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domenica 6 maggio 2012

Il Bar dei Quattro Venti


«Facciamo una passeggiata
Laggiù, sulla spiaggia
so che presto ti sposerai
e desideri sapere da dove vengono i venti»

Hanno aperto il Bar dei Quattro Venti. Ci servono cianuro in vasche da litri, e si paga solo con il sangue. Nikky ha il suo sgabello, bordato di rosso, si appoggia al banco e finge di avere l'aria di un uomo vissuto. Tutta finzione, nei suoi occhi si vede la fragilità di chi si sente solo, senza autostima, e sconfitto dal passato. La barista non lo chiama ancora per nome, ma quando lo vede sa che potrà guadagnarci. Nikky di sangue ne ha molto; beve “dic'otto lune”, e poi versa la sua emoglobina, pagando sino all'ultima goccia.

Ma accanto a lui non c'è mai nessuno che possa capirlo. Nikky vorrebbe solo essere abbracciato, lasciare che il tempo si fermi, divenga tutto buio. Vorrebbe tornare d'improvviso bambino, fingendo che non sia successo mai nulla. Vorrebbe sentirsi stordito ma soccorso, e chi se ne importa dei litigi, degli errori, delle parole e della gelosia; ogni tanto bisognerebbe solo smettere di parlare, e trasformare ogni sillaba in una nota. Se tutti diventassimo una canzone, pensa Nikky, ci si potrebbe mescolare in un concerto, e superare tutte le limitazioni di una vita piatta, che ferma i battiti del cuore per lasciare troppo spazio ai limiti della mente. Nikky si uccide di alcool perché ha troppo amore da dare, vorrebbe solo qualcuno pronto a raccoglierlo. Solo?

Quando Nikky siede sul suo sgabello al Bar dei Quattro Venti, quando diviene una cosa sola col legno e la sua umidità, ciò che lo circonda è solo uno sfondo. Vede gente impolverata che corre, gli sembra che siano tutti coperti di ragnatele. In quelle occasioni il bisogno di Mary esplode; la mente inizia a pensare a lei, le narici a cercare il suo profumo, le labbra a cercare il suo contorno da assaggiare. E il resto del corpo, ogni singola parte, cerca quei brividi di un tempo. Sensazioni che ora sono immaginazione. In quei casi tutto sfuma, e lui non riesce a smettere di cercarla.

Poi le porte si chiudono anche al Bar dei Quattro Venti. La leggenda dice che da quel posto si possa uscire solo da morti. Nikky non può sapere se è vero. È passato un mese da quando Mary se ne è andata, e lui non ha più ripreso a vivere davvero. Si sente come un gesso spezzato, senza una lavagna su cui scrivere. E vorrebbe tanto essere abbracciato.

vedi:

