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sabato 12 novembre 2011

Berlusconi dimesso: la Storia agli occhi dei giovani

Oggi è una giornata storica. Non è mia intenzioni dare valutazioni politiche, né scrivere bugie su quello che sarà il domani. Un domani difficile, di un paese che, anche senza Berlusconi, è sull'orlo della bancarotta. Ma è indubbio che il 12 novembre del 2011 entrerà nei libri di storia.



Dicevo: non voglio dare giudizi – almeno su queste pagine – sul significato politico dell'addio di Berlusconi. Commenti, editoriali, valutazioni più o meno oggettive le leggeremo domani sui giornali, le troviamo già ora su Twitter o negli speciali di Ballarò o La7, le sentiremo per giorni nei bar e sugli autobus. Voglio solo riflettere sul significato emotivo dell'uscita di scena di un personaggio che, sul tetto d'Italia, ha vissuto per quasi diciotto anni.

Noi giovani abbiamo imparato ad avere ricordi sbiaditi della Storia italiana. Un'immagine che ci arriva dai libri e, per gli episodi recenti, dai racconti dei nostri genitori. Noi che eravamo piccoli quando Craxi veniva bersagliato di monetine fuori dall'hotel Raphael, noi che al Parlamento abbiamo sempre visto le stesse facce, alternate a qualche volto nuovo, piombato dal nulla, ma con le stesse idee dei gerarchi di governo ed opposizione. Certo, noi giovani non siamo così sconsiderati dal credere che con Berlusconi scomparirà d'improvviso la vecchia politica, quell'odioso sistema di casta che ben conosciamo. Ma, vedendo questa sera la Storia camminare su un colle di Roma, anche noi ci siamo resi conto di una fantastica verità: nulla è eterno, e tutto può cambiare. Non è la soluzione, ma un buon punto di partenza per il nostro futuro.

giovedì 20 ottobre 2011

La morte di Gheddafi

Questo blog è uno sfogo. Si presta a fraintendimenti, contiene linguaggio scurrile.
Nessuno vi obbliga a leggere. Ma prima di fraintendere, potete sempre commentare.

Berlusconi bacia la mano di Gheddafi (marzo 2010!!!)

Verrà un giorno in cui ricorderemo il nostro passato, e parleremo delle morti di Saddam Hussein, Osama Bin Laden e Mu'ammar Gheddafi. Tre uomini simbolo, tre protagonisti – per quanto diversi – della storia di Novecento e primi anni Duemila. Tre uomini che l'Occidente, in diversa maniera e più o meno sotto la luce del sole, ha appoggiato e sostenuto, salvo poi voltar loro le spalle, quando la contingenza lo chiedeva. L'Occidente, questo cavaliere oscuro che si dipinge senza macchia, che vuole esportare la democrazia nel mondo. Come se la democrazia fosse esportabile, calabile dal cielo come le bombe. Questi Bin Hussein Gheddafi, déi del male, questi bastardi dittatori, ora finalmente cadaveri, impiccati, cibo per pesci, col volto sfigurato dal sangue. Che bella la democrazia; che bell'insegnamento per i nostri figli queste mille piazze Loreto, il volto di Nemesi – come una statua con la torcia sulla skyline di Manhattan -, in una buca fra il fango di Sirte. Vendetta è fatta! Giustizia per il mondo libico, per i cittadini di Iraq. Per le famiglie che piangono sulle macerie delle Twin Towers e scorrono il dito su un atlante, che stracciano la cartina dell'Afghanistan, e la calpestano, e ci sputano sopra. Vaffanculo, la democrazia! Vaffanculo perché non ha memoria, perché festeggia la morte di Gheddafi, come fossimo tifosi allo stadio, come se Roberto Baggio non avesse sbagliato il rigore nella finale dei Mondiali del '94. Vaffanculo, io non riesco ad essere felice perché è morto Gheddafi, e sì che lo odio con tutte le viscere, e sempre l'ho odiato.. io ho ancora la nausea per la prostituzione di Roma, quando uno stato schiavo s'inchinava ad un dittatore. Ho la nausea per i bambini afghani uccisi dalle bombe d'Occidente. Ho la nausea per l'umanità, e la nostra democrazia che è schiavitù inconsapevole, di un sistema oligarchico, fatto di petrolio, bombe e puttane. Fa tutto schifo, e la morte di Gheddafi non cancellerà questo schifo.  

lunedì 10 ottobre 2011

Sotto il melo

Sono ostaggio di altri pianeti, confinato nella clessidra del tempo che scorre. E sacrifico proprio voi, miei adorati Epitaffi Viventi!
Verrà il tempo di mele più rosse, che cresceranno anche su questi rami, che non posso - né voglio - dimenticare.

Pazienza, fantasia e tempo. Soprattutto tempo. Ditemi che di tempo ne ho ancora a valanghe.. e che potrò in eterno essere il Conrad Siever del web.

Per ora, ho iniziato anche a collaborare con un Magazine online, che, se dovessi banalizzare, definirei 'locale' o 'della mia regione'.
Lo scovate qui: http://www.larotaliana.it/
e qui i miei articoli: http://www.larotaliana.it/home/le-cronache/itemlist/user/232-danieleerler.html
Nel mio piccolo, ne vado fiero.

venerdì 1 luglio 2011

Picturarum adoratores


Nel 388, Agostino d’Ippona collocava i picturarum adoratores (gli adoratori delle icone) tra le categorie di cristiani più superstiziosi che illuminati. Allora il fenomeno era poco diffuso, ma stava per incontrare una certa fortuna soprattutto in Oriente. Immagini miracolose, prese come oggetti di culto, che si diffondono sempre più, sino a divenire una vera minaccia per l’ortodossia. La conseguenza, nell’VIII secolo ma ancora altre volte nella storia, sarà la tendenza opposta, l’iconoclasmo. Gli storici sanno come questa tendenza sia stata anche, in parte, una disfida strumentale; lo devo dire per non sembrare troppo sprovveduto come studente di Storia, ma l’argomento di questo mio blog - come amo saltare di palo in frasca! - è in realtà un altro.

