveva Todrov: “la scoperta dell’America, o meglio degli americani, è l’incontro più straordinario della nostra storia.”* Non è stata solo la scoperta di un qualcosa di sconosciuto, ma di più: il venir meno di certezze, di dogmi, di teologie e di sicurezze. La fine di una coscienza già formata, che vacillava al momento della scoperta di un qualcosa di nuovo, di diverso, e di mai scientificamente calcolato.

Lo scenario che si apriva allora era del tutto simile a quello che, oggi, potrebbe avviarsi con la scoperta di mondi extraterresti. Non è un discorso che prende il via da gossip o di un strato modo di fare informazione (chi ancora guarda la televisione, per scelta o costrizione, sa a cosa mi riferisco), ma una serena argomentazione logica. Non scientifica (esistono prove scientifiche dell’esistenza di un nuovo mondo nello spazio? Evidentemente, per ora, no), ma comunque razionale. “E’ praticamente ovvio”, cantavano i Bluvertigo.

Ma se non possiamo arrogarci la certezza che non esista, lassù, nulla; come possiamo poi pensare che – se gli alieni davvero esistono – saremo noi a scoprirli? Oh, sarebbe una consolante visione terrocentrica. Più probabile che, finalmente, un ufo di passaggio, volendo raggiungere un’altra galassia, s’imbatterà in noi. C’è chi giura che è già successo, ed io non mi sento di escluderlo. Mi viene però da pensare ai nostri antenati conquistadores, ed al loro atteggiamento nei confronti dei nativi americani. Beh, se l’alieno di turno avrà soltanto un decimo della disumanità di noi umani, allora il nostro futuro non sarà molto roseo. Chi di noi avrà la fortuna di sopravvivere, si troverà forse sbattuto in una riserva, forse in un campo di concentramento, forse…


In fondo ce lo meriteremmo.


* T. Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell' "altro", Torino: Einaudi, 1984, p. 6

mercoledì 14 ottobre 2009

Leggere: altra forma di sessualità umana

Talvolta dandomi in pasto alla retorica (cosa che faccio spesso, soprattutto quando scrivo!, e c'è chi mi critica per questo), riconosco che esistono dei libri che cambiano la vita di chi li legge. Credo sinceramente che qualsiasi essere avulso alla lettura, e di conseguenza al pensiero, perda la possibilità di scoprire una parte migliore di sé. Non nego che esista un altro tipo di cultura - la cosiddetta cultura di vita - di cui un illetterato è spesso più colto di un accademico. Ma l'Arte (intesa in ogni sua essenza: anche quella figurativa, ma non solo) è la sola strada per un certo tipo di piacevole intelligenza. Si tratta di un sapere che può sì sfociare nell'erudizione, ma che trova la sua prima linfa nell'istinto umano di ricerca del piacere. Leggere Oscar Wilde è un qualcosa di diverso dall'avere un orgasmo, ma qualcosa anche di maledettamente simile.
L'uomo legge per conoscere, aumentare la propria capacità di raziocinio e la propria cultura, così come l'uomo si dà al sesso per salvare la propria specie! L'obbiettivo finale, che è tutto per i teorici o gli studiosi del mondo, è un pensiero in realtà nemmeno sfiorato nella praticità. Verrà il giorno in cui ognuno di noi si darà al letto solo per far nascere vita dal seme, ma prima di quel momento c'è sempre quello - se non si è puritani o maledettamente teofili - in cui si insegue solo il piacere. Il piacere, e talvolta (in alcuni spesso) il piacere unito all'amore (o anche l'amore è un'altra forma del piacere? argomento interessante, ma non posso svilupparlo ora).
Ecco: credo che nella lettura non vi sia nulla di dissimile. Si può consacrare la vita ad essa, solo se ci si dedica innanzitutto per proprio gusto, per proprio desiderio, perché se ne ha bisogno. Finché si crede che si debba leggere per dovere - o fare l'amore per necessità riproduttive - allora si perde veramente il gusto per l'atto. Se invece ci si abbandona pienamente alla ricerca del piacere, ed al piacere che inevitabilmente deriva (non credo a chi sostiene il contrario), i sensi - ancor prima dell'intelligenza - ne riescono appagati.
Ed ecco il motivo per cui credo che certi libri cambino la vita. Sì, leggere Edgar Lee Masters è come farsi fare un pompino dall'anima gemella (sarebbe piaciuta l'immagine a Fernanda Pivano?): un'esperienza criticabile solo da chi non l'ha mai provata. C'è una piccola linea che corre fra l'immensità di un libro, l'immensità dell'esperienza sessuale, l'immensità dell'amore: questa linea è il Desiderio dell'istinto umano, che è come un'autostrada di nervi che danno vita all'uomo. E solo la soddisfazione del piacere può poi portare al reale appagamento.

PS: se c'è qualcuno che mai leggerà queste parole, in commento può - oltre alle sue osservazioni - appuntare qualche titolo di libri che gli hanno cambiato la vita. Che bello sarebbe ricavarne dei consigli! Per conto mio, due titoli li ho già sottointesi: sono l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Einaudi) ed Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (varie edizioni).

lunedì 23 marzo 2009

D'improvviso io scenderei (in tre non si può)