sabato 7 aprile 2012

Cadendo come pioggia

Nikky aveva riprovato con le strisce pedonali su per il naso, come quando, qualche anno fa, aveva pensato di uccidersi impiccandosi con una corda di chitarra. Allora si chiamava Jonathan, ne è passato di tempo. Ora di corde ne ha sei, quindi potrebbe tagliarsi la gola con ognuna di esse, ed ogni tanto sembra davvero la via più facile, soprattutto di notte, soprattutto quando nelle orecchie ha quel vuuuu che ricorda il mare di Ἀγκών. Pensava di avere un cervello nella testa, non si era mai accorto di averne uno anche nel petto, uno nel profondo dello stomaco, ed uno fra le gambe. Quello fra le gambe è il più facile da zittire, basta una mano. Per gli altri ci vuole molto di più. A volte basta un mare d'inchiostro, in cui affogare ogni pensiero con la fantasia. Il fuoco d'anice a volte serve, ma il whisky può anche peggiorare le cose. Ed allora si prova con la farina, sistemata su un tavolo marrone di una casa in zona industriale, al di là del torrente, ed il vuu diventa d'improvviso un bum. Bum bum bum bum bum. Il battito di un muscolo che passa nelle vene, irrora il cervello, si scontra sul timpano. È in quei momenti che Nikky può davvero tuffarsi nel vuoto, scoprire ogni fibra del suo tessuto, sentire le arterie che s'ingrossano, ed essere felice di non poter uccidere Mary. Anche col conforto di due occhi blu, a volte vicinissimi che li puoi sfiorare, a volte così lontani, con due occhi che non si vedono anche quando sono aperti, con le fantasie di una strada che odora d'asfalto anche con il cellulare acceso ma zitto. Anche con le carezze di una puttana coi capelli appena lavati, che gli sussurra «lasciati andare, e a te ci penserò io. Almeno questa notte». Quando la coca arriva al cervello, in quel momento in cui si supera il confine dell'intelligenza, e ci si sente pienamente vivi al di sopra di tutto, anche lì, Nikky capisce di non voler premere il grilletto, di non saper sparare. È in quei momenti che re-impara a sorridere. Ed inizia a cantare una vecchia canzone dei Decibel. Io ripeto anche a chi non chiede niente. Lei è uscita, tornerà immediatamente. Non è così, non sei più qui. Poi, di solito, Nikky si siede, si preme il pollice sulle vene del braccio per sentirle battere. E battono forte, così forte, e sussurrano sempre lo stesso nome. E l'immenso si chiama Mary, così bello quando lo hai affianco, l'immenso sembra diventare ancora più straordinario quando è lontano, e lo puoi solo immaginare, invidiare, volere.

L'altra notte Nikky si è svegliato sudato, con la testa che girava. Si è messo le scarpe tagliate, il chiodo, e scappando, coperto dal rumore di chi russava nella camera accanto, si è gettato nel nulla della notte. È andato sino al torrente con una bottiglia di Chardonnay. Un pescatore, con la barba che puzzava di sigaro, gli ha chiesto dove stesse scappando.
«Vado a parlare con l'Avisio, vecchio», gli ha risposto Nikky.
«È la prima volta, capellone?».
«Sì vecchio. Ho assaggiato quest'acqua da poco, ma non so se era il torrente ad essermi parso dolce, o chi mi era accanto, asciugando le mie lacrime.»
«Non c'è nulla più dolce di quest'acqua, ragazzo.»
«Ti sbagli vecchio, c'è Mary.»
«È lei che ti ha portato qui?»
«È lei, ma sono stato anch'io.»
«È sempre una lei che ti porta qui.»
«Anche tu, vecchio?»
«Anch'io». Ed il pescatore ha alzato gli occhi al cielo per nascondere il riflesso d'una lacrima.
«Non è più tornata, vero?»
«Per questo sono ancora qui. Tu cosa vuoi, capellone?»
«Cosa voglio?»
«Cosa chiederai al torrente?»
«Che Mary sia felice, è questo che m'importa».
«Sciocco! Attento a quello che vuoi, perché potrebbe diventare realtà.»
«Questa l'ho già sentita, vecchio. Anni fa, avevo una corda di chitarra, e tante illusioni.»
«Lei potrebbe essere felice senza di te.»
«Lo so, vecchio».
«È questo che vuoi?»
«Sì. No. Non lo so. Vorrei che fosse felice con me.»
«E tu sei in grado di renderla felice, ragazzo?»
«Un tempo forse sì. Ora non lo so più.»
«Sai cosa devi fare, capellone?»
«Vorrei saperlo.»
«Devi capire cosa vuoi. E se davvero la vuoi…»
«…la voglio!»
«…se davvero la vuoi, preparati a poterla rendere felice, se tornerà.»
«E se non tornerà?»
«Allora…»
«No, non lo voglio sapere!»
«È giusto, ragazzo. Combatti per quello in cui credi. Ed ora va, il torrente ti aspetta.»

