sabato 27 agosto 2011

Un pomeriggio ad Xfactor - Le selezioni per XFactor 5

Faccio outing; seguo X-Factor dalla seconda edizione, quella che qui in Trentino era diventata una sorta di moda, vista la partecipazione dei conterranei Bastard Sons Of Dioniso (secondi classificati di quell'anno). Non lo seguo mai con attenzione, né con troppa partecipazione.. solitamente anzi sono iper-critico, e come potrei non esserlo? Sono cresciuto circondato da persone che vivono la loro vita in un garage, vivendo per la Musica e per la soddisfazione di un pubblico composto da trenta persone. Una gavetta piena di sacrifici, per poi non raccogliere, a conti fatti, nulla di ciò che avrebbero meritato. XFactor pretende di voler trovare il cosiddetto fattore X.. peccato che poi ti ritrovi in una trasmissione con personaggi costruiti, tentativi spietati di audience che si rifanno alle tipiche atmosfere dei reality (lacrime, ostentazione delle tragedie personali, e quant'altro).
Piccola osservazione. I detrattori di XFactor, io per primo, fanno forse troppo spesso l'errore di addossare proprio al programma la colpa di questo carrozzone che lo accompagna. In realtà basta un po' di onestà intellettuale per accorgersi che la furbizia di Simon Cowell è stata quella di inserirsi in un sistema pre-costruito, e di illuminare con le luci della ribalta tutto lo sporco che già c'era. 
La realtà è un'altra: la Musica è, dal punto di vista commerciale (parlare della Musica come di un commercio mi schifa, ma purtroppo in questo discorso è l'unica ottica su cui mi concentro), come un'azienda prossima alla bancarotta. I motivi si sanno: venir meno del gusto del pubblico (per un generale impoverimento culturale, che porta ad una sorta di massificazione anche dei gusti), pirateria, prezzi troppo elevati dei supporti musicali...il tutto è un paradossale enorme gatto che si mangia la coda: la musica non vende, perché la gente scarica da internet. La gente non compra, perché la musica originale costa troppo. 
I motivi di questa crisi non sono insomma una novità, altri se ne potrebbero trovare. La realtà non cambia: la crisi impedisce alle case discografiche di rischiare. Tristezza immane, chissà quanti talenti non emergono oggi proprio per questo motivo! La Musica in passato è vissuta proprio grazie a questo rischio.. la possibilità di promuovere il perfetto sconosciuto, nella speranza che divenga un grande, ed inizi anche a vendere!
Un tempo, un mancato profitto per l'insucesso di un cantante significava semplicemente un errore di valutazione. Oggi può rappresentare la condanna per una casa discografica. Infatti, ormai nel mercato musicale - come in quello editoriale - riescono a sopravvivere con una relativa tranquillità solo le major, le multinazionali del settore. E non son certo loro a puntare sul primo-arrivato.

Cosa serve quindi, oggi, per riuscire a sfondare? Una gavetta impressionante, una qualità superiore e, soprattutto, o le conoscenze giuste, o la cosiddetta - termine tecnico - botta-di-culo. Che tristezza.

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XFactor, quindi. Per molti è una scorciatoia. Per molti è un demonio. In realtà penso sia una via di mezzo fra le definizioni. È un programma che prostituisce il gusto musicale, quanto - anzi forse meno - di ciò che fanno le case discografiche e le radio. 
È un programma televisivo. Molti lo dimenticano. Come programma televisivo dovrebbe essere sia interpretato, sia giudicato. Chi pensa che XFactor uccida la Musica o è un esaltato, o è poco onesto. La musica, questa musica, in realtà è già morente da anni. 
La Musica. Vive solo nell'ombra dei vicoli, nelle sale prove impolverate di ogni città. Nei timpani sfondati da un amplificatore dal volume troppo alto. Nelle dita insanguinate di un aspirante chitarrista; nel suo sorriso per una semplice scala pentatonica a tempo di metronomo. Questa Musica non è la musica delle case discografiche, non è la musica che si vende e si compra, è la Musica della vita, non è la musica che muore, non è la musica dei media, non è la musica della tv. Non è la musica di XFactor.