*

Torniamo ai giorni nostri, ma non usciamo dal recinto dei picturarum adoratores. Quali sono le icone d’oggi? Non mi riferisco più alla religiosità: sia un bene o un male, ormai la religione sta perdendo sempre più le sue influenze sulla cultura di tutti i giorni. Sia un bene o un male, dicevo: credo che di per sé è sia un bene sia un male. Un bene, perché sappiamo i danni sociali che una religiosità troppo impregnante, al di là persino delle concezioni evangeliche, ha fatto in passato. Un male, perché il Cattolicesimo - volenti o nolenti - portava con sé una serie di valori, che dovrebbero essere il retroterra comune di qualsiasi uomo, cattolico o ateo, ma che solo il timore di Dio riusciva davvero a diffondere. Almeno idealmente, sia chiaro, non è questo il momento di discutere quanto la pràxis si potesse discostare da un ritratto così semplicistico, come quello che sto abbozzando.
Ma torniamo al punto: chi sono allora gli adoratori di icone di oggi? Siamo noi donne ed uomini così attaccati, ancora, al culto dell’immagine. Che falsità! Che ignoranza! Siamo sempre più superstiziosi, e sempre meno illuminati. Le nuove icone sono le riviste patinate, le orde di modelli impazziti usciti dai balletti di ‘Ciao Darwin’. Ecco: ‘Ciao Darwin’; avete presenti quegli scimmioni nel pubblico, che si mettevano ad ululare durante le sfilate di intimo? Da bambino li guardavo con un certo divertimento, credevo fossero degli attori pagati per fare i deficienti. Dei clown!
Ecco l’amara scoperta: quei deficienti li sto ritrovando, ora, persino sui banchi della mia Università. Sono ancora una minorità, per fortuna, ma c’è un concetto che ancora sfugge dalla mia logica: come può una persona che ama studiare, ama la cultura, anche fino ad arrivare al punto quasi masochistico di iscriversi ad una facoltà umanistica, togliersi poi la maschera ed essere uno scimmione? Bene, c’è davvero qualcosa che non va nel circolo universitario. Credo si sia arrivati al punto in cui si premia sempre più il nozionismo, e sempre meno la cultura. L’alto flusso di studenti lo impone. Ma ecco allora che alla laurea non arriva più solo l’élite culturale del Paese, anche gli scimmioni riescono ad avere una carriera di studi apparentemente brillante. Non mi spiego altrimenti come possa essere testimone di certe discussioni da deficienti, che odo ahimè anche nei cortili della mia università.

*

Agostino d’Ippona. Ciao Darwin. Università. Bene: mi rendo conto che questo mio intervento è stato sin troppo delirante, ben al di là dei miei soliti standard. Ma, sotto sotto, un senso per me lo ha. Se mai diventerò professore universitario - un sogno -, devo ricordarmi mentalmente un dogma: non sono (solo) le nozioni a far lo studente; sempre più è importante, fondamentale, in una società deviata e deviante, riuscire a fare il salto di qualità. Un universitario deve iniziare a studiare anche la cultura della vita e la cultura del pensiero. Non può essere il prodotto di uno stampino, che lo incanala in un flusso di pensieri formulati da altri. Non può essere uno schiavo delle icone. Un picturarum adorator.

Ma non pretendo di aver esaurito l’argomento con queste righe, in realtà sono solo uno sfogo.

mercoledì 29 giugno 2011

Parole, parole, parole

Oggi pomeriggio camminavo per andare in biblioteca, quando, passando vicino all’oratorio del mio paese, ho sentito provenirmi delle note a me controvoglia ben note! “BOOOMBA, A MOVIMENTO MUY SEXYYY, SENSUAAL”.. Ho dato un’occhiata al cortile, ed ho visto decine di bambini che ballavano in gruppo la canzone (“SENSUAAAAL”). In un oratorio, ribadisco. Oh come sono cambiati i tempi!

*

Non vorrei fare alcun moralismo, in fondo se c’è qualsivoglia malizia la vedrebbero solo gli adulti, non i bambini (che si stavano solo divertendo). Però mi ha fatto pensare al difetto tutto italiano di giudicare le canzoni solo per l’aspetto musicale, a non far caso ai testi. Forse una canzone che inneggia alla sensualità non è proprio la più adatta per dei bambini ed un oratorio, non perché lo credo io, ma perché probabilmente, se ci facessero caso, lo crederebbero gli stessi preti che in quell’oratorio hanno dimora. Ma che importa..la canzone è allegra, e tanto basta!

*

Mio padre ha letto un tempo che se gli italiani avessero compreso appieno i testi dei Beatles, avrebbero avuto un po’ meno del successo che hanno effettivamente avuto. Mi sembra un discorso un po’ banale, a dire il vero, perché forse proprio la semplicità dei loro testi è stata una delle chiavi proprio della loro presa sul pubblico. E, nella loro straordinaria capacità di variare, i Beatles sono riusciti a passare con coscienza da testi effettivamente di poco valore, come quello di “Love Me Do”, a poesie come “The Long And Winding Road” o a inni per la libertà, come “Revolution” Beh, inutile che mi perda in odi ai Beatles, non era questo il senso del mio intervento. Credo però che effettivamente se gli scarafaggi di Liverpool avessero parlato di cacciaviti e brugole, di banane e lamponi o di Amore, per l’italiano degli anni Sessanta non sarebbe cambiato nulla.
Fortuna che anche in Italia son nati i cantautori, gente come De Andrè, Dalla, De Gregori, Guccini, eccetera eccetera, che hanno provato ad insegnare anche agli italiani che la Musica può essere uno dei veicoli della Poesia. In qualche modo il concetto è passato, ed ancor oggi vediamo masse di persone che sfoggiano la citazione di De Andrè, alternata a quella di Oscar Wilde. Lo faccio anch’io. Giusto dare ai poeti la dignità dei Poeti, anche se si facevano accompagnare da una chitarra. Già i Greci non si scandalizzavano di accompagnare quella che per noi è Letteratura con la Musica.