Su queste rocce viene la tentazione di fumare. Per vedere come le nuvole di fumo possano intingersi nell'acqua, quasi a fare l'amore. Ma Nikky non ha mai fumato. È strano che non lo abbia mai fatto, è strano come gli sembri assurdo uccidersi con della cenere, ma non si preoccupi di mascherare la Sorella Nera di whisky, in un bicchiere senza ghiaccio. Quella notte però aveva solo del Chardonnay, una bottiglia intera in realtà, e a pensarci bene lo faceva sembrare molto più raffinato di quello che era davvero Non si sentiva più quel dandy che aveva finto di interpretare, in altri momenti, e con altri progetti. Ora si sentiva piuttosto truffato dai mercanti di sogni, con le guance sempre un po' troppo calde, e una nausea che lo spingeva quasi a vomitare. E mentre Nikky iniziò a bere, d'un fiato, il torrente iniziò a parlare.
«Ogni sorso di quel vino è uno strale conficcato nel tuo petto lì sulla sinistra, dove tu che hai un cuore lo senti pulsare fino alla gola».
«Lei non mi ha mai detto» urlò Nikky al torrente «che non sapevo bere».
«Perché ora hai lo sguardo di cera, e tramuti in lacrime ogni cazzo di pensiero che hai? In passato hai pianto per chi nemmeno ricordi più come si chiama. E non sai più nulla di loro, sono passate come un livido che si cancella con il tempo, lasciando una leggera cicatrice che si fa sentire sempre meno.»
«Forse sono tutte morte nel mio fottuto fiume di lacrime, annegate dalla loro mente paranoica, suicide del loro essere troie ben oltre le ossa, fin dentro la più recondita profondità delle viscere.»
«E Mary?»
«Lei è un'altra cosa. Continuo a sognare il suo collo fra le mie mani, quella pelle ch'io un tempo sfioravo di baci.»
«Vorresti quella carnagione così candida da sembrare latte divino sotto la presa forte delle tue dita, per togliere al mondo il peso del suo respiro sul tuo cuore così spezzato?»
«No, cazzo, non potrei vederla morire, vorrei baciarla ancora, accendere per sempre i suoi occhi coi miei, e sentirla ancora implorare il mio nome.»
«Patetico stronzo!»
«Non ho mai avuto la capacità di prendere tutto alla leggera. Anche se so scherzare.»
«Anche su questo?»
«Sì anche su questo!»
«Su, dai, scherza..»
«Non ho mai scherzato con un corso d'acqua…»
«C'è sempre un momento per iniziare.»
«E c'è sempre un momento perché le cose finiscano?»
«Sì c'è.»
«Ed è questo il momento?»
«Sono solo un torrente, io non lo posso sapere.»
«Perché la tua acqua continua a scorrere?»
«Perché evapora, e ritorna come pioggia».
«Mary tornerà?»
«Solo se si trasformerà in pioggia, e tu sarai ancora lì, pronto a mescolarti con lei.»
«Mi ha detto che è troppo tardi!»
«Quand'è troppo tardi perché l'acqua torni ad essere acqua, e perché l'Amore torni ad essere Amore?».

Quando tornò a casa quella notte, Nikky aveva la febbre alta. Si mise a letto, prese un foglio bianco, ed iniziò a scrivere. Tremando, per l'astinenza dello zucchero da naso, e l'astinenza non solo di quello. Iniziò a scrivere, aspettando che Mary lo venga a trovare sul greto, se mai tornerà, almeno per passeggiare insieme, e perché lui le possa presentare il vecchio pescatore. Le sue prime parole furono: «Nikky aveva riprovato con le strisce pedonali su per il naso».

(ogni riferimento a persona o a fatti realmente accaduti è puramente casuale)

sabato 31 dicembre 2011

Whatever will be

«Vedo che i giovani d'oggi s'industriano con ogni mezzo a dimenticare il tempo vivendo un eterno presente senza passato e senza futuro. Ma non è facile dimenticare il tempo. Noi ne siamo intrisi, la nostra identità è nutrita dal sentimento del tempo, la nostra differenza da tutte le altre specie viventi consiste in quel sentimento che soltanto a noi è riservato.» E. Scalfari

Odio ed amo questa mia personale tradizione, di fare un bilancio della mia vita ogni primo gennaio (più o meno, oggi è il 31, non stiamo a sindacare). Credo siano molti che, molto tristemente, ogni nuovo calendario s'accorgono che un altro anno è passato. Che il tempo scorre, e non lo si può fermare. Per me non è un dramma, è solo un cambio di calendario, uno fra i tanti che ancora mi aspettano. O almeno lo spero.