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Scindiamo allora i due aspetti. XFactor non è, non può essere, né vuole essere, la sintesi di tutto. È un talent show, in cui si coltivano dei personaggi, per gettarli e farli stritolare dal mondo mediatico. Nulla che mi appartenga per gusto e condivisione. Ma, se si riesce davvero ad essere così onesti da giudicare XFactor come programma televisivo, allora lo si può criticare almeno con più coscienza di causa.

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Il Teatro S.Chiara di Trento
Ho voluto fare di più. Non mi sono tirato indietro con quel sospiro da saccente che molti gettano quando si parla di un talent show. Approfittando del fatto che quest'anno gran parte delle selezioni per i partecipanti di XFactor si tengono a Trento, la mia città, vi ho preso parte. Nel pubblico, sia chiaro..le mie doti canore non meritano di essere esibite.
Mi sono sentito un po' un pesce for d'acqua. Gran parte delle canzoni proposte non mi piacevano; i personaggi che si sono presentati mi sono sembrati a tratti stucchevoli, a tratti persino fastidiosi. Solo in un paio di casi credo di esser stato colpito favorevolmente.
Ma..ci crederete? Mi sono divertito! Beh, lo scrivo chiaramente! Smettiamola di vivere XFactor come un programma musicale; interpretiamolo come una trasmissione di disimpegno! Ecco, io ho vissuto così il mio pomeriggio al teatro S. Chiara. Come qualcosa di nuovo, per passare un pomeriggio diverso. Non sorprendetevi, e non giudicatemi male, se vedrete il mio faccione su Sky. Né se starò persino applaudendo. Tenete per voi il vostro sospiro di supponenza, e cambiate semplicemente canale. Anch'io, come immagino molti dei miei lettori, preferisco di gran lunga altro.. Preferisco un libro alla lobotomia davanti ad uno schermo. Ma, che importa! Non mi precludo nulla! Nemmeno un pomeriggio ad XFactor!

lunedì 8 agosto 2011

Piccolo "appello"

Mi son reso conto che stanno aumentando i 'mi piace'..Quelli anonimi, sotto ai miei interventi, incredibile ma vero! Non voglio esagerare con l'egocentrismo, però permettetemi di dedicarmi e dedicarvi qualche, brevissimo, pensiero.
Non m'importa molto che ciò che scrivo piaccia a qualcuno. Anzi, mi spiego meglio: mi rende felicissimo riuscire ad interessare degli amici, dei conoscenti, o persino delle persone che capitano qui per caso! Ma ancor più adoro sapere che ciò che scrivo sia, semplicemente, letto da qualcuno! 

Alla fine mi son sempre convinto che un blog auto-coltivato, come un piccolo orto dove riversare i miei pensieri, fosse l'unico obiettivo che volessi conseguire..scrivere qui di ciò che mi solletica la mente, solo per volerlo fare! Ma non prendiamoci in giro, se davvero mi accontentassi di questo, beh.. terrei un diario in un  quaderno da quattro soldi, piuttosto che scrivere il tutto online. In fondo, ho sempre sperato che venisse il giorno in cui mi rendessi conto che c'è qualcuno che legge! Perché? Uhm..a dire il vero non so.. mi piace e basta! L'animo umano ricava soddisfazione ed appagamento dalle cose più strane!

Ora, vi chiedo.. ma chi siete? chi siete voi che ogni tanto mettete 'mi piace'? Chi siete voi che leggete? Perché lo fate? Come siete capitati qua? Ci tornerete?
Perdonatemi, ma muoio di curiosità!

PS: lo scorso primo di agosto il blog ha compiuto tre anni.. gulp! gasp!

giovedì 28 luglio 2011

[REPORT] Viaggio a Londra | High Voltage Fest 2 (Judas Priest, Dream Theater, ...) [1]

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REPORT
Viaggio a Londra
High Voltage Festival
22 luglio 2011 - 27 luglio 2011

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PRIMA PARTE

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Premessa.

