21 MARZO 2008 - 21 MARZO 2009 - ....
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie,
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via,
dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo,
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti sollleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore
dalle ossessioni delle tue manie.Supererò le correnti gravitazionali
lo spazio e la luce per non farti invecchiare;
e guarirai da tutte le malattie.
Perchè sei un essere speciale
ed io avrò cura di te.[...]
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza,p
ercorreremo assieme le vie che portano all'essenza.
I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi,
la bonaccia d'Agosto non calmerà i nostri sensi.
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto,
conosco le leggi del mondo e te ne farò dono.
Supererò le correnti gravitazionali
lo spazio e la luce per non farti invecchiare;
e guarirai da tutte le malattie.
Perchè sei un essere speciale
ed io avrò cura di te.Sì, avrò cura di te.
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sabato 21 marzo 2009
La Cura
venerdì 13 febbraio 2009
Perché ho il diritto di scegliere della mia morte
di Umberto Eco
BENCHÉ il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall' altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia. Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell' altro, ma per protestare contro l' attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d' accordo. Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi? Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza. In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all' esternazione. Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma. Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche). In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas... Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall' eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l' avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un' anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo. Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l' alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita? Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c' è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo. Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere? A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell' umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me. La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all' infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre. La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l' orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l' inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell' inferno. Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell' incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale? Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D' Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l' inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso. E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità? Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l' hanno amata più di quanto l' abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all' amore che una morte può incarnare.
BENCHÉ il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall' altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia. Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell' altro, ma per protestare contro l' attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d' accordo. Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi? Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza. In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all' esternazione. Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma. Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche). In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas... Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall' eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l' avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un' anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo. Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l' alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita? Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c' è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo. Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere? A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell' umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me. La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all' infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre. La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l' orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l' inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell' inferno. Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell' incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale? Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D' Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l' inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso. E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità? Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l' hanno amata più di quanto l' abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all' amore che una morte può incarnare.
"Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente pò skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no ' l farrà male".
Umberto Eco, "Perché ho il diritto di scegliere della mia morte" in La Repubblica, Anno 34, Numero 36, 12 febbraio 2009, p.1 et p.30
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mercoledì 4 febbraio 2009
Il sapere di poter sapere
Ammesso socraticamente che ci rendiamo conto di sapere di non sapere, ritengo che la grande conquista della cultura occidentale sia il sapere di poter sapere. Sicuramente una conoscenza enciclopedica è impossibile, in vita, a ciascun essere umano, sia esso dotato o meno di particolari doti mnemoniche. Era impossibile nel passato, tanto più oggi, che il bagaglio delle conoscenze umane, delle opinioni espresse, e delle scienze generali (anche l’umanistica è ormai riconosciuta come scienza), ha partorito un impressionante mole d’informazioni, che restano sopite nei libri, negli archivi e nelle biblioteche. Nella mia riflessione tralascio, s’intenda, le esperienze umane, in quanto soggettive e vive per definizione, concentrandomi piuttosto sulla cultura nel senso più materiale del termine, privo d’ogni filosofia, estraneo all’humanitas latina: un archivio che da fisico diviene mentale.
Mi si conceda la pedanteria, ch’è insieme anche banalità, di specificare che la cultura (così come sopra intesa) non sia di per sé un bene caro a tutti, né un ideale specifico dell’essere umano. Non credo nemmeno, come Cartesio, che l’uomo si caratterizzi per “la raison, ou le sens”, la ragione o il buon senso, essendo invero essi distribuiti in dosi differenti in ogni uomo. Tralasciamo, perché lo riconosceva anche Cartesio, che le contingenze della vita costringano ciascuno ad adattarsi ad un ideale di cultura differente. La cultura delle conoscenze è di per sé sempre stato un bene di lusso. Cosa importerà al contadino di conoscere l’opera di Euripide, e all’affamato di introdursi nella discussione filosofica riguardo Kant? Esempi potrebbero essere fatti anche nella cultura della chimica, della medicina o della matematica, e così via, ma in questo caso sarei il primo a dover ammettere la mia ignoranza (e si ritorna al concetto che conoscere tutto è impossibile). Ritengo, in più, che la capacità di applicazione allo studio sia differente da uomo a uomo, o, ribaltando Cartesio ed estendendo il discorso ad una dimensione ben più generale, che la ragione non sia dote comune a tutti. Per essere concreti, non si spiegherebbero altrimenti taluni fatti di cronaca che sono comprensibili solo perché sinonimi della stupidità umana. Inoltre, penso che la propensione alla conoscenza sia un talento innato, come il canto. Certo, ogni uomo può cantare, ma ci sarà chi vi riuscirà con facilità, e chi sarà stonato, o costretto ad un’applicazione faticosa. In altre parole, ritengo che esista una naturale vocazione anche per gli studi, che è anch’essa settoriale: un professore di storia potrà essere portato per la sua materia, ma del tutto negato nella matematica. E non è un esempio che faccio a caso, dato che ha contorni autobiografici, seppure io sia ancora un apprendista.