***

Bene, è una tradizione, quindi. Lo è diventata; è dal 2009 che rendo pubblico ciò che penso di me, ogni inizio di anno nuovo. Da cosa posso partire, per fare un bilancio? Ovviamente dal rileggere ciò che scrivevo gli altri anni:

2009  //  2010  //  2011

Mi fa uno strano effetto rileggermi. In primis, perché mi rendo conto che sono un mare di retorica. Non sempre, sia chiaro, ma forse il parlare di me stesso mi rende più melodrammatico. Ed anche un po' triste. Forse preferisco semplicemente scrivere degli altri, di personaggi veri o inventati, raccontare storie altrui, non la mia. Perché quando ci si guarda dentro è sempre un po' pericoloso, il rischio è di trovare lati che non pensavi di avere, oppure che tenevi nascosti, tappandoti le orecchie a più non posso. Va beh, facciamolo.

***

Retorica, appunto. Quella che mi spingeva l'anno scorso a ripromettermi di tuffarmi nel mare, rischiando di rompermi le ossa o di nuotare finalmente. L'ho fatto? Ma va! Non potevo sperare davvero che il 2011 cambiasse la mia vita. Per farlo, avevo bisogno di un numero pari. Il 2012 è l'anno giusto! Come suona bene… duemilaedodici…duemilaedodici… lo ripeterei per un anno intero… duemilaedodici… Quando ti sei laureato? Nel duemilaedodici! Bingo!

Non lo credo davvero. Non credo che sarà il prossimo, l'anno della svolta. Però, a quanto pare, sarà davvero l'anno della mia laurea. Se i Maya non metteranno lo zampino, anticipando di qualche mese la fine del mondo, l'anno prossimo sarò un dottoredelbucodelculvaffanculvaffancul. Non male, primo obiettivo raggiunto, ranger. La missione continua.

***

Tempo di bilanci, allora. Cosa c'è stato davvero di buono nel 2011? Ho conosciuto nuove persone, ed ho trovato nuovi stimoli. Di per sé ho continuato a percorrere la stessa identica strada, ma finalmente qualcuno si sta accorgendo di me. Non miro affatto ad un riconoscimento, ma che qualcosa mi venga riconosciuto, non posso fingere che non mi faccia piacere. Sto trovando nuovi spazi per esprimermi, nuove pagine bianche da riempire, nuovi mondi da esplorare (la missione continua, appunto). 
Accanto a me ho sempre la luce di quello stesso faro, sempre più luminosa. Non è una candela, è una costellazione di immensità, è un universo di irrazionale potere. Senza lei non sarei io, l'io di adesso. Penso questo, questa è la mia idea.

***

Allora, per il nuovo anno per una volta non mi auguro un cambiamento. Non per forza qualcosa che sconvolga la mia vita. Intanto, mi basta continuare così. Poi… que sera, sera, whatever will be, will be.

domenica 2 gennaio 2011

MMXI


"Perché sono stanco, come se fossi in viaggio da sempre?"