Questa è stata la mia seconda volta. La prima, di cui potete leggere il report qui, era quella della meraviglia. Dell'inaspettato. Della sorpresa. Questa sarebbe stata, lo sapevo, quella della consapevolezza. La conferma o la smentita di tutto. Il rischio di una delusione poteva essere fortissimo, dopo un anno in cui non ho fatto altro che coltivare la mia voglia di tornare a Londra.
La seconda volta che si fa l'amore con una città, lo si fa con uno sguardo diverso. Solitamente si riesce a penetrare quella cortina del primo approccio, si ha il tempo di sondarla più a fondo. Per una città come Londra, che ti rapisce col suo fascino e le sue contraddizioni, con il suo essere unica e così diversa al suo interno, forse anche questo ritorno non mi ha permesso di capirla del tutto. Ma è andata bene. Meravigliosamente bene.

Primo giorno. 
venerdì, 22 luglio 2011

Tutto alle spalle. Ecco l'imperativo, per me e Susi, la mia ragazza e compagna di viaggio. Via tutto, si parte. Finalmente è arrivato il giorno, basta pensare all'università, agli obblighi, a… beh, a tutto quello che non sia questo. La paura più grande dev'essere il peso di una valigia. Lo stress più forte, il volo. Nient'altro. Si può cancellare tutto di colpo? Mesi e mesi, forse proprio un anno, di pensieri, che si accalcano come una fogna nel tuo cervello? Sì, si può. È l'imperativo a cui l'uomo ha risposto con questo strano concetto che è la vacanza. Spender dei soldi, per non pensare a null'altro che a..niente! Entrare in una nuova realtà, giocare ad essere ciò che non si è. Immedesimarsi nell'utopia che tutto sia diverso. Perché tutto è diverso, anche se solo per cinque giorni.
Londra. Londra ed il 'mind the gap', Londra e gli indiani nel supermercato, Londra ed i ristoranti italiani. Londra. Quale posto migliore per nascondersi? Quale posto migliore per diventare uno dei tanti?  

Ecco i nostri pensieri mentre il nostro volo prendeva il cielo, da quello soleggiato e malodorante di Milano, fino a quello nebuloso e quasi autunnale (così sembra, dal nostro punto di vista) londinese. Il nostro albergo è in una zona abbastanza affollata, vicino alla stazione della metropolitana di Mile End. Sin da subito, a vederlo dall'esterno, ci sembra piccolissimo. Non abbiamo pagato molto, non ci possiamo lamentare che per raggiungere il cucinino che il gestore (un gentilissimo indiano) ci mostra rischiamo la vita, con degli scalini che sembrano cadere a pezzi. Nemmeno ci possiamo lamentare che la nostra stanza è davvero minuscola, quasi claustrofobica. "E' l'ultima rimasta", ci dice l'indiano. "Se volete, da domani ne potrete avere un'altra".
Ma che c'importa! In vacanza tutto è bello. A Londra tutto è bello. Anche dormire temendo che al risveglio un nostro starnuto possa far crollare l'intero albergo. Terremo questa stanza fino all'ultimo giorno, ed inizieremo anche a chiamarla 'casa'.


Secondo giorno. 
sabato, 23 luglio 2011
primo giorno di festival

High Voltage 2011 Line Up
Ogni amante della musica dovrebbe vivere l'esperienza di un festival. Non in Italia. Non lo scrivo per una forma di esterofilia, sarei così lieto che un concerto di qualità si tenesse nella nostra penisola. Sarebbe lieto anche il mio portafoglio.
Ma la verità è proprio questa: il festival vero, quello che ti rimane impresso nei ricordi più felici, non è fatto dai soli gruppi che lo compongono. È parte fondamentale, certo; ma c'è anche un contorno che è altrettanto essenziale: l'organizzazione, si potrebbe dire sintetizzando. 
Ecco cosa rende l'High Voltage Festival così speciale. Il contorno. E la gente, ovviamente.