Nella storia, poi, alla cultura (ribadisco che, ma sarà l’ultima volta perché ormai credo sia chiaro, intendo sempre l’acquisizione metodica di conoscenze, di un qualsiasi argomento) non si è unilateralmente dato il valore di ideale massimo. Alla colta Atene del V secolo si alternava l’altrettanto mitizzata Sparta, del tutto indifferente (se non qualche sparuto caso) alla cultura letteraria, filosofica, o scientifica, tutta concentrata in un ideale militare che sovrastava del tutto ogni altra pretesa di conoscenza. Gli Spartiati, i cittadini per eccellenza della polis peloponnesiaca, erano dei guerrieri, degli opliti, orgogliosi e patriottici, cresciuti nell’ideale dell’eunomia (buon governo), ma con una scarsa istruzione sia umanistica sia scientifica. Sin da piccoli, erano educati al combattimento, attraverso lo spietato sistema dell’agoghé, che li teneva impegnati per gran parte della vita.
Una volta però specificato che la voglia, la possibilità e la capacità di acquisire cultura non è una prerogativa umana, ma una caratteristica singola, una sfaccettatura del carattere, influenzata da svariate situazioni, in primis sociali, esiste una seconda dimensione, ch’è quella della possibilità materiale di ottenere le informazioni. L’avvento della società informatizzata, con tendenze globalizzanti e la diffusione d’internet, ha permesso all’homo studiens di risolvere questo problema, che ha afflitto generazioni di acculturati del passato. La cultura, per i motivi detti, rimane quindi un bene di lusso, ma di più facile accesso. La diffusione delle biblioteche e delle conoscenze via internet ha esteso la possibilità di sapere ciò che già non si sa, ha dato gli strumenti per una virtuale conoscenza di ciascun argomento.
Oggi, nella realtà di un (più o meno) benestante occidentale, s’è passati ad un sovrannumero di materiale, che rende il lavoro dell’intellettuale certamente più complesso, ma, ritengo, anche più piacevole.
L’operazione della scrematura delle informazioni ridondanti o del tutto inutili, è molto più soddisfacente del riconoscimento di un’incolmabile ignoranza, insanabile per mancanza dei mezzi, e non per l’incapacità d’apprendere.
Mi si conceda la pedanteria, ch’è insieme anche banalità, di specificare che la cultura (così come sopra intesa) non sia di per sé un bene caro a tutti, né un ideale specifico dell’essere umano. Non credo nemmeno, come Cartesio, che l’uomo si caratterizzi per “la raison, ou le sens”, la ragione o il buon senso, essendo invero essi distribuiti in dosi differenti in ogni uomo. Tralasciamo, perché lo riconosceva anche Cartesio, che le contingenze della vita costringano ciascuno ad adattarsi ad un ideale di cultura differente. La cultura delle conoscenze è di per sé sempre stato un bene di lusso. Cosa importerà al contadino di conoscere l’opera di Euripide, e all’affamato di introdursi nella discussione filosofica riguardo Kant? Esempi potrebbero essere fatti anche nella cultura della chimica, della medicina o della matematica, e così via, ma in questo caso sarei il primo a dover ammettere la mia ignoranza (e si ritorna al concetto che conoscere tutto è impossibile). Ritengo, in più, che la capacità di applicazione allo studio sia differente da uomo a uomo, o, ribaltando Cartesio ed estendendo il discorso ad una dimensione ben più generale, che la ragione non sia dote comune a tutti. Per essere concreti, non si spiegherebbero altrimenti taluni fatti di cronaca che sono comprensibili solo perché sinonimi della stupidità umana. Inoltre, penso che la propensione alla conoscenza sia un talento innato, come il canto. Certo, ogni uomo può cantare, ma ci sarà chi vi riuscirà con facilità, e chi sarà stonato, o costretto ad un’applicazione faticosa. In altre parole, ritengo che esista una naturale vocazione anche per gli studi, che è anch’essa settoriale: un professore di storia potrà essere portato per la sua materia, ma del tutto negato nella matematica. E non è un esempio che faccio a caso, dato che ha contorni autobiografici, seppure io sia ancora un apprendista.
