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sabato 5 settembre 2009
Parzialmente liberi

mercoledì 19 agosto 2009
Lutto nel mondo della cultura

http://video.corriere.it?v
Scrittrice, giornalista, traduttrice e critica, nasce a Genova il 18 luglio 1917. A ventiquattro anni - e in piena seconda guerra mondiale - si laurea in Lettere con una tesi in letteratura americana su Moby Dick. Il capolavoro di Melville è la chiave che le apre la porta sul mondo della grande letteratura made in Usa. Nel 1943, pubblica la prima parziale traduzione dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Il suo mentore è Cesare Pavese, già suo professore al liceo D'Azeglio di Torino e il primo di una serie di incontri fondamentali, tra cui quello con il marito, il grande architetto e designer Ettore Sottsass. L'incontro del 1948, a Cortina, è con Ernest Hemingway. Nasce un rapporto di amicizia e di lavoro. Nel 1949, Mondadori manda in stampa la traduzione di Addio alle armi. La Pivano sarà la maggiore curatrice delle opere dell'autore de Il vecchio e il mare.
Il primo viaggio negli Stati Uniti è del 1956. Al suo ritorno, porterà in Italia la poetica, le pagine di letteratura e di vita della beat generation. Di Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e poi William Burroughs. La prefazione a Sulla strada di un certo Jack Kerouac è sua. Negli anni successivi, traduce Allen Ginsberg, ma anche Bob Dylan. Il suo approccio alla letteratura non conosce steccati. Di Fabrizio De Andrè dirà, prima di altri, "è il più grande poeta italiano del Novecento".
I suoi Diari (1917-1973), pubblicati da Bompiani, sono una messe di aneddoti ed episodi tratti da una vita straordinaria. Negli ultimi anni, la Pivano continua a promuovere e a riconoscere il talento dei nuovi narratori d'America: Bret Easton Ellis, Chuck Palahniuk, David Foster Wallace. Il suo amore per la musica la porta a partecipare al video di Luciano Ligabue,Almeno credo, e a partecipare alla realizzazione del disco di Morgan omaggio-remake a De Andrè, Non al denaro, non all'amore né al cielo.
I funerali si svolgeranno venerdì a Genova, nella basilica dell'Assunta in Carignano. La stessa dove si celebro, dieci anni fa, l'addio all'amico poeta De Andrè.
(18 agosto 2009)
giovedì 13 agosto 2009
Delitto e castigo, ovvero rinascita dell’uomo.
Esiste giustificazione al delitto, vi sono attenuanti all’omicidio, esiste una dimensione teorica o pratica in cui ciò che è percepito come moralmente abietto diviene non solo accettabile ma persino doveroso? Ed ancora: cosa spinge la mente a percepire come spregevole un atto, ed al suo compimento sin dove possono arrivare il rimorso della coscienza, l’orgoglio, l’attaccamento alla vita? Si può accettare d’aver ucciso, o l’omicida sarà sempre vittima d’un castigo istintivo; debole, incapace, impotente di fronte alla paura d’esser scoperto, o, ancor peggio, giudicato? Esistono uomini, o meglio superuomini, che sono al di sopra del concetto stesso di delitto? Senza sangue versato, ci ricorderemmo nei libri di storia di Napoleone?
E’ un’inquietante, a volte macabra, (ma non per questo pienamente razionale e legata al suo tempo) filosofia che si nasconde dietro al Delitto e Castigo di Dostoevskij, di cui ho da poco ultimata la lettura. Il delitto dell’ex studente (e la dimensione di colto intellettuale si confonde con l’alta auto-considerazione per la sua intelligenza) Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, che ha ucciso una vecchia usuraia e la sorella (per quanto quest’ultimo sia omicidio non voluto), diviene lo sfondo di una riflessione esistenzialistica di pungente realismo. Non solo: il tutto è inserito in un contesto ben definito, che pare (e probabilmente è) figlio di un celato autobiografismo. La miseria stessa diviene personaggio fra i principali della vicenda, la vita di Pietroburgo, le taverne con i suoi ubriachi, la fame e le malattie. E naturalmente l’ingiustizia, i soprusi, l’usura; il delitto ed il castigo.
Dostoevskij tratteggia, insomma, al di dietro della narrazione un ritratto che per il contemporaneo fu certo di straordinaria attualità, mentre per il lettore odierno un romanzo storico di vita che non rientra nei libri di storia. I dimenticati nel dramma di un’esistenza ai bordi dei vicoli, negli sporchi appartamenti in affitto, affogati nella vodka o imbevuti nel tè. Fra miseria e sentimenti, disperazione e morte, il delitto pare a tratti una svolta sì drammatica, ma incresciosamente naturale. Seppure mai l’autore si schieri apertamente a favore dell’atto del suo protagonista, incentrando gran parte del romanzo proprio sul castigo. Castigo che non è però giudizio, quanto piuttosto conseguenza.