*

Ma questi sono casi illuminati; la realtà è che la maggior parte degli ascoltatori di musica ormai canta parole senza nemmeno pensare al loro significato. Fateci caso: chiedete a qualsiasi persona di cantarvi l’ultima di Lady Gaga, e saprà probabilmente - anche in modo maccheronico - esibirsi. Ma chiedetegli il senso di quello che sta cantando, e cadrà dalle nuvole. Lo stesso per l’ultima di Shakira; ed è un bene, perché se ne analizzassimo effettivamente il testo (come mi son preso la briga di fare), utilizzando termini filologici approvati dall’accademia della Crusca, potremmo definirla una puttanata. E pure se ne sta lì, nelle prime posizioni della classifica, pronta a farsi modello letterario per centinaia di ragazzine.. O tempora, o mores!

mercoledì 22 giugno 2011

Maturità

Ogni anno seguo l'uscita dei titoli dell'esame di maturità, soprattutto per quanto riguarda la prima prova, con un certo interesse. Da un lato perché i responsabili della scelta cercano sempre di stupire, discostandosi dalla prevedibilità e scovando qualche opera minore (spesso comunque di gran pregio). Dall'altra, lo ammetto, anche perché è una grande gioia vivere l'esame di maturità con distacco, come un qualcosa di lontano e di passato.
Di per sé è un discorso che sembra quasi incoerente, visto che proprio oggi ho affrontato un esame in università. Ma non ho un ricordo positivissimo delle scuole superiori, sebbene mi son reso conto che ciò che ho studiato in passato mi è servito poi molto, ed altrettanto molto mi son pentito di ciò che non ho studiato (per la tipica pigrizia adolescenziale). Credo però sinceramente che non vi sia cosa peggiore dello studio di ciò che non si ama; veramente: lo studio può essere, deve essere, un piacere, un otium, la soddisfazione di una curiosità. Quando diventa un obbligo, allora il suo senso si perde nel circolo delle tante costrizioni della vita. Ho vissuto il mio esame di maturità come il climax di questa fase della vita, in cui tutto sembra un obbligo. Certo: anche affrontare l'esame di maturità mi è servito, ma l'ho capito solo col tempo. Allora mi sembrava lo scempio burocratico di un sentimento vampiristico, in cui il peso del dover conseguire un pezzo di carta mi si incollava al collo come una zecca. Quanto avrei voluto essere libero, anche di studiare (ma per mia scelta!), senza quell'ultimo spasmo di obbligatorietà. Mi sentivo già fuori dalla scuola molto, ma molto, tempo prima di esser dichiarato “maturato”. L'esame di maturità è una selva di radici che tentano di legarti ad un passato che, ormai, è già sfumato altrove.

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Lo ammetto: questo mio commento all'esame di maturità è decisamente esistenzialistico. Forse esagerato nei termini. In effetti l'esame è in qualche modo una prova di vita, che per qualcuno scorre come il dispiego di una formalità, per qualcun altro diventa un ricordo che, più o meno, ritornerà nel corso di tutta l'esistenza (come un fantasma, un incubo). Leggete i giornali in questi giorni, e avrete il vip di turno che vi dirà la stessa cosa. Bene, lasciate che ve lo dica anch'io: l'esame è una prova, e come tale può essere affrontata in mille modi. Sta a voi.
Mi rivolgo direttamente ai maturandi. Il mio consiglio è di prenderla alla leggera, in fondo le vere prove sono altre, e l'esame può essere anche formativo. “Bella forza”, mi risponderebbero questi maturandi “è più facile a dirsi che a farsi!”. Avrebbero assolutamente ragione.

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L'esame, con il suo orribile nome di 'maturità' (uno Stato retto da immaturi ha pure il coraggio di definirmi più o meno maturo? Vergogna!), cinicamente è proprio questo. Una prova. E cos'è l'esistenza se non un insieme di prove?
Ecco che ritorna questa similitudine abusata, e a cui nemmeno io so rinunciare. Lo scoglio artificiale, burocratico, di un esame, attraverso cui le istituzioni vogliono insegnarci ad affrontare gli scogli della vita. Anche dal punto di vista pedagogico, l'esame è proprio questo; non un metro di giudizio: salvo casi particolari, sappiamo che chi è ammesso all'esame ha già aperte le porte per le università o il mondo del lavoro.