Nella storia, poi, alla cultura (ribadisco che, ma sarà l’ultima volta perché ormai credo sia chiaro, intendo sempre l’acquisizione metodica di conoscenze, di un qualsiasi argomento) non si è unilateralmente dato il valore di ideale massimo. Alla colta Atene del V secolo si alternava l’altrettanto mitizzata Sparta, del tutto indifferente (se non qualche sparuto caso) alla cultura letteraria, filosofica, o scientifica, tutta concentrata in un ideale militare che sovrastava del tutto ogni altra pretesa di conoscenza. Gli Spartiati, i cittadini per eccellenza della polis peloponnesiaca, erano dei guerrieri, degli opliti, orgogliosi e patriottici, cresciuti nell’ideale dell’eunomia (buon governo), ma con una scarsa istruzione sia umanistica sia scientifica. Sin da piccoli, erano educati al combattimento, attraverso lo spietato sistema dell’agoghé, che li teneva impegnati per gran parte della vita.
Una volta però specificato che la voglia, la possibilità e la capacità di acquisire cultura non è una prerogativa umana, ma una caratteristica singola, una sfaccettatura del carattere, influenzata da svariate situazioni, in primis sociali, esiste una seconda dimensione, ch’è quella della possibilità materiale di ottenere le informazioni. L’avvento della società informatizzata, con tendenze globalizzanti e la diffusione d’internet, ha permesso all’homo studiens di risolvere questo problema, che ha afflitto generazioni di acculturati del passato. La cultura, per i motivi detti, rimane quindi un bene di lusso, ma di più facile accesso. La diffusione delle biblioteche e delle conoscenze via internet ha esteso la possibilità di sapere ciò che già non si sa, ha dato gli strumenti per una virtuale conoscenza di ciascun argomento.
Oggi, nella realtà di un (più o meno) benestante occidentale, s’è passati ad un sovrannumero di materiale, che rende il lavoro dell’intellettuale certamente più complesso, ma, ritengo, anche più piacevole.
L’operazione della scrematura delle informazioni ridondanti o del tutto inutili, è molto più soddisfacente del riconoscimento di un’incolmabile ignoranza, insanabile per mancanza dei mezzi, e non per l’incapacità d’apprendere.
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venerdì 23 gennaio 2009
Riassunto del riassunto di una vita riassunta
Sono ormai passati ventidue giorni di questo 2009: di per sé non sembrano molti, ma effettivamente la percezione del tempo non dà mai la mano alla matematica. Non che sia cambiato molto. La mia carriera universitaria inizia a darmi qualche soddisfazione, con un duplice 30, e sei crediti di storia greca che si aggiungono ad un curriculum dal futuro incerto. Ulteriori bacilli si sono trasformati in un ennesimo sunto d'influenza, o para-influenza che sia. Ho ripreso a frequentare amici che avevo abbandonato, ho continuato con istintiva ossessione ad amare, e ad avere bisogno dell'amore. E'stato insomma un gennaio fotocopia di altri mesi del passato, e non credo che mi debba sorprendere. La vita di un uomo è abbastanza ripetitiva, e forse la cosa più strana è la morte stessa.
Spero di continuare a non sorprendermi.
martedì 20 gennaio 2009
Tenetemi il mantello: ch'io colpisca l'occhio di Bupalo.
Sono ambidestro; e quando picchio non sbaglio.
[Ipponate]
Sono ambidestro; e quando picchio non sbaglio.
[Ipponate]
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domenica 11 gennaio 2009
Dieci anni dopo la morte di un poeta
Prendi la tua tristezza in mano
e soffiala nel fiume
vesti di foglie il tuo dolore
e coprilo di piume.
[Faber]
e soffiala nel fiume
vesti di foglie il tuo dolore
e coprilo di piume.
[Faber]
venerdì 9 gennaio 2009
Evoluzione di una lingua (1)
Ricordo, ormai svariati anni fa, che mi sorpresi nell’apprendere che mio fratello, allora evidentemente infante, non conoscesse il significato della parola ‘rischio’.
Non saprei dire con certezza quanti anni avessi io, ma postulando che fra me e lui vi sono sei anni di età, è molto probabile che io avessi già almeno una conoscenza di base dell’italiano. Ma come trovare una definizione che rendesse appieno il concetto di ‘rischio’?