Sono tuttavia i personaggi, nei loro monologhi o nelle serrate discussioni, a suscitare il maggiore interesse della penna di Dostoevskij, attento studioso dell’uomo e dei suoi umori, in un climax di drammaticità che trova il suo apice nelle vicende della famiglia Marmeladov. E’ quest’ultima compagna dell’agire del Raskòl’nikov, ma ancor più sintesi dell’ineluttabile sofferenza umana, accettata però con latente umiltà. Atteggiamento, questo, sintetizzato appieno dalla figura di Sonja, una sorta di angelica peccatrice, di necessità prostituta, ma devota religiosa. Ella pare in effetti l’antitesi del protagonista, essendo questi piuttosto risoluto a risolvere l’apatica sua condizione con il delitto stesso, che assume i connotati dell’iniziazione. La vera colpa che si riconosce non è poi l’omicidio, quanto piuttosto l’incapacità di amministrarne l’esperienza. La finale realizzazione della propria debolezza nel gestire le conseguenze del gesto ed i sospetti altrui, l’appartenenza ad un modello di normalità in cui il delitto è effettivamente delitto. Il riconoscimento che forse proprio nell’atteggiamento di Sonja v’è l’unica possibilità di svolta, sia essa solo una consapevole accettazione, una sorta di servitù alla vita.
Il castigo che porta al rinnovamento dell’uomo, tanto che si potrebbe sospettare che per Raskòl’nikov fosse proprio necessario un atto forte come il delitto, per ritrovare la strada di una rinascita.
martedì 21 luglio 2009
Su "Il campo del vasaio"
domenica 31 maggio 2009
Ultimi libri e articoli letti
Mi piace talvolta fare un elenco, sia come piccola soddisfazione curriculare, sia soprattutto come traccia che leggerò volentieri nel tempo..
ULTIMI LIBRI E ARTICOLI LETTI |
Marco Bettalli, Anna Lucia D'Agata, Anna Magnetto Storia Greca Carocci Editore, 2006 |
Oswyn Murray La Grecia delle Origini Bologna: Il Mulino, 2001 |
Michele Faraguna Alessandro Magno tra Grecia e Asia in Storia d'Europa e del Mediterraneo Salerno Editore, 2007 |
Antonietta Marini Civiltà Micenea e Civiltà Greca: Continuità/Discontinuità in Storia d'Europa e del Mediterraneo Salerno Editore, 2007 |
Dario Fo L'Apocalisse Rimandata (ovvero Benvenuta Catastrofe) Guanda, 2007 |
Oscar Wilde Il Ritratto di Dorian Gray Classici Mondadori |
Horace Walpole Il Castello d'Otranto |
Jacques Le Goff Alla Ricerca del Medioevo Laterza |
Simon Price Le Religioni dei Greci Il Mulino |
Stephen King Blaze Sperling&Kupfer |
Stephen King On Writing Sperling&Kupfer |
martedì 19 maggio 2009
Ai bordi della strada
[S. King, On Writing, Sperling & Kupfer, 2001, pp. 92-93]
Dedicato a chi ancora si autogiustifica. Non a me stesso, per fortuna.
lunedì 23 marzo 2009
D'improvviso io scenderei (in tre non si può)
Sicché si ha la sensazione di dovere, di dover spiegare perché non si sa perché, di dover motivare un pensiero nato dalla mente. Chi mi dice che la mente è razionale ha già ceduto alla morte, ha dimenticato cos’è vivere. Ogni volta che penso d’aver paura della mia carne che si sfalda cedo alla morte, e così non salto mai. Ed è etico che io non salti, perché esploderebbe l’orchestra. Ed io al concetto morale del concerto tengo, perché se viene meno, non potrebbe che essere un danno per me.
Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto è ciò che io penso. Perde ogni senso la spiegazione, perché non esiste verità più sacrosanta di quella del narratore. Io sono il dipinto di un ordine superiore, e voglio elevarmi a capo burattinaio. Voglio stendere i fili intorno a me, da strumento divenire direttore d’orchestra.
Dannata Ippolita, ingravida, disgrazia di Otranto: io voglio Isabella, la giovane fanciulla. Sarò per lei l’incestuoso padre, accoglierò il peccato. Finché sono Manfredo non esiste peccato, il futuro dei miei figli o il piacere di quell’istante. Non chiedetemi perché, dal momento che non v’è altra spiegazione che la mia mente. Ed il mondo è governato dal mio pensiero, sicché per me non esiste altro mondo, se non il mio. Voglio Isabella. Ho scelto lei.
sabato 21 marzo 2009
La Cura
21 MARZO 2008 - 21 MARZO 2009 - ....
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via,
dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti sollleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore
dalle ossessioni delle tue manie.Supererò le correnti gravitazionali
lo spazio e la luce per non farti invecchiare;
e guarirai da tutte le malattie.
Perchè sei un essere speciale
ed io avrò cura di te.[...]
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza,p
ercorreremo assieme le vie che portano all'essenza.
I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi,
la bonaccia d'Agosto non calmerà i nostri sensi.
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto,
conosco le leggi del mondo e te ne farò dono.