*

Mi son divertito ad immaginarmi la commissione che ha scritto le tracce. Mi son figurato questi barbuti vecchiardi, riuniti intorno ad un tavolo di legno, fra libri e fogli di appunti, che si arrovellano a pensare su cosa proporre ai maturandi. Me li vedo: o tutti zitti sui loro fogli sudati, che non riescono a trovare la traccia adatta (che non sia uscita su internet, mi raccomando!), o che litigano fra loro, perché ognuno vorrebbe che il suo autore prediletto fosse oggetto dei commenti degli studenti. Fra tutti, proprio il tema letterario è quello che deve essere ponderato meglio: deve essere un tema che possa far riflettere, ma non deve essere scontato.
Mi immagino il vecchio professore di turno che, all'improvviso, si alza urlando “CE L'HOOO! UNGARETTI!!”.. e piovono i fischi degli altri professori: Ungaretti, che banalità! Foglie d'autunno, lui che s'illumina d'immenso; tutte cose già sentite, tutti i siti internet lo hanno già previsto; che poi la guerra non è neanche più di moda! Ora bisogna parlare di facebook. Dei reality show! (“Ehilà”, fa uno, “potremmo proporre un titolo su Andy Warhol!”).
“Ma no colleghi” riprende sicuro il primo tale “Proponiamo il commento alla poesia 'Lucca'!!!”. Silenzio generale. I vari professori si gettano sui loro libri. Uno finge un malore. Lucca? Niente foglie sugli alberi? E chi l'ha mai sentita?
“Colleghi, questa è una genialata! Proponiamo una poesia sull'esistenza, nell'esame di maturità!”. Silenzio, qualcuno bisbiglia. Uno urla: “l'ho trovata! È de 'L'Allegria'!”. “Sì certo, una poesia sulla vita, data all'esame di maturità, che è una prova di vita..”, riprende il primo “i sentimenti legati ad una città, che fanno da sfondo ad una riflessione più piena sul senso dell'esistenza. Fino alla morte”. I vari professori si guardano fra loro. Uno inizia ad applaudire. Un altro si accoda. In pochi minuti sembra di essere allo stadio, tutti che applaudono, qualcuno si alza. Standing ovation. Quello che aveva finto il malore si rianima. La traccia è scelta.

*

Domani c'è la seconda prova. Ai miei tempi scelsero una versione di Seneca che persino alcuni latinisti faticarono a tradurre. Miei cari maturandi, se ce la fate, fregatevene altamente! Sono gli ultimi spasmi di cinismo, di un sistema che vi avrà ancora per poco. Poi va beh, lì fuori c'è la vita. E quella è tutta un'altra storia. Chiedetelo ad Ungaretti!

lunedì 10 gennaio 2011

Borghezio e le sue stronzate

Esistono provocazioni che colgono il segno, nella loro anche stupidità, riescono a far parlare del personaggio che le ha poste. C'è chi ci gioca, come il Povia di 'Luca era Gay'. Ma ci sono provocazioni che superano il confine, e divengono 'stronzate'. Ecco: quella di Borghezio oggi ("L'Abruzzo? è un peso per l'Italia, dopo il terremoto") è solo una stronzata. Non dovrebbe trovare spazio su siti e giornali, e nemmeno sul mio blog (ci casco anch'io). Semplicemente, gli uditori diretti di questa stronzata dovrebbero rispondere indignati, quale sia il loro colore politico, "COSA STAI DICENDO?".
Ecco, io non sono Borghezio, e me ne vanto. Ma se fossi in lui, chiederei scusa all'intelligenza altrui (di tutti tranne "me"), e tacerei per sempre. Ha superato il limite, ed un Paese giusto dovrebbe farglielo capire, innanzitutto smettendo di ascoltarlo. "C'è Borghezio, vuole parlare, andiamocene."

Si possono avere sessantatré anni, ed essere così stronzi?

mercoledì 5 gennaio 2011

A contro B

Utilizzando i ben noti social network, ultimamente mi son accorto di un atteggiamento diffuso. Forse era già presente da tempo, ma l'ho notato solo di recente, perché ci son cascato sempre più anch'io. E' il bipartitismo esasperato: il voler opporsi ad una supposta fazione avversa a tutti i costi, esaltando la propria in maniera tale da non concepire posizioni diverse. Credo l'influsso derivi da una spettacolarizzazione della politica: un bipartitismo che estremizza le ideologie, e che trasforma salotti televisivi - di dubbia intelligenza - in campi di battaglia. E così, poi, nella vita di tutti i giorni: gattofili contro cinofili, windows contro apple, iphone contro android, jazzisti contro metallari, vecchi contro giovani, lavoratori contro studenti, polentoni contro terroni, italiani contro stranieri, etcetera. Tutto questo in un venir meno della bellezza delle contaminazioni, dell'esaltazione delle diversità, e - soprattutto - del rispetto per i gusti e le peculiarità altrui. E' un pericolo sociale che si sta connaturando sempre più negli istinti delle genti, e che mi rattrista e spaventa allo stesso tempo.

PS: questo era il post n.100. Direi che posso dirmi soddisfatto: sto riuscendo ad aggiornare con costanza il blog; ed ho perfino attirato i commenti di qualche incauto visitatore occasionale!

venerdì 8 ottobre 2010

Generazione di muti

Sono in biblioteca, accanto a me decine di persone. Non ne so i nomi, rifuggo nei miei libri, non ne odo nemmeno le voci, spente dagli auricolari e le note d’una chitarra. Dovrei chiedere ad ognuno come sta, cosa sta studiando, scambiare opinioni su ciò che sto leggendo. Ed invece nemmeno li guardo, m’infastidisco persino se qualcuno dei loro sguardi scivola al di là dei fogli ed incrocia il mio. Siamo stati educati al rispetto della solitudine dei pensieri, alla mancanza di comunicazione; siamo una generazione che sta crescendo di fronte agli schermi; nei salotti il profumo del caffè e le risate sostituite dal volume d’un televisore, dall'asetticità di ingranaggi senza sentimenti. Veri sentimenti.
E così mi rendo conto di non saper più parlare, di non voler più parlare; nel futuro saremo tutti muti, come i ciechi di Saramago, ed anche le ultime tracce dei Romantici si ritrovano solo nei blog, su facebook, su twitter. Ma senza nemmeno un commento, virtuale almeno, perché i Romantici rifuggono dalla comprensione dei più; si guadagneranno al massimo un ‘mi piace’, due parole elementari, primitive, ma che hanno perso ogni loro significato.
Pubblico sul blog, chiudo il computer, vado in bagno. Potrei davvero essere muto, e nessuno se ne accorgerebbe.

martedì 25 maggio 2010

Momento di riflessione..