Arriviamo abbastanza presto al Victoria Park, sede del concerto. C'è già una lunga fila di persone; ma, raccattati i braccialetti che ci avrebbero permesso di entrare al concerto, non tardiamo ad essere finalmente all'ingresso del festival. Qualche problema tecnologico, con uno scanner che non riesce a leggere il codice a barre del nostro braccialetto, ci rallenta ulteriormente. Ma che ci importa! A Londra tutto è bello, e stanno per accendersi gli amplificatori, le chitarre stanno per urlare, i nostri pugni si leveranno presto al cielo.

domenica 17 luglio 2011

[REC] Philip Roth, Il Seno

Sconvolgente. Credo che molta critica etichetti così ogni libro di Philip Roth. D'altronde il puritanesimo da Indice dei Libri Proibiti ha messo le radici nel pensiero comune, e scrivere di sesso è comunque la prova sufficiente per anatemizzare uno scrittore. Non pare un caso che, ad oggi, uno dei più grandi scrittori viventi non sia stato insignito del premio Nobel. Uno dei più grandi scrittori? Sì. Perché la verità è proprio questa, la stessa per cui mi sono battuto nelle altre mie recensioni ai libri di Roth: l'americano potrebbe persino parlare delle sue defecazioni mattutine, e lo farebbe comunque in un tessuto narrativo d'incantevole qualità.
Ma, per questo
Il Seno, devo ammettere che il termine 'sconvolgente' calza a pennello. D'altronde di per sé 'sconvolgente' è una vox media: sconvolgente è un efferato omicidio, ma sconvolgente è anche la più grande passione d'Amore. E allora: in che senso Il Seno è sconvolgente? Non pretenderete che sia una recensione, per altro umile, a dirvelo?! A volte certe sensazioni si possono vivere soltanto leggendo un libro. È il bello della lettura. È lo sconvolgente della lettura.

Ho approfittato di un'edizione economica, allegata all'interessantissimo e consigliatissimo inserto domenicale di cultura de “Il Sole 24 ore”, per acquistare finalmente questo libro. Era nella mia lista delle “letture da affrontare, prima o poi” ormai da qualche anno, da quando almeno avevo letto Il professore di desiderio e L'animale morente, altri due libri di Roth diversi fra loro, ma con in comune il protagonista, David Kepesh. A formare una sorta di trilogia (ma particolarissima), anche ne Il Seno il protagonista è appunto Kepesh.
Se il mio lavoro fosse quello di scrivere recensioni, ora potrei pure perdermi in una lunga, e forse noiosa, parentesi sulle analogie fra i tre libri. Ne verrebbe fuori probabilmente un ritratto un po' particolare del concetto di 'trilogia'. Perché, in effetti, a quanto ricordo i libri sono dei monoliti che hanno in comune soltanto un nome. Ma probabilmente sto sbagliando, l'ho scritto che non sono un recensore di professione. Non ho ripreso in mano i libri che ho già letto, ho qui davanti solo Il Seno, che fra l'altro dei tre è quello scritto prima, anche se io l'ho letto per ultimo.
Suvvia. Poche palle: penso che dei richiami reciproci fra i tre libri siano stati effettivamente pensati dall'autore (a pagina 40 della mia edizione de Il Seno si accenna di una passata avventura del protagonista con due donne in contemporanea, con finale fra il patetico ed il drammatico per una delle due; non è forse una vicenda poi approfondita nella prima parte de Il professore di desiderio? non credo di sbagliare), ma i tre libri hanno il loro centro in eventi del tutto slegati fra loro. L'animale morente, ad esempio, si inserisce perfettamente nell'ultima produzione di Roth, in cui l'autore riflette sulla vecchiaia e su quanto sia volubile la vita. E Il Seno? Beh, la sua trama è del tutto particolare. Forse è il caso di accennarla.