Esiste un concetto morale in un concerto, che lo strumento non può tacere, fingere, scappare. Lo strumento è parte: un’orchestra muore dentro, se un singolo spigolo si stende e diviene cerchio. Non si può scendere dal treno quando viaggia, il fiato che si mozza e la claustrofobia che sale, non può essere peggio della carne che si sfalda sui binari. Sicché non si può: l’etica d’una realtà che trasale, s’accorge di evadere dall’illusione di un mito che non esiste. Chi m’assicurerà che l’universo è infinito, mentre il mio si spegne? E la sera si torna se stessi, pensare, pensare, pensare. Ieri ho incontrato Rosita.
Sicché si ha la sensazione di dovere, di dover spiegare perché non si sa perché, di dover motivare un pensiero nato dalla mente. Chi mi dice che la mente è razionale ha già ceduto alla morte, ha dimenticato cos’è vivere. Ogni volta che penso d’aver paura della mia carne che si sfalda cedo alla morte, e così non salto mai. Ed è etico che io non salti, perché esploderebbe l’orchestra. Ed io al concetto morale del concerto tengo, perché se viene meno, non potrebbe che essere un danno per me.
Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto è ciò che io penso. Perde ogni senso la spiegazione, perché non esiste verità più sacrosanta di quella del narratore. Io sono il dipinto di un ordine superiore, e voglio elevarmi a capo burattinaio. Voglio stendere i fili intorno a me, da strumento divenire direttore d’orchestra.
Dannata Ippolita, ingravida, disgrazia di Otranto: io voglio Isabella, la giovane fanciulla. Sarò per lei l’incestuoso padre, accoglierò il peccato. Finché sono Manfredo non esiste peccato, il futuro dei miei figli o il piacere di quell’istante. Non chiedetemi perché, dal momento che non v’è altra spiegazione che la mia mente. Ed il mondo è governato dal mio pensiero, sicché per me non esiste altro mondo, se non il mio. Voglio Isabella. Ho scelto lei.

venerdì 23 gennaio 2009

Riassunto del riassunto di una vita riassunta

Sono ormai passati ventidue giorni di questo 2009: di per sé non sembrano molti, ma effettivamente la percezione del tempo non dà mai la mano alla matematica. Non che sia cambiato molto. La mia carriera universitaria inizia a darmi qualche soddisfazione, con un duplice 30, e sei crediti di storia greca che si aggiungono ad un curriculum dal futuro incerto. Ulteriori bacilli si sono trasformati in un ennesimo sunto d'influenza, o para-influenza che sia. Ho ripreso a frequentare amici che avevo abbandonato, ho continuato con istintiva ossessione ad amare, e ad avere bisogno dell'amore. E'stato insomma un gennaio fotocopia di altri mesi del passato, e non credo che mi debba sorprendere. La vita di un uomo è abbastanza ripetitiva, e forse la cosa più strana è la morte stessa.
Spero di continuare a non sorprendermi.

giovedì 1 gennaio 2009

L'alibi di un anno nuovo

L'inizio è la parte più importante di un lavoro. [Platone]

Sicché ci siamo: è ora di dare vita ad un blog ch'è anima, ma non carne. La carne sarei io, o meglio la mia mente.

Sono esattamente cinque mesi che questo spazio, senza che nessuno se ne sia apparentemente accorto, ha iniziato a raccogliere briciole della mia vita. Briciole sparse, sconnesse, deliranti, nemmeno l'ombra di quel pane che volevo servire.
Non scriverò promesse, perché temo divengano bugie, ma chissà che con il nuovo anno non riesca a essere più puntuale nei miei interventi.
Fosse poi l'unica cosa a cui dovrei coerenza, mi sento un vulcano di entusiasmo che si spegne nella quotidianità di mille idee lasciate nel cassetto. Sono uno dei tanti sognatori, che si sveglia spesso, ma non vuole rinunciare a sognare. Ed è per questo che il mio futuro è un punto di domanda, perché fra mille incroci devo ancora scegliere la strada giusta.
Però so che è lì da qualche parte, che mi potrebbero bastare due passi o una vita in cammino, ma che prima o poi raggiungerò una vetta. Quale ancora non so.

Per ora mi basta quello che ho: la voglia di camminare, e la consapevolezza di stringere una mano che mi tiene sempre più forte. E non è poco, perché so già che quando inciamperò ci sarà chi mi farà rialzare. Non scriverò promesse, perché temo divengano bugie, ma chissà che non abbia trovato la donna che mi accompagnerà nel mio cammino, per sempre.
D'altronde sono un sognatore.

Sicché sono qui, a salutare l'arrivo di un nuovo anno, tingendomi dell'alibi che con un nove al posto dell'otto io possa trovare le forze (o le opportunità, non tutto dipende da me!) per superare lo scoglio che fa diventare vero il sogno, in questo continuo status di apprendista. O sognatore, appunto, colui che si guarda nello specchio e non vede chi è, ma ciò che potrebbe essere.

Soffro dell'impazienza di chi ama la vita, e vorrebbe vedere se ha davvero capito come si vive. Ed allora mi auguro davvero un buon anno, chiudo gli occhi, e continuo a camminare.

venerdì 1 agosto 2008

Livido

Ho raccolto gli ultimi versi di una canzone: si spengono ora nel mio cuore, trasparenti nel rosso del muscolo e nel blu di un livido, sempre più grande. Sei il mio cancro, amore, sei quel pugno che mi finisce di lacrime, e quella mano che mi accarezza quando sorrido, sei l’infinito del tempo, e la fine di ogni senso. Sei una stronza, amore, sei quelle pagine intinte nel veleno della rosa, sei questo inesorabile vuoto, e ti vorrei uccidere, ma preferirei morire, piuttosto che perderti. Se non piangerai tu, piangeranno gli angeli a vedermi urlare, spingere la mia mente al di là del vetro, nella notte e nei ricordi, così belli e così impolverati. Rimarrà ancora quella canzone, ma s’asciugheranno le lacrime sul cuscino, ed avrò sete della tua acqua, perché non posso smettere di bere.
Linciami d’indifferenza, quello che resta di me seguirà i labirinti della tua mente, finché svanirà il mio corpo, e sarò ombra, e sarò sabbia, e sarò io il tuo male, un nuovo livido nel cuore.