Italian shop-keepers, businessmen and judges are not the only victims of organised crime networks such as Cosa Nostra, the Camorra, the ’Ndrangheta, and the Sacra Corona Unita. Journalists and writers also find themselves in the line of fire as soon as they try to cover the Italian mafia. One of them is Roberto Saviano, author of the book Gomorra, who is forced to live under permanent police protection.

In all, some 10 journalists work under police protection. There have been hundreds of cases of threats, anonymous letters, vandalised tyres, and torched cars. Every journalist writing about these criminal groups has been watched at one time or another. Lirio Abbate, 38, correspondent in Palermo, Sicily, for the news agency Ansa, and author of I Complici (The Accomplices), also lives under permanent police protection. This is also the case, since March 2008, for Rosaria Capacchione, a 48-year-old journalist working for more than 20 years for the leading Naples daily Il Mattino, who covers the Camorra and who, like Roberto Saviano, is being hunted by the Casalesi clan. And their work, with all the risks that accompany it, gets no support from Prime Minister Silvio Berlusconi. In November 2009, he said he wanted to “strangle” writers and filmmakers who give Italy a bad image by focusing on the mafia.

fonte:

http://en.rsf.org/predator-organised-crime,37265.html

domenica 21 febbraio 2010

Sanremo 2010 ed il principe di sta fava..



« Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt'altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda "Io tu e le rose" in finale e ad una commissione che seleziona "La rivoluzione". Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi. »

Notte tra il 26 ed il 27 febbraio 1967, Hotel Savoy, a Sanremo. A scrivere queste parole, a quanto pare, fu Luigi Tenco. Poco dopo si sarebbe sparato, sempre secondo una versione ufficiale, che qualcuno fra l'altro ancora mette in dubbio. Sono passati più di quarant'anni, eppure il cosiddetto Festival della Musica Italiana ancora si accompagna di critiche, in un certo senso così vicine a quei giorni.
La vicenda che quest'anno tiene banco - oltre alla nota squalifica di Morgan per "apologia all'uso di droghe" - è la partecipazione di Pupo, con Emanuele Umberto Reza Ciro René Maria Filiberto di Savoia ed il tenore Canonici. La canzone dell'amabile trio, un inno fra il patriottico ed il nazionalista, non solo è stata ammessa in concorso (a differenza delle opere di, fra gli altri, Zucchero, che aveva scritto per Mietta, o Cristiano De Andrè), ma - attraverso il voto popolare - si è classificata seconda.
Ciò che personalmente mi sorprende non è poi solo la partecipazione del nipote di Umberto II (e non perché è un Savoia, ma perché - bastava sentirlo - non è un cantante), ma il fatto che il pubblico abbia votato una canzone che fa schifo. Tutto ciò mi porta a due ipotesi:
number one - gli amabili savoiardi hanno investito parte del loro capitale in ricariche telefoniche, e si sono bruciati le dita (loro, o più probabilmente, di qualche servo-plebeo) in sms;
number two - il pubblico di votanti è un pubblico di deficienti.
Con buona pace di Canonici (lui sì sa cantare, ma probabilmente ha un basso senso del pudore), credo che per far arrivare seconda quell'aborto di "Italia Amore Mio" sia stata necessaria la congiunzione dei due fattori che ho sopra sintetizzato.
Poco importa, questa canzone scivolerà facilmente nell'oblio, come - mi aspetto - quella del vincitore Scanu (che nel curriculum vanta la partecipazione di Amici, dove non ha nemmeno avuto la decenza di vincere). Perlomeno ieri nessuno si è sparato, ma gli orchestrali - che di musica ne sanno - hanno strappato gli spartiti. Quel secondo posto del Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro (sì, è sempre Emanuele Filiberto) è, più che un insulto ideologico, un'offesa alla dea Musica.
Ma Sanremo è il posto dove il pubblico ha eliminato Tenco, ed ha portato in finale Io e te le rose. Bisogna accettarlo, nella convinzione che le radio e le vendite premieranno le vere canzoni vincitrici del festival (quelle di Noemi, Irene Grandi e Malika Ayane).

mercoledì 27 gennaio 2010

27 gennaio

Ci sono dei rischi a mio avviso nel concetto di “giornata della memoria”, non che celebrare un ricordo e farlo ammonimento sia di per sé sbagliato, né oso erigermi a voce fuori dal coro. Premetto insomma, per non essere frainteso, che è giustissimo ricordare l'anniversario della liberazione di Auschwitz come giornata che ispiri alla riflessione sulle tragedie e le colpe dell'umanità.
Ma il primo rischio è di stigmatizzare un evento passato e sentirlo nel ricordo come un qualcosa di distante, avvenuto ineluttabilmente quasi fosse un peccato originale. Una macchia che è giusto condannare, ma che appartiene ad una cultura sbagliata e così lontana. Come il massacro dei nativi americani, che probabilmente ormai le nuovissime generazioni dimenticano in media come la stessa data della scoperta dell'America.
E' vero che ciò che è accaduto è un parto (anzi, un aborto) di un preciso momento storico, che come tale è irripetibile per filo e per segno. Ma questo non significa che anche oggi non avvengano nel mondo soprusi, genocidi, colpe di un'umanità crudele e sempre costantemente colpevole. Nel mondo ci sono dei momenti in cui l'opinione pubblica viene presa e scrollata, attimi in cui chi è sempre così cieco si sveglia all'improvviso. Il 27 gennaio 1945 è successo proprio questo, ed è giusto che una volta all'anno l'uomo si ricordi di quanto faccia schifo. E' un po' quello che è successo ad Haiti a causa del terremoto, che non ha fatto altro che massacrare e squarciare una popolazione che stava già morendo di fame, svegliando un'opinione pubblica che prima quando sentiva la parola Caraibi pensava solo a spiagge bianche e scenari da favola.
Il secondo rischio di una “giornata della memoria” è quindi direttamente conseguenziale: è quello di prendere un simbolo come quello della Shoah, e dimenticarsi di tutto il resto. Il 27 gennaio che diviene il momento di una catarsi – nel senso aristotelico -, il momento ovvero in cui il Mondo si ferma a ricordare la tragedia più grande, per uscirne purificato e con la coscienza rinata. Come il bambino che il 24 dicembre se ne sta buono, perché Babbo Natale sta arrivando e non sia mai che porterà del carbone con sé! La differenza, in realtà, è che la colpa di un bambino può essere solo quella di essere un po' discolo..la colpa di certi uomini, invece..

