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giovedì 9 settembre 2010

[REC] Stephen King, L'acchiappasogni

Quando ci si abitua a certi standard qualitativi, è difficile poi prendere con serenità un passo falso.



Stephen King non è mai stato uno scrittore che ha scritto particolarmente bene, se prendiamo, intendo, come metro valutativo l'estetica del linguaggio utilizzato. Il motivo è banale: la sua è una narrativa d'evasione, non ha l'interesse un po' accademico - un po' edonistico - di colpire il lettore con ogni singolo vocabolo utilizzato. La sua è pura fiction, del tipo che per di più vanta la scritta "best seller" in copertina. La sua è certo una narrativa un po' di genere, fra horror e fantascienza, ma è comunque letta da un pubblico vasto, e non selezionato. E' il discount della narrativa, e questa sua caratteristica è stata in passato il motivo di critiche poco lusinghiere; ci si deve però rendere conto che non esiste solo la narrativa - o sarebbe meglio dire la letteratura - con la N o la L maiuscole. Esiste la narrativa che non è un piacere intellettuale, ma un piacere sensoriale. Quella che ti lega alle pagine non perché ti accresce culturalmente, ma perché ti fa passare il tempo, perché ti attrae, perché…semplicemente "ti piace la storia".
In appendice al libro che sto recensendo, L'Acchiappasogni (2010,  Sperling&Kupfer, ed. or. 2001), è riportata una citazione dello stesso King, che in parte avvalla questa mia premessa: "A me interessa aggredire le emozioni dei lettori, scipparle. Non credo che i libri debbano essere una questione intellettuale. Il mio lavoro è quello di farvi bruciare la cena mentre leggete. Se poi spegnete la luce e avete paura che ci sia qualcosa sotto il letto, bene." Ecco, nelle sue parole ben si spiega ciò che intendo. E' un discorso che non mi sento di condividere in pieno - i libri, o almeno alcuni libri, sono esattamente una questione intellettuale! -, ma che esprime con precisione lo stile di King. E della maggior parte degli autori di narrativa.
Ed allora dove stanno quegli standard qualitativi, di cui parlavo in apertura? Se non nell'estetica della scrittura - beh, piccola precisazione: King sa scrivere, ed anche molto bene… ma non è né un Oscar Wilde, né un Saramago; e nemmeno vorrebbe esserlo -, sicuramente nella capacità d'inventare. Non nella cornice, ma nella sostanza. Non è uno scrittore barocco, il suo talento lo si trova nella straordinaria capacità d'evocare storie, incubi ed emozioni. Si leggano It (1986) e Misery (1987), probabilmente i suoi due capolavori del filone orrorifico, per comprendere appieno quale sia il dono che lo ha reso così celebre.
Sorprende quindi che L'Acchiappasogni abbia un intreccio meno riuscito, quasi un gioco sarcastico di citazionismo, in cui si riprendono canoni propri di certa fantascienza, e li si fa propri in un contesto originale e non sempre efficace. Così la possessione aliena avviene attraverso l'incorporamento di esseri mostruosi, definiti dai protagonisti come "donnole di merda" (sic!), che si palesano attraverso le nauseabonde scoregge (di nuovo sic!) degli sfortunati impossessati. Di tutti, sia chiaro, tranne uno dei protagonisti, Jonesy, che la presenza aliena - definita Mr. Gray, ed è ancora una citazione - riesce solo a controllare a livello intellettuale, provocando allucinazioni e deliri. Fintantoché lo stesso Jonesy rimane seduto in una sorta d'ufficio nel suo cervello, il controllo alieno avviene anche sul fisico di Jonesy (che è così costretto a macchiarsi di svariati omicidi). Ma mentre Mr. Gray inizia la sua umanizzazione scoprendo il fantastico mondo del bacon (ancora sic!), con l'aiuto di Duddits - un ritardato, conosciuto nell'infanzia, ma che ha straordinari poteri telepatici - Jonesy riesce infine a ribellarsi, in uno scontro finale che avviene in un'immaginifica situazione allucinatoria. A condire il tutto, ci si mette anche Kurtz, un pazzo che misteriosamente è a capo dell'operazione militare contro gli alieni, e che decide di ordire una disinfestazione di massa, uccidendo tutto ciò che è entrato in contatto con le presenze extraterrestri (e con un virus, che gli umani chiamano Ripley - citazione da Alien -, e gli invasori chiamano - che originalità! - byrus), compresi animali, civili e soldati. La situazione evolve insomma in una sorta di lungo inseguimento, con alla testa Jonesy controllato da Mr.Gray (che vuole raggiungere una torre dell'acqua, per diffondere attraverso essa il virus), alle spalle Henry (amico di Jonesy, con cui è anche in contatto telepaticamente), Duddits, ed Owen (un soldato che si è ribellato a Kurtz). Da ultimi, lo stesso Kurtz, che si vuole vendicare di Owen.
Il riassunto rende l'idea di quale sia la storia dietro le pagine del libro. E' un po' ingiusto, perché forse ridicolizza una narrazione che è in alcuni tratti costruita magistralmente (soprattutto quando si parla dell'amicizia fra i protagonisti, un tema che King tratta spesso, e sempre con competenza). Ma la trama non è mia invenzione, ed anche mentre si legge ci si rende conto che talvolta si esce un po' dal seminato. Spiace dirlo, da assoluto fan di Stephen King da tempo immemore, ma forse in questo libro si è verificato ciò che Seth MacFarlene aveva stigmatizzato con la solita irriverenza in un episodio della sua Family Guy (in italiano, I Griffinvedi lo spezzone cliccando qui ). Al sottoscritto il libro è comunque piaciuto, e sicuramente soddisferà molti dei fan dello scrittore americano. Ma non mi sentirei di consigliare questa lettura a chi si vuole avvicinare a King, non avendo mai letto nulla prima.