Attenzione: non si trattava d’un dubbio di qualsivoglia accezione teoretica, quella di mio fratello era una carenza semplicemente lessicale, sicché se avessi associato alla parola ‘rischio’ una definizione fantasiosa, egli non avrebbe di certo avanzato obbiezioni.
La riflessione innocente, ed il dubbio d’allora, potrebbe essere in realtà la base di argomentazioni alquanto più serie. Innanzitutto: la lingua è di per sé il riflesso di un mondo vivo, o, ancor meglio, è essa stessa un sistema in costante evoluzione, che sfugge ai codici di grammatiche e dizionari.
Facciamo un esempio del tutto inverosimile, ma che, se vi si coglie correttamente l’estremizzazione, conserva una qualche sensatezza. Qualora avessi davvero inventato un significato nuovo alla parola ‘rischio’, e mio fratello lo avesse preso per valido, mettiamo per esempio che egli, cresciuto, si fosse trovato inserito in un conglomerato sociale, utilizzando la parola ‘rischio’ con una determina accezione (appunto quella che io gli avevo insegnato), non sarebbe stato del tutto impossibile che tale valore del lessema ottenesse una sorta di generale approvazione, sia essa limitata ad un determinato sostrato. Ribadisco che l’esempio è del tutto fantasioso, se non altro perché vorrebbe attribuire a mio fratello un carisma, di cui, almeno per ora, lo trovo sprovvisto.
Eppure l’italiano è colmo di esempi di questo tipo. Pensiamo alla parola ‘squillo’: se la rivolgiamo ad un italiano del quattrocento penserà ad uno strumento musicale, un romano del secolo scorso ad una ‘donna di strada’, un teenager al suo cellulare.
Sono affascinato dai fenomeni linguistici, dalla genesi di neologismi, dal gergo e dai dialetti. Credo che me ne occuperò ancora, nel corso del blog.
Non saprei dire con certezza quanti anni avessi io, ma postulando che fra me e lui vi sono sei anni di età, è molto probabile che io avessi già almeno una conoscenza di base dell’italiano. Ma come trovare una definizione che rendesse appieno il concetto di ‘rischio’?
Attenzione: non si trattava d’un dubbio di qualsivoglia accezione teoretica, quella di mio fratello era una carenza semplicemente lessicale, sicché se avessi associato alla parola ‘rischio’ una definizione fantasiosa, egli non avrebbe di certo avanzato obbiezioni.
La riflessione innocente, ed il dubbio d’allora, potrebbe essere in realtà la base di argomentazioni alquanto più serie. Innanzitutto: la lingua è di per sé il riflesso di un mondo vivo, o, ancor meglio, è essa stessa un sistema in costante evoluzione, che sfugge ai codici di grammatiche e dizionari.
Facciamo un esempio del tutto inverosimile, ma che, se vi si coglie correttamente l’estremizzazione, conserva una qualche sensatezza. Qualora avessi davvero inventato un significato nuovo alla parola ‘rischio’, e mio fratello lo avesse preso per valido, mettiamo per esempio che egli, cresciuto, si fosse trovato inserito in un conglomerato sociale, utilizzando la parola ‘rischio’ con una determina accezione (appunto quella che io gli avevo insegnato), non sarebbe stato del tutto impossibile che tale valore del lessema ottenesse una sorta di generale approvazione, sia essa limitata ad un determinato sostrato. Ribadisco che l’esempio è del tutto fantasioso, se non altro perché vorrebbe attribuire a mio fratello un carisma, di cui, almeno per ora, lo trovo sprovvisto.
Eppure l’italiano è colmo di esempi di questo tipo. Pensiamo alla parola ‘squillo’: se la rivolgiamo ad un italiano del quattrocento penserà ad uno strumento musicale, un romano del secolo scorso ad una ‘donna di strada’, un teenager al suo cellulare.
Sono affascinato dai fenomeni linguistici, dalla genesi di neologismi, dal gergo e dai dialetti. Credo che me ne occuperò ancora, nel corso del blog.
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venerdì 2 gennaio 2009
Al via la gara della morte
"Vado, certo che vado, e se non torno tanto meglio! Vale la pena di osare sempre" [Hubert Auriol]
Partirà domani, da Buenos Aires, la Dakar. Fondata sul finire degli anni Settanta, è
probabilmente il rally più celebre del mondo, almeno per le polemiche che l'accompagnano da sempre. Si tratta di un percorso estremo, da affrontare in moto, in macchina o in camion (quest'ultimo dalla seconda edizione, del 1980).