Il 27 gennaio non deve insomma diventare il pretesto per dimenticare ricordando, o ricordare per nascondere. Non dev'essere solo il giorno in cui si riflette sulle parole di Anna Frank o Primo Levi, ma il punto di partenza per vivere amando il bene ed odiando il male. Il 27 gennaio, come ogni giorno.

venerdì 25 dicembre 2009

So this is Christmas..

Ieri sera, durante la processione di ingresso della celebrazione, una persona non equilibrata, tale Susanna Maiolo, di 25 anni, di cittadinanza italiana e svizzera, ha superato la transenna e, nonostante l'intervento della sicurezza, è riuscita a raggiungere il Santo Padre e ad afferrarne il pallio, facendogli perdere l'equilibrio e facendolo scivolare a terra. Primi commenti nel mondo politico. Di Pietro dice che in fondo se l'è cercata; gli risponde l'on. Cicchito, il quale indica come mandanti morali Travaglio ed Annozero. Il Santo Padre ha rassicurato: "State sereni, l'amore vince sull'odio".
uh no.. credo di star facendo un po' di confusione!

Buon Natale a tutti!

mercoledì 23 dicembre 2009

Riflessione sulla casta politica italiana.

"Ci sono un bel po' di piedi di mulo lì in mezzo, disse.
Come?
Piedi di mulo. Direi che ci sono parecchie centinaia di capi solo di quelli, e non è una varietà di maiali facile da trovare.
Cos'è un piede di mulo? chiese Holme.
Il mandriano socchiuse gli occhi con aria professionale. E' un maiale di montagna che viene dal nord della regione. Ne avete mai visto uno?
No.
Ha il piede come quello di un mulo.
Volete dire che non ha lo zoccolo fesso?
Niente fessura, già.
Io non l'ho mai visto, un maiale del genere, disse Holme.
La cosa non mi sorprende, commentò il mandriano. Ma potete vederne uno adesso, se vi interessa.
Mi piacerebbe, disse Holme.
Il mandriano cambiò di nuovo appoggio all'asta. Sembrerebbe che questo non sia in accordo con la bibbia, che ne dite?
Di che cosa?
Di quei maiali. Del fatto che sono animali impuri proprio perché hanno il piede fesso.
Questa non l'ho mai sentita, disse Holme.
Io l'ho sentito predicare in un sermone, tempo fa. Da un tizio che la sapeva lunga sull'argomento. Disse che il diavolo aveva il piede come quello di un maiale. Sosteneva che questo era scritto nella bibbia, perciò immagino che sia vero.
Eh sì.
Diceva che per questo un ebreo non mangerebbe mai carne di porco.
Cos'è un ebreo?
Sono quel popolo antico di cui parla la bibbia. Ma questo non spiega la faccenda dei maiali piedi di mulo, no? Cosa dobbiamo pensare?
Non lo so, rispose Holme. Cosa dobbiamo pensare?
Be', è un maiale o no? Stando alla bibbia.
Io direi che un maiale sarebbe un maiale anche se i piedi non li avesse proprio.
Sarei anch'io di questa idea, disse il mandriano, perché se mai avesse i piedi ti aspetteresti che fossero piedi di maiale. E' come dire che se tu avessi un maiale senza testa sapresti comunque che è un maiale. Ma se ne vedessi uno andarsene in giro con una testa di mulo, rimarresti proprio senza parole.
E' vero, assentì Holme.
Sissignore. E' una cosa che fa pensare parecchio, a proposito della bibbia, e anche a proposito dei maiali, no?
Già, disse Holme.
Ho studiato parecchio la faccenda, ma non mi riesce di arrivare a una conclusione né in un senso né nell'altro.
No.
Il mandriano si accarezzò la barba e annuì. Già i maiali sono un mistero per conto loro, disse. Cosa sappiamo, del maiale? Non molto. E' da quando ero alto così che vano in giro con i maiali, eppure non sono mai riuscito a capirli davvero. E sono sicuro che tanti altri hanno avuto la stessa esperienza. Un maiale è un maiale. Puro e semplice. E questo è tutto quello che possiamo dire di lui. E sono furbi, non pensate che non lo siano. Furbi come il diavolo. E non fatevi ingannare se ne trovate uno che non ha il piede spaccato, perché è diabolico anche lui."