Scrivo il tradizionale pensiero per l'anno nuovo (come nel 2009 e nel 2010) con un umore un po' strano. Sarà la stanchezza di una bellissima giornata, con le emozioni che si è portata con sé. Sarà sempre questa sensazione di dover riscrivere le stesse cose degli anni scorsi: che nulla è veramente cambiato, che mi mantengo lì sull'orlo d'un trampolino che non posso saltare. Saranno mille altre cose, compresa quella sensibilità di cui a volte farei volentieri a meno. Però inizio ad essere un po' stufo. Non è forse caratteristica dei ventenni essere stufi? Ed io ventenne lo sono, ventitreenne ad esser preciso, con tutto quel bagaglio d'insicurezza che caratterizza chi vede il futuro sempre in bilico. Uno studente, fra l'altro. Un umanista, per giunta. Quasi rassegnato a dover essere su quell'orlo di trampolino di cui scrivevo prima.
Ma ora sono stanco; stanco di dover sempre dire che il 2010 non è stato poi così diverso dal 2009. Un anno pieno di tante cose, emozioni, bei momenti, risate e lacrime. Ma in cui nulla di me è all'apparenza mutato. Voglio tenere ciò che di costante adoro, la mia ragazza innanzitutto. Ma poi voglio anche decidermi a dare uno scossone, a provare a fare qualche tuffo. O riuscirò finalmente a nuotare nel mare, o mi romperò delle ossa. Ma il primo di gennaio del 2012, a dodici mesi dalla fine del mondo (a cui ovviamente non credo), vorrei poter scrivere che c'è qualcosa di diverso. Che qualcosa si sta muovendo.
Cosa? Non lo so ancora, ho appena iniziato l'anno nuovo.

mercoledì 29 dicembre 2010

Le Chat


foto di Susanna Alessandrini

martedì 14 dicembre 2010

Gli ebook possono cambiare il popolo? #2

Susanna, nella sua pragmaticità, mi ha suggerito che un lettore rimarrà un non-lettore, sia col supporto cartaceo, sia con l'ebook. Chiaro, il mio blog precedente (questo) era giocato su un filo di utopia ed idealismo. Resto comunque dell'opinione che l'ebook dovrebbe essere meno demonizzato. Ma posso sempre cambiare idea, la discussione l'ho aperta appositamente. Aspetto, ahimè credo inutilmente, altri commenti.

mercoledì 1 dicembre 2010

H-Factor. Ovvero, speranze per il futuro.

Fra i ricordi migliori di quel lungo periodo del liceo, vi era quella settimana di febbraio definita, con una sorta di neologismo, cogestione. Pareva quasi una reminiscenza sessantottina, lontano eco delle occupazioni, in realtà un modo per staccare fra la fine del primo e secondo quadrimestre. In concreto, erano tre giorni (quindi non una vera "settimana") in cui si sospendevano le normali attività didattiche, sostituite da conferenze alternative, in teoria pensate ed organizzate da docenti e studenti. Non tutti i professori, in effetti, erano d'accordo; anzi, in una scuola con quella patina un po' arcaica, quale era - ed in parte è ancora, sebbene già nei pochi anni della mia frequenza le cose siano cambiate non poco - il liceo classico di Trento, si elevavano sempre i cori contrari. "E' solo una perdita di tempo", sbottava la vecchia di turno; lei che uno speciale-parlamento avrebbe dovuto condannare per l'uccisione culturale che portava avanti ogni giorno, arroccata sulla cattedra, con metodi paleolitici, contraria ad ogni ammodernamento (che non fosse l'aggiornamento mensile dello stipendio). In realtà, non è un caso che ricordo ancora quei momenti come i migliori della mia formazione, attimi in cui mi accorgevo di uno dei pregi migliori della cultura…anzi, di più: dell'umanità, della natura, della vita…la varietà. Il saper cogliere stimoli ovunque, l'inseguire il piacere di ciò che piace, l'uscire dagli schemi di programmi-di-studio, di ciò-che-si-deve-fare; cogliere il pregio dell'humanitas, un elevamento dello Spirito, dell'anima. Che gran soddisfazione capire che tutte queste cose erano inarrivabili per quelle stesse vecchie-megere in cattedra. Che bello scoprire che essere giovani significa avere una marea di chiavi, e poi basta solo capire quali sono le porte che possiamo aprire.

Certo, nel concreto questi sono tutti pensieri che ho compreso solo di recente, ammetto che ai tempi il tutto mi sembrava un "modo migliore per cui alzarsi la mattina e andare a scuola". Ma d'altronde credo che molti dei migliori insegnamenti ci arrivano addosso, senza nemmeno che ce ne rendiamo conto.