David Kepesh è uno stimato docente universitario di Letteratura. Fra i suoi difetti vi è l'ipocondria, è vero, ma non è il caso di drammatizzare, visto che ogni sua paura si è sempre rilevata infondata. Almeno fino a quel giorno in cui uno strano colore della pelle, lì al di sotto del pene, gli fa pensare ad un cancro. Lo fosse stato! Almeno la diagnosi, per quanto drammatica, sarebbe stata 'normale'. Ed invece, questo, per il povero Kepesh, è solo il primo stadio di una metamorfosi, che lo trasformerà, in una notte, in una gigantesca mammella di donna.

Metamorfosi, e la mente corre a Kafka. Anche lui uno scrittore ebreo, come Roth. Sicuramente di Roth è stato, attraverso i suoi libri, grande maestro. Lo sappiamo, se non sbaglio, proprio da Il professore di desiderio, dove ad un certo punto Kepesh si rifugia a Praga; l'occasione è colta al balzo da Roth, che ci regala alcune bellissime pagine critiche su Kafka (dovrei rileggerle!). E di Kafka Roth parla anche nelle Chiacchiere di Bottega, un libro in cui intervista altri colleghi scrittori, ed in cui il richiamo al Maestro è spesso presente. E non può evitare, nello stesso Il Seno, in una sorta di colpo da metateatro, di inserire il nome di Kafka. Quando il protagonista si convince d'esser diventato pazzo, credo di esserlo perché sin troppo suggestionato dalla lettura del classico kafkiano e de Il naso di Gogol'.
Ma se la rilettura, ironica, delle Metamorfosi è stato probabilmente l'input – me lo immagino!, Roth sulla poltrona di casa sua, a parlare con un vecchio studente delle Metamorfosi. «Ve lo vedete voi, il protagonista non più trasformato in scarafaggio, ma in una grossa tetta? ahah che ridere! Oh però, coff coff, l'idea è buona!» -, i temi trattati sono quelli cari già ad altra della produzione dello scrittore americano. L'ossessione per il sesso, ovviamente, la ricerca per il piacere che rifugge dai dogmi, e si tuffa in nuove perversioni. Ecco, la stessa ontologia mammellica, il divenire Seno, è di per sé una perversione. L'indagine originale e, ancora, sconvolgente di cos'è l'essere tetta! Questa meravigliosa misteriosità che è il seno femminile, tripudio estetico ed estatico si potrebbe dire, ma ancor più miracolo della natura: miracolo come è miracolosa la capacità umana di provare piacere, attraverso quel sentiero anatomico e sensoriale che si accende in climax fisici. Sensazioni che dell'uomo sono parte, ma che rifuggono dalla sua capacità di un totale discernimento. In questa selva di bellezza e mistero, Roth prova ad avventurarsi attraverso l'arma duplice di ironia e paradosso, sfonda i confini dell'immaginazione tentando di rendere verosimile persino una siffatta metamorfosi! Così l'uomo diviene Seno, ma rimane uomo, con le sue debolezze di fronte alla carne, alle prese con una realtà che va al di là della sua concezione. E le reazioni sono poi facili da immaginare; quando Kepesh supera il mero istinto, selvaggia ricerca del piacere, ecco che arrivano quelle che definisce come crisi. Prima un professore che, vedendolo, non riesce a trattenersi dal ridere; poi la sua incredulità, a cui risponde con l'improvvisa illusione di star vivendo solo un sogno. O una forma di follia, ispirata, come detto, da una sorta di suggestione data da quei maestri del parossismo che sono Kafka e Gogol'.

Ciò che è straordinario in Roth è proprio questo, il continuo giocare, il filo che scorre fra l'assurdo ed il verosimile, straordinaria indagine dell'istinto e del pensiero umano, psicologia dell'impossibile che diviene verosimile. Ecco la straordinarietà di Roth. Valicare i confini del paradosso, e riuscire a dare comunque un brivido al lettore, quando sfoglia l'ultima pagina.