Cormac McCarthy, Il buio fuori, Torino: Einaudi, 1997, pp. 182-183 (traduzione di R. Montanari da C. McCarthy, Outer Dark, 1968)

mercoledì 14 ottobre 2009

Leggere: altra forma di sessualità umana

Talvolta dandomi in pasto alla retorica (cosa che faccio spesso, soprattutto quando scrivo!, e c'è chi mi critica per questo), riconosco che esistono dei libri che cambiano la vita di chi li legge. Credo sinceramente che qualsiasi essere avulso alla lettura, e di conseguenza al pensiero, perda la possibilità di scoprire una parte migliore di sé. Non nego che esista un altro tipo di cultura - la cosiddetta cultura di vita - di cui un illetterato è spesso più colto di un accademico. Ma l'Arte (intesa in ogni sua essenza: anche quella figurativa, ma non solo) è la sola strada per un certo tipo di piacevole intelligenza. Si tratta di un sapere che può sì sfociare nell'erudizione, ma che trova la sua prima linfa nell'istinto umano di ricerca del piacere. Leggere Oscar Wilde è un qualcosa di diverso dall'avere un orgasmo, ma qualcosa anche di maledettamente simile.
L'uomo legge per conoscere, aumentare la propria capacità di raziocinio e la propria cultura, così come l'uomo si dà al sesso per salvare la propria specie! L'obbiettivo finale, che è tutto per i teorici o gli studiosi del mondo, è un pensiero in realtà nemmeno sfiorato nella praticità. Verrà il giorno in cui ognuno di noi si darà al letto solo per far nascere vita dal seme, ma prima di quel momento c'è sempre quello - se non si è puritani o maledettamente teofili - in cui si insegue solo il piacere. Il piacere, e talvolta (in alcuni spesso) il piacere unito all'amore (o anche l'amore è un'altra forma del piacere? argomento interessante, ma non posso svilupparlo ora).
Ecco: credo che nella lettura non vi sia nulla di dissimile. Si può consacrare la vita ad essa, solo se ci si dedica innanzitutto per proprio gusto, per proprio desiderio, perché se ne ha bisogno. Finché si crede che si debba leggere per dovere - o fare l'amore per necessità riproduttive - allora si perde veramente il gusto per l'atto. Se invece ci si abbandona pienamente alla ricerca del piacere, ed al piacere che inevitabilmente deriva (non credo a chi sostiene il contrario), i sensi - ancor prima dell'intelligenza - ne riescono appagati.
Ed ecco il motivo per cui credo che certi libri cambino la vita. Sì, leggere Edgar Lee Masters è come farsi fare un pompino dall'anima gemella (sarebbe piaciuta l'immagine a Fernanda Pivano?): un'esperienza criticabile solo da chi non l'ha mai provata. C'è una piccola linea che corre fra l'immensità di un libro, l'immensità dell'esperienza sessuale, l'immensità dell'amore: questa linea è il Desiderio dell'istinto umano, che è come un'autostrada di nervi che danno vita all'uomo. E solo la soddisfazione del piacere può poi portare al reale appagamento.

PS: se c'è qualcuno che mai leggerà queste parole, in commento può - oltre alle sue osservazioni - appuntare qualche titolo di libri che gli hanno cambiato la vita. Che bello sarebbe ricavarne dei consigli! Per conto mio, due titoli li ho già sottointesi: sono l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Einaudi) ed Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (varie edizioni).

martedì 8 settembre 2009

Libertino fra gli eruditi

"Un detto attribuito a un egotista di chiara fama come Lord Byron fa colpo su di me con la sua melliflua saggezza, riassumendo in sole sei parole quello che già allora mi sembra un dilemma morale di insuperabili proporzioni. Con una certa audacia strategica, lo cito ad alta voce alle compagne che mi resistono sostenendo che sono troppo intelligente per certe cose. – Studioso di giorno, - le informo – dissoluto di notte -. Scopro presto che è meglio sostituire “dissoluto” con “voglioso” – dopotutto non mi trovo in un palazzo veneziano, ma in un campus nel Nord dello Stato di New York, e non mi posso permettere di sconvolgere queste ragazze più di quanto già non faccia con il mio “vocabolario” e la mia crescente reputazione di “solitario”. Leggendo Macaulay per Inglese 203, mi imbatto nella sua definizione di Steele, il collaboratore di Addison, e “Eureka!”, esclamo, perché ecco un’altra prestigiosa giustificazione per i miei alti voti e i miei bassi deliri. “Un libertino fra gli eruditi, un erudito fra i libertini”. Perfetto! Me lo attacco in bacheca, accanto alla citazione di Byron, subito sopra i nomi delle ragazze che ho in mente di sedurre, una parola le cui più profonde risonanze non derivano per me dalla pornografia e nemmeno dai rotocalchi, ma dalla tormentata lettura di Enten-Eller di Kierkegaard."

Philip Roth, The Professor of Desire, 1977
ed. italiana Il professore di desiderio, 2009
Einaudi Editore, traduzione di Norman Gobetti

martedì 19 maggio 2009

Ai bordi della strada

L’idea che lo sforzo creativo e le sostanze che alterano la mente siano strettamente legate è una delle grandi mistificazioni pop-intellettuali del nostro tempo. I queattro scrittori del ventesimo secolo il cui lavoro è soprattutto responsabile di questa mitologia sono probabilmente Hemingway, Fitzgerald, Sherwood Anderson e il poeta Dylan Thomas. Sono gli autori a cui dobbiamo principalmente la nostra visione di una landa esistenziale di lingua inglese, dove le persone si sono isolate individualmente in un’atmosfera di strangolamento emotivo e disperazione. Sono concetti molto familiari alla maggioranza degli alcolisti; la reazione comune a essi è divertita sufficienza. Lo scrittore tossicodipendente è nient’altro che un tossicodipendente, sono tutti in altre parole comunissimi ubriaconi e drogati. La pretesa che droghe e alcool siano necessari per sopire una sensibilità più percettiva non è che la solita stronzata auto giustificativa. L’ho sentito dichiarare anche a conducenti alcolisti di spazzaneve, che bevono per zittire i demoni. Non importa se sei James Jones, John Cheever o un barbone avvinazzato che russa alla Penn Station; per un intossicato, il diritto al liquore o alla droga che ha scelto va semplicemente preservato a tutti i costi. Hemingway e Fitzgerald non bevevano perché erano creativi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché è quello che fanno gli alcolisti. Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili di altri all’alcolismo e alla dipendenza dagli stupefacenti, e allora? Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada.