Non si scherza: lo dimostra la tragedia di Fabrizio Meoni, plurivincitore del tracciato, che l'11 gennaio di quattro anni fa ha perso la vita proprio durante la gara. Ma non è l'unico caso di un incidente che ha coinvolto la Dakar, in trentanni di corse i morti sembra siano stati una cinquantina.
Nel 1982, Mark Thatcher, figlio della più celebre Margaret, insieme al suo co-pilota ed al suo team, rimase disperso per sei giorni, e fu ritrovato miracolosamente illeso. Lo stesso fondatore della gara, Thierry Sabine, morì nel 1986, precipitando da un elicottero mentre seguiva la gara (con lui morirono altre quattro persone). Nel 1988, a seguito di più incidenti separati, persero la vita tre partecipanti e tre indigeni. Altri episodi, ed altri morti, si ebbero nel 2003, 2005, 2006 e 2007. Nel 2008, a causa di concrete minacce terroristiche, la gara venne anullata.
E così si è arrivati all'edizione di quest'anno, che si trasferisce nel sud dell'America, abbandonando il tracciato classico che portava in Senegal. Quest'anno si correrà sulle strade di Argentina e Cile, con 14 tappe, quasi 10 mila chilometri, in un circuito che avrà partenza ed arrivo (il 17 gennaio) sempre a Buenos Aires: Parigi, partenza classica della gara, ha deciso di non rendersi più complice di una corsa che supera i limiti.
"Non si può morire tanto...", c'è chi ha dichiarato, ma intanto la Dakar coinvolge 584 partecipanti ed un impianto mediatico monumentale, risvegliando nell'uomo la voglia di osare, di superare i limiti, ed un malcelato senso di cinismo.
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giovedì 1 gennaio 2009
L'alibi di un anno nuovo
L'inizio è la parte più importante di un lavoro. [Platone]
Sicché ci siamo: è ora di dare vita ad un blog ch'è anima, ma non carne. La carne sarei io, o meglio la mia mente.
Sono esattamente cinque mesi che questo spazio, senza che nessuno se ne sia apparentemente accorto, ha iniziato a raccogliere briciole della mia vita. Briciole sparse, sconnesse, deliranti, nemmeno l'ombra di quel pane che volevo servire.
Non scriverò promesse, perché temo divengano bugie, ma chissà che con il nuovo anno non riesca a essere più puntuale nei miei interventi.
Fosse poi l'unica cosa a cui dovrei coerenza, mi sento un vulcano di entusiasmo che si spegne nella quotidianità di mille idee lasciate nel cassetto. Sono uno dei tanti sognatori, che si sveglia spesso, ma non vuole rinunciare a sognare. Ed è per questo che il mio futuro è un punto di domanda, perché fra mille incroci devo ancora scegliere la strada giusta.
Però so che è lì da qualche parte, che mi potrebbero bastare due passi o una vita in cammino, ma che prima o poi raggiungerò una vetta. Quale ancora non so.
Per ora mi basta quello che ho: la voglia di camminare, e la consapevolezza di stringere una mano che mi tiene sempre più forte. E non è poco, perché so già che quando inciamperò ci sarà chi mi farà rialzare. Non scriverò promesse, perché temo divengano bugie, ma chissà che non abbia trovato la donna che mi accompagnerà nel mio cammino, per sempre.
D'altronde sono un sognatore.
Sicché sono qui, a salutare l'arrivo di un nuovo anno, tingendomi dell'alibi che con un nove al posto dell'otto io possa trovare le forze (o le opportunità, non tutto dipende da me!) per superare lo scoglio che fa diventare vero il sogno, in questo continuo status di apprendista. O sognatore, appunto, colui che si guarda nello specchio e non vede chi è, ma ciò che potrebbe essere.
Soffro dell'impazienza di chi ama la vita, e vorrebbe vedere se ha davvero capito come si vive. Ed allora mi auguro davvero un buon anno, chiudo gli occhi, e continuo a camminare.
lunedì 29 dicembre 2008
Lefkandi
Ove serri la mischia nella piana di Dio,
non ci sarà groviglio di archi tesi
né di fionde. Sarà una lotta amara: la parola
alle spade.
[Archiloco]
non ci sarà groviglio di archi tesi
né di fionde. Sarà una lotta amara: la parola
alle spade.
[Archiloco]
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