(Piccolo aneddoto: è proprio durante una di queste conferenze che ho conosciuto Giancarlo Alessandrini, grandissimo disegnatore della Bonelli. Io da appassionato di fumetti, e di Dylan Dog in particolare, avevo vinto la mia proverbiale timidezza, ed avevo chiesto di fotocopiare una tavola dell'Indagatore dell'Incubo, nella versione nata dalle sue chine. Me l'ero portata a casa con gioia ed orgoglio, con tanto di dedica e firma.

Ebbene: qualche anno dopo, per altre strade, ho conosciuto quella che di Giancarlo Alessandrini è la figlia, Susanna, di cui si ritrovano tracce in altri miei interventi nel blog (più o meno esplicite). La stranezza sta nel fatto che in realtà non sapevo delle parentele-celebri di Susanna, con cui nel frattempo avevo avuto qualche flirt. Immaginatevi la stranezza di scoprire la firma del padre sul muro di casa mia, la sera in cui strane coincidenze l'hanno portata a dormire da me.
Tra l'altro, sempre per la cronaca, io e Susanna ora siamo felicemente innamorati, da ormai "quasi" tre anni).

L'atmosfera di quei tempi passati, l'ho ritrovata incredibilmente oggi, presso la mia università. L'iniziativa, dal nome simpatico (ma anche un po' inquietante, nello scoprire ancora una volta quale sia l'influenza televisiva su tutto) di H-Factor, era volta a dar credito alla facoltà umanistica, nei suoi sbocchi lavorativi. Quali sono le possibilità che si aprono per i laureati; quali possono essere i punti d'incontro con le aziende, quali i pregi in genere degli umanisti? Pare un normale incontro orientativo, come molti se ne hanno nelle università, ed ancor prima proprio nei licei. In realtà è il tentativo, difficile, di far comprendere che una laurea in Lettere non significa, a prescindere, un antipasto al sussidio di disoccupazione. E' una crociata che, nei mille dialoghi avuti a riguardo, porto avanti da molto tempo; avere un supporto da chi non si è nutrito di soli sogni, ma anche di pane conquistato da vero-lavoro, è stato il primo aspetto della giornata di oggi.
In pratica: durante la giornata si sono alternati diversi relatori, ognuno portatore (più o meno sano) di una laurea umanistica. Sono stati loro, forti di un'esperienza decennale, a farsi testimoni di come anche il laureato in Lettere può lavorare. Ed ancor più: essere apprezzato, ed aver successo.
Grazie a Alida Caramagno, archivista, Paolo Di Stefano, giornalista de Il Corriere della Sera, e Patricia Chendi, editor di Sonzogno (tutte persone che, più o meno, fanno lavori vicini ai miei sogni), son riuscito  finalmente a capire cosa dovrò rispondere a chi mi chiederà cosa voglio fare nella vita - spesso con un tono sprezzante, e mezzo-retorico -. 

"Io voglio fare l'umanista"

E cioè? non lo so ancora, ma ho ancora una vita per capirlo. E il giorno in cui arriverò a quello sbocco professionale, chissà dove sarà quel tale che mi chiedeva, con curiosità polemica, del mio futuro. Chissà se mi ricorderò ancora di lui, e lui di me.

PS: intanto, io un biglietto da visita me lo son portato a casa. Chissà che.. no beh, meglio non dar ordini al destino!

lunedì 12 luglio 2010

Ti ruberò al cielo stanotte



Tu parlavi spesso del mare,
ora è il mare a parlare,
non vedi che le onde hanno 
il tuo nome, o il tuo nome,
sì il tuo nome è l’eco delle onde.

Tu poi parlavi spesso del sole,
ma il sole s’è spento stasera,
se n’è già andato a dormire,
portandoti via con i suoi sogni
tu che anche il sole fai sognare.

Dovrei dirti più spesso che sei bella
ma che senso hanno queste parole
senza il colore dei nostri occhi,
occhi nati per starsi a guardare.
Ti ruberò al cielo stanotte.