lunedì 4 agosto 2008

Il tempio dei falliti

Quello laggiù è Fortunato, di nome intendo, viene qui da sempre. Fissa lo stesso punto vuoto, quasi stesse aspettando che si riempia. Ha le labbra insanguinate di vino, il respiro affannoso di chi urla in silenzio, così pochi capelli che si potrebbero contare. L'ho visto pagare una puttana solo per farsi dire che è bello, e se gli chiedeste perché l'ha fatto, lui vi risponderebbe che un complimento vale ben venti euro, o che i soldi non servono a nulla se non si sa come spenderli. Qualcuno pensa che sia pazzo, qualcun altro che sia triste, nessuno sa che non è né uno né l'altro. Perché, in realtà, ha smesso di essere tanto tempo fa: ha venduto la sua anima ad una mercante di illusioni, e sta ancora aspettando invano che gliela restituisca.
Questo qui, con una manica di pelle che copre il mio banco, è Michele. Ha vent'anni, forse ventuno, ma ha già capito che vivere significa sempre avere un po' di male al culo. Qualcuna gli ha detto che è una persona meravigliosa, ma credo sia stata la stessa ragazza che lo ha impiccato. E trascinato qui, a riempire di sperma e sangue il muro bianco, e a fissare un cellulare che non suonerà mai. Stasera ha deciso di buttarlo nel fiume, quel cazzo di cellulare. Forse aspetterà domani, chissà che non lo chiami proprio questa notte. Il culo gli fa ancora più male, ha una cazzo di galleria di dietro, un fottuto traforo.
Alla sua destra c'è Giampaolo, quello dal "nome più lungo del suo pisello". Anche lui ha pagato la puttana della quarta riga, ma non certo per farla parlare. Centocinquanta euro buttati nel cesso, per una donna-piccione che non è poi meglio della sua mano. Non c'è mai niente di meglio della sua mano, in fondo. Un pugno non ha bisogno d'amore, ed una fantasia può essere tutto. Lo pensa sempre, ma ci crede solo dal sesto vino.
L'uomo che è entrato adesso, col viso sudato e lo sguardo incendiato, è Cesare. Viene sempre da me dopo aver ucciso una donna, tagliare le gole gli dà una sorta di eccitazione che poi spegne bevendo. Qualcuno crede che serva un motivo per ammazzare, Cesare non ci pensa e lo fa soltanto. Sono io l'unico che conosce il suo piccolo segreto, me l'ha confidato mentre stava pisciando, l'altra sera. Tanto sa che io non dirò mai niente a nessuno.
Il barista si chiama Giovanni, e lavora per me da ormai cinque anni. Dice d'aver scelto questo lavoro dopo che Bukowski gli è apparso in sogno, e nessuno sa se scherza o se ci crede davvero. Ha il tipico carisma di chi ci sa fare, potrebbe far bere cianuro a chiunque. Ma ha deciso d'andarsene, questa è la sua ultima notte qui. Da domani servirà whisky nell'ade, e disseterà Jack Daniel in persona.
Ed io? Io ci sarò sempre. Io sono il bar. Ed ora, vieni, accomodati. E raccontami cosa c'è che non va.

venerdì 1 agosto 2008

Livido

Ho raccolto gli ultimi versi di una canzone: si spengono ora nel mio cuore, trasparenti nel rosso del muscolo e nel blu di un livido, sempre più grande. Sei il mio cancro, amore, sei quel pugno che mi finisce di lacrime, e quella mano che mi accarezza quando sorrido, sei l’infinito del tempo, e la fine di ogni senso. Sei una stronza, amore, sei quelle pagine intinte nel veleno della rosa, sei questo inesorabile vuoto, e ti vorrei uccidere, ma preferirei morire, piuttosto che perderti. Se non piangerai tu, piangeranno gli angeli a vedermi urlare, spingere la mia mente al di là del vetro, nella notte e nei ricordi, così belli e così impolverati. Rimarrà ancora quella canzone, ma s’asciugheranno le lacrime sul cuscino, ed avrò sete della tua acqua, perché non posso smettere di bere.
Linciami d’indifferenza, quello che resta di me seguirà i labirinti della tua mente, finché svanirà il mio corpo, e sarò ombra, e sarò sabbia, e sarò io il tuo male, un nuovo livido nel cuore.

Silence poisons the soul

Non ero amato dagli abitanti del villaggio,
tutto perché dicevo il mio pensiero,
e affrontavo quelli che mancavano verso di me
con chiara protesta, non nascondendo né nutrendo
segreti affanni o rancori.
E'assai lodato l'atto del ragazzo spartano,
che si nascose il lupo sotto il mantello,
lasciandosi divorare, senza lamentarsi.
E'più coraggioso, io penso, strapparsi il lupo dal corpo
e lottare con lui all'aperto, magari per strada,
tra polvere e ululi di dolore.
La lingua è magari un membro indisciplinato -
ma il silenzio avvelena l'anima.
Mi biasimi chi vuole - io sono contento.


Edgar Lee Masters, Dorcas Gustine, in Antologia di Spoon River, Einaudi, 1993, p. 89