[S. King, On Writing, Sperling & Kupfer, 2001, pp. 92-93]

Dedicato a chi ancora si autogiustifica. Non a me stesso, per fortuna.

lunedì 23 marzo 2009

D'improvviso io scenderei (in tre non si può)

Esiste un concetto morale in un concerto, che lo strumento non può tacere, fingere, scappare. Lo strumento è parte: un’orchestra muore dentro, se un singolo spigolo si stende e diviene cerchio. Non si può scendere dal treno quando viaggia, il fiato che si mozza e la claustrofobia che sale, non può essere peggio della carne che si sfalda sui binari. Sicché non si può: l’etica d’una realtà che trasale, s’accorge di evadere dall’illusione di un mito che non esiste. Chi m’assicurerà che l’universo è infinito, mentre il mio si spegne? E la sera si torna se stessi, pensare, pensare, pensare. Ieri ho incontrato Rosita.
Sicché si ha la sensazione di dovere, di dover spiegare perché non si sa perché, di dover motivare un pensiero nato dalla mente. Chi mi dice che la mente è razionale ha già ceduto alla morte, ha dimenticato cos’è vivere. Ogni volta che penso d’aver paura della mia carne che si sfalda cedo alla morte, e così non salto mai. Ed è etico che io non salti, perché esploderebbe l’orchestra. Ed io al concetto morale del concerto tengo, perché se viene meno, non potrebbe che essere un danno per me.
Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto è ciò che io penso. Perde ogni senso la spiegazione, perché non esiste verità più sacrosanta di quella del narratore. Io sono il dipinto di un ordine superiore, e voglio elevarmi a capo burattinaio. Voglio stendere i fili intorno a me, da strumento divenire direttore d’orchestra.
Dannata Ippolita, ingravida, disgrazia di Otranto: io voglio Isabella, la giovane fanciulla. Sarò per lei l’incestuoso padre, accoglierò il peccato. Finché sono Manfredo non esiste peccato, il futuro dei miei figli o il piacere di quell’istante. Non chiedetemi perché, dal momento che non v’è altra spiegazione che la mia mente. Ed il mondo è governato dal mio pensiero, sicché per me non esiste altro mondo, se non il mio. Voglio Isabella. Ho scelto lei.

venerdì 31 ottobre 2008

Riforma (1)

Il Sole 24 Ore del 30 ottobre ha pubblicato il testo completo del decreto legge 137/08, comunemente noto come riforma Gelmini, che coinvolgerà le scuole italiane. Sottintendo, quindi, che nel suddetto prospetto non è presente alcun riferimento alle Università, di cui il ministro ha dichiarato s’occuperà nelle prossime settimane. Eppure, leggendo i giornali, apprendiamo di proteste che partono decisamente proprio dalle Università, con tanto di occupazioni illegali delle sedi, con privazione del diritto di studio a chi se ne vuole servire. Al di là di quante effettivamente siano le persone in piazza, è chiaro che l’argomento è diventato di enorme attualità, tanto da oscurare nei dibattiti mediatici argomenti di ulteriore importanza, quali le elezioni statunitensi, la recessione economica o i vari casi di cronaca nera, con relativi esiti giuridici. Viene istintivo pensare che le proteste siano ideologiche, o comunque fortemente politicizzate, ed effettivamente bastano le dichiarazioni di taluni a comprovare questo sospetto. Ma sarebbe assurdo credere che tutti coloro che protestano siano effettivamente strumenti d’opposizione al governo, o nostalgici di movimenti di un passato prossimo, ma socialmente remoto. E’ onesto notare che c’è chi effettivamente ha dei motivi per protestare, siano essi condivisibili o meno.
Eppure il decreto Gelmini non parla d’Università, come detto. Lo fa, piuttosto, la legge finanziaria (la 133, proposto dal ministro Tremonti già ad agosto), che specifica nel comma 13 dell’articolo 66, che “il finanziamento ordinario delle università, e’ ridotto di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. Dei tagli motivati, naturalmente, dall’indisponibilità di fondi, che deriva da un generale malessere economico, ma anche naturalmente da altre scelte politiche del governo (com’è naturale che sia, anche in questo caso siano esse condivisibili o meno).
Dei tagli evidenti, quindi, ma che non sono ancora stati motivati. Quel che ancora non è chiaro (e lo diventerà probabilmente dal lavoro del ministro Gelmini nelle prossime settimane) è se i previsti tagli andranno ad individuare gli sprechi, in una gestione meritocratica della ricerca e dell’Università in genere, o se saranno generalizzati, andando a colpire un settore di per sé già in crisi.
E’ in crisi certo per mancanza di fondi, ma anche per una gestione che è stata errata in passato (con qualsiasi partito al governo). Qualche esempio: l’Università di Bologna ha una sede distaccata a Buenos Aires (che qualcuno ha messo ironicamente all’asta su ebay), alla Sapienza di Roma si sono spesi 223.200 euro per ridisegnare un logo, ed i casi di spese inutili, a carico dello Stato, potrebbero essere certamente più numerosi. Sono dati oggettivamente condivisibili e condivisi: sorprende, quindi, che i tagli siano così osteggiati, in quanto in realtà potrebbero, dalla vera e propria riforma dell’Università (che ancora non è stata presentata), essere indirizzati alla diminuzione dei suddetti sprechi, senza oneri per chi garantisce un servizio di studio e ricerca qualificato. Non vedo, quindi, il senso di una protesta per un provvedimento ancora non attuato, in un movimento che sfocia quindi nella strumentalizzazione ideologia più bieca o nella disinformazione.