giovedì 13 agosto 2009

Delitto e castigo, ovvero rinascita dell’uomo.

Esiste giustificazione al delitto, vi sono attenuanti all’omicidio, esiste una dimensione teorica o pratica in cui ciò che è percepito come moralmente abietto diviene non solo accettabile ma persino doveroso? Ed ancora: cosa spinge la mente a percepire come spregevole un atto, ed al suo compimento sin dove possono arrivare il rimorso della coscienza, l’orgoglio, l’attaccamento alla vita? Si può accettare d’aver ucciso, o l’omicida sarà sempre vittima d’un castigo istintivo; debole, incapace, impotente di fronte alla paura d’esser scoperto, o, ancor peggio, giudicato? Esistono uomini, o meglio superuomini, che sono al di sopra del concetto stesso di delitto? Senza sangue versato, ci ricorderemmo nei libri di storia di Napoleone?

E’ un’inquietante, a volte macabra, (ma non per questo pienamente razionale e legata al suo tempo) filosofia che si nasconde dietro al Delitto e Castigo di Dostoevskij, di cui ho da poco ultimata la lettura. Il delitto dell’ex studente (e la dimensione di colto intellettuale si confonde con l’alta auto-considerazione per la sua intelligenza) Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov, che ha ucciso una vecchia usuraia e la sorella (per quanto quest’ultimo sia omicidio non voluto), diviene lo sfondo di una riflessione esistenzialistica di pungente realismo. Non solo: il tutto è inserito in un contesto ben definito, che pare (e probabilmente è) figlio di un celato autobiografismo. La miseria stessa diviene personaggio fra i principali della vicenda, la vita di Pietroburgo, le taverne con i suoi ubriachi, la fame e le malattie. E naturalmente l’ingiustizia, i soprusi, l’usura; il delitto ed il castigo.

Dostoevskij tratteggia, insomma, al di dietro della narrazione un ritratto che per il contemporaneo fu certo di straordinaria attualità, mentre per il lettore odierno un romanzo storico di vita che non rientra nei libri di storia. I dimenticati nel dramma di un’esistenza ai bordi dei vicoli, negli sporchi appartamenti in affitto, affogati nella vodka o imbevuti nel tè. Fra miseria e sentimenti, disperazione e morte, il delitto pare a tratti una svolta sì drammatica, ma incresciosamente naturale. Seppure mai l’autore si schieri apertamente a favore dell’atto del suo protagonista, incentrando gran parte del romanzo proprio sul castigo. Castigo che non è però giudizio, quanto piuttosto conseguenza.

Sono tuttavia i personaggi, nei loro monologhi o nelle serrate discussioni, a suscitare il maggiore interesse della penna di Dostoevskij, attento studioso dell’uomo e dei suoi umori, in un climax di drammaticità che trova il suo apice nelle vicende della famiglia Marmeladov. E’ quest’ultima compagna dell’agire del Raskòl’nikov, ma ancor più sintesi dell’ineluttabile sofferenza umana, accettata però con latente umiltà. Atteggiamento, questo, sintetizzato appieno dalla figura di Sonja, una sorta di angelica peccatrice, di necessità prostituta, ma devota religiosa. Ella pare in effetti l’antitesi del protagonista, essendo questi piuttosto risoluto a risolvere l’apatica sua condizione con il delitto stesso, che assume i connotati dell’iniziazione. La vera colpa che si riconosce non è poi l’omicidio, quanto piuttosto l’incapacità di amministrarne l’esperienza. La finale realizzazione della propria debolezza nel gestire le conseguenze del gesto ed i sospetti altrui, l’appartenenza ad un modello di normalità in cui il delitto è effettivamente delitto. Il riconoscimento che forse proprio nell’atteggiamento di Sonja v’è l’unica possibilità di svolta, sia essa solo una consapevole accettazione, una sorta di servitù alla vita.

Il castigo che porta al rinnovamento dell’uomo, tanto che si potrebbe sospettare che per Raskòl’nikov fosse proprio necessario un atto forte come il delitto, per ritrovare la strada di una rinascita.

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