Stephen King, L'acchiappasogni, Milano: Sperling&Kupfer SuperBestSeller, 2010 (ed. or. Sperling&Kupfer, 2001, da Id., The Dreamcatcher, 2001)




in vendita a 11.90 € (a settembre 2010)

mercoledì 21 luglio 2010

Psyco


Piano piano cerco di costituire questo blog, in modo che contenga miei pensieri che possano essere di qualche interesse generale. Ci sono dei casi in cui lascio tracce di miei fatti personali, come è lo stile di gran parte di altri blog (che sono dei veri e propri diari, esibiti in pubblica piazza come esige internet). In genere, cerco però di metterci del mio in argomenti e materie che possano anche interessare altri. So benissimo che questo spazio non è ancora propriamente pubblico: per diventarlo dovrebbe avere la pubblicità che forse si meriterebbe. Per ora riceve solo le visite costanti del suo padrone, ed un sacco di stimoli che ho cercato di lanciare non sono stati ancora colti. D’altronde è ciò che mi aspettavo: perché qualcuno dovrebbe venire a leggere ciò che scrivo? No, per ora non c’è motivo.


Ci sono essenzialmente due aspetti che mi spingono comunque a continuare a credere in questo blog. Uno: per me stesso; scrivere qualsiasi cosa ha sempre avuto per me un effetto terapeutico. Inoltre, come ho già avuto occasione di scrivere altre volte, amo rileggere miei pensieri del passato, riconoscermici, vergognarmici, avere nostalgia di un altro periodo della mia esistenza. So che un giorno, magari fra anni, tornerò probabilmente a rileggere queste parole. Lo spero, quanto meno, perché significherà che sarò ancora di questo mondo.

Ma, come detto, c’è anche un secondo aspetto. Citando Calvino: “scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto”. Ecco, io ho ancora l’illusione un po’ puerile che un giorno qualcuno sarà interessato a me, tanto da voler leggere ogni mia elucubrazione. Bene, non so se quel giorno sarò ancora come adesso, spero sarò di certo migliorato; ma qui potete ancora trovare traccia di ciò che un tempo ero. Ovvero, ciò che sono adesso mentre scrivo. Spero non potrà essere usato contro il me del futuro, piuttosto a favore.