Supererò le correnti gravitazionali
lo spazio e la luce per non farti invecchiare;
e guarirai da tutte le malattie.
Perchè sei un essere speciale
ed io avrò cura di te.Sì, avrò cura di te.
venerdì 13 febbraio 2009
Perché ho il diritto di scegliere della mia morte
BENCHÉ il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall' altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia. Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell' altro, ma per protestare contro l' attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d' accordo. Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi? Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza. In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all' esternazione. Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma. Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche). In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas... Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall' eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l' avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un' anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo. Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l' alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita? Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c' è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo. Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere? A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell' umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me. La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all' infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre. La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l' orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l' inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell' inferno. Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell' incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale? Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D' Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l' inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso. E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità? Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l' hanno amata più di quanto l' abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all' amore che una morte può incarnare.
mercoledì 4 febbraio 2009
Il sapere di poter sapere
Mi si conceda la pedanteria, ch’è insieme anche banalità, di specificare che la cultura (così come sopra intesa) non sia di per sé un bene caro a tutti, né un ideale specifico dell’essere umano. Non credo nemmeno, come Cartesio, che l’uomo si caratterizzi per “la raison, ou le sens”, la ragione o il buon senso, essendo invero essi distribuiti in dosi differenti in ogni uomo. Tralasciamo, perché lo riconosceva anche Cartesio, che le contingenze della vita costringano ciascuno ad adattarsi ad un ideale di cultura differente. La cultura delle conoscenze è di per sé sempre stato un bene di lusso. Cosa importerà al contadino di conoscere l’opera di Euripide, e all’affamato di introdursi nella discussione filosofica riguardo Kant? Esempi potrebbero essere fatti anche nella cultura della chimica, della medicina o della matematica, e così via, ma in questo caso sarei il primo a dover ammettere la mia ignoranza (e si ritorna al concetto che conoscere tutto è impossibile). Ritengo, in più, che la capacità di applicazione allo studio sia differente da uomo a uomo, o, ribaltando Cartesio ed estendendo il discorso ad una dimensione ben più generale, che la ragione non sia dote comune a tutti. Per essere concreti, non si spiegherebbero altrimenti taluni fatti di cronaca che sono comprensibili solo perché sinonimi della stupidità umana. Inoltre, penso che la propensione alla conoscenza sia un talento innato, come il canto. Certo, ogni uomo può cantare, ma ci sarà chi vi riuscirà con facilità, e chi sarà stonato, o costretto ad un’applicazione faticosa. In altre parole, ritengo che esista una naturale vocazione anche per gli studi, che è anch’essa settoriale: un professore di storia potrà essere portato per la sua materia, ma del tutto negato nella matematica. E non è un esempio che faccio a caso, dato che ha contorni autobiografici, seppure io sia ancora un apprendista.
Nella storia, poi, alla cultura (ribadisco che, ma sarà l’ultima volta perché ormai credo sia chiaro, intendo sempre l’acquisizione metodica di conoscenze, di un qualsiasi argomento) non si è unilateralmente dato il valore di ideale massimo. Alla colta Atene del V secolo si alternava l’altrettanto mitizzata Sparta, del tutto indifferente (se non qualche sparuto caso) alla cultura letteraria, filosofica, o scientifica, tutta concentrata in un ideale militare che sovrastava del tutto ogni altra pretesa di conoscenza. Gli Spartiati, i cittadini per eccellenza della polis peloponnesiaca, erano dei guerrieri, degli opliti, orgogliosi e patriottici, cresciuti nell’ideale dell’eunomia (buon governo), ma con una scarsa istruzione sia umanistica sia scientifica. Sin da piccoli, erano educati al combattimento, attraverso lo spietato sistema dell’agoghé, che li teneva impegnati per gran parte della vita.
Una volta però specificato che la voglia, la possibilità e la capacità di acquisire cultura non è una prerogativa umana, ma una caratteristica singola, una sfaccettatura del carattere, influenzata da svariate situazioni, in primis sociali, esiste una seconda dimensione, ch’è quella della possibilità materiale di ottenere le informazioni. L’avvento della società informatizzata, con tendenze globalizzanti e la diffusione d’internet, ha permesso all’homo studiens di risolvere questo problema, che ha afflitto generazioni di acculturati del passato. La cultura, per i motivi detti, rimane quindi un bene di lusso, ma di più facile accesso. La diffusione delle biblioteche e delle conoscenze via internet ha esteso la possibilità di sapere ciò che già non si sa, ha dato gli strumenti per una virtuale conoscenza di ciascun argomento.
Oggi, nella realtà di un (più o meno) benestante occidentale, s’è passati ad un sovrannumero di materiale, che rende il lavoro dell’intellettuale certamente più complesso, ma, ritengo, anche più piacevole.
L’operazione della scrematura delle informazioni ridondanti o del tutto inutili, è molto più soddisfacente del riconoscimento di un’incolmabile ignoranza, insanabile per mancanza dei mezzi, e non per l’incapacità d’apprendere.