Dopo la grande parentesi in cui mi sono occupato dei Mondiali di Calcio, è quindi ora di trarre il blog verso nuove direzioni. Come forse son riuscito a far capire in altre occasioni, ciò di cui amo particolarmente scrivere sono gli argomenti culturali. Non sempre con la stessa competenza, e mai per volermi dipingere forzatamente come intellettuale. Il mondo della letteratura, della storia, della filosofia, della musica mi attirano sinceramente. Oltre a tutte queste arti e conoscenze, ce n’è però una di cui sinora non mi sono occupato. Ammetto che non è un caso: anche se mi attrae quanto gli altri argomenti, riconosco una mia maggiore ignoranza in esso. Mi riferisco alla cinematografia, arte di relativa recente fattura, ma che ormai è inscindibile dal concetto di civiltà, tanto che è oggi perfettamente riconosciuta anche nel più ristretto mondo accademico. In Europa si avverte forse più la sua giovane età, essendo la nostra una storia che trova radici addietro nei secoli. Non è forse lo stesso per gli Stati Uniti, che - se si escludono, come erroneamente si fa sempre, le popolazioni precolombiane - ha culturalmente meno di cui ricordarsi. Il cinema americano gode in patria quindi di un’importanza maggiore di quella che diamo noi al nostro, commettendo così una delle tante ingiustizie culturali di cui siamo colpevoli. Credo sia uno dei motivi per cui il livello estetico e contenutistico dei film che hanno successo commerciale in Italia si è abbassato notevolmente col tempo, seguendo una tendenza che si avvicina sempre più al gusto delle casalinghe di Voghera, e del mondo televisivo in genere. E’ un discorso complicato, sempre difficile da fare in termini generali (il cinema italiano intelligente c’è ancora, così come in passato c’era quello meno impegnato - come per altro è giusto che sia, la varietà non è mai da condannare -), anche perché ribadisco non ne ho le conoscenze adatte. 

Con questa premessa intendo così fare un mea culpa, ed inaugurare la mia seria intenzione d’approfondire l’argomento “cinema e cinematografia” (che è poi il nome del tag, come si definisce appunto l’argomento di ogni scritto di un blog). Lo faccio oggi scrivendo, con l’incompetenza di cui sopra, del film Psyco (or. Psycho, 1960, Alfred Hitchcock. Soggetto: R. Bloch, Sceneggiatura: J. Stefano). Ciò che mi ha sempre colpito di questo film, confrontato poi con certi abomini recenti (ricordo di aver visto, fra gli altri, The Eye di Gutierrez o House Of Wax di Collet-Serra), è la capacità di incollare lo spettatore allo schermo, con un sentimento di gran lunga più coinvolgente del disgusto di certe scene splatter: l’inquietudine. E’ ciò che in ambito narrativo sa fare, forse come nessun altro, Stephen King (fra tutti l’esempio migliore è quello di Misery, ed.it. Sperling&Kupfer, 1987; poi portato anche sul grande-schermo nel 1990 da Goldman e Rob Reiner, con una magistrale Kathy Bates - che ha meritato oscar e golden globe per la sua interpretazione -, ma come non citare Shining, e la versione cinematografica di Kubrick e D.Johnson, con un immenso Jack Nicholson). E’ la lezione che nel passato hanno saputo insegnare maestri come Lovecraft e Poe. La paura, ed appunto la tensione, la drammaticità e l’inquietudine, sono tutti sentimenti più o meno istintivi dell’ambito umano: sono sensazioni ancestrali che cerchiamo di dominare con l’età adulta, ma che possiamo solo celare dietro muri di consapevolezza. Invece è sempre parte di noi, più o meno a seconda del carattere, della sensibilità e dall’esperienza, ma comunque parte di noi. Risvegliarla in un contesto di finzione, come quello del film, è la migliore forma di catarsi: è il provare un’emozione forte, nella sicurezza del divano di casa, una forma diversa di quanto già i Greci amavano fare con il teatro. Non è facile svegliare certi sentimenti: Hitchcock ci riesce appieno, con la complicità di Anthony Perkins e le musiche di Bernard Herrmann (sì, gran parte del merito va a loro) e la sua capacità di regista. Psyco è un film che va visto, e rivisto ancora, per affrontare alcuni degli incubi che sono dentro di noi, e scoprirne altri che magari ignoravamo. Per tutti gli amanti del thriller e dell’horror, sia nel cinema sia nella narrativa, rimane una lezione magistrale.