Philip Roth, Il seno, Torino: Einaudi, 2005
pubblicato per la prima volta in Italia nel 1973 con il titolo La mammella
Edizione recensita: I libri del Sole 24 Ore, edizione speciale, 2011

su ibs:

sabato 2 luglio 2011

I nuovi delfini

"CHI SARA' IL NUOVO PAPA?"

Lo ammetto: a scrivere così pare di essere in un nuovo reality show. Dopo il Grande Fratello, ecco a voi il Grande Cocnclave: chiamate il numero in sovraimpressione, o inviate un sms, e potrete esprimere il vostro televoto. In regalo riceverete direttamente sul vostro cellulare la suoneria del Fratello sole, sorella luna o dell'Alleluia.
Pare una blasfemia. Eppure sappiamo che in età antica il vescovo di Roma era acclamato dal popolo, quindi di per sé l'idea del televoto avrebbe persino un fondamento storico. Fortunatamente è in realtà un parto paradossale della mia mente: l'istituzione del conclave è ancora un fondamento dell'organizzazione ecclesiastica.

Eppure: c'è un eppure. Esiste una categoria, una sottospecie, di giornalisti che sono i vaticanisti. Solitamente sono dei laici fortemente religiosi, spesse volte la versione edulcorata di quell'altra sottospecie di giornalisti che sono gli esperti dei regnanti. Questi vaticanisti sanno i fondamenti della teologia, qualcosa di storia della Chiesa, ma soprattutto sono informati su tutti i gossip che circolano nello Stato del Vaticano. Rispetto ai giornalisti che si occupano dei regnanti inglesi hanno ben meno possibilità di lucrare sulla loro fantasia: qui non abbiamo amanti palesi, non si può parlare dell'ultima scappatella dell'aspirante al trono, né rinvangare con la voce drammatica il ricordo della bella e tormentata principessa, morta in un incidente stradale. No: qui il contesto è sin troppo serio: i nostri sono allora costretti a stemperare la serietà della teologia assecondando la superstizione popolare (con enfasi su episodi che di religioso hanno poco), ricordando gli eroi del passato (in Italia van di moda San Pio e Giovanni Paolo II: due personalità senz'altro significative anche dal punto di vista storico, ma non è questa la prospettiva con cui vengono ricordati), e, appunto, interrogandosi su quel quesito sempre sospeso: 'chi sarà il nuovo papa?'.

Mi occorre una piccola parentesi. Intendiamoci: non credo che i vaticanisti siano tutti di questa staffa. Ve ne sono di seri, che attraverso il loro commento oculato permettono di comprendere appieno gli atteggiamenti delle istituzioni ecclesiastiche. Non son più gli equivalenti degli esperti dei regnanti, ma degli ottimi commentatori politici. Né vorrei che si intendessero le mie frecciatine a certi giornalisti (quelle qui non sono le prime nel blog) come un tentativo di delegittimare il giornalismo: contraddirei una delle mie aspirazioni, che è appunto quella di scrivere per un giornale. La realtà è che penso vi siano, in ogni categoria, delle personalità che, forse per lucro o forse per necessità, gettano infine discredito sulla stessa categoria a cui appartengono. 

Il punto è proprio questo. Alla domanda 'Chi sarà il nuovo papa?' un vaticanista serio dovrebbe rispondere in due modi. Primo. Il papa attuale è ancora in vita, né pare avere problemi di salute, o intenzione di dimettersi. Secondo. Ogni previsione, soprattutto ora, non è altro che mera speculazione; sappiamo come il conclave sia innanzitutto risposta di una contingenza. Touché.

Ma non sono pochi i sensazionalisti, i vaticansensazionalisti (evviva i neologismi), che proprio in questi giorni hanno invece già trovato il nome del nuovo papa. Con una strabiliante certezza, hanno detto che il successore di Ratzinger sulla cattedra di San Pietro sarà Angelo Scola. Il motivo è presto detto. Già investito della carica cardinalizia come patriarca di Venezia, nei giorni scorsi egli è stato nominato da Benedetto XVI arcivescovo di Milano, succedendo al dimissionario Dionigi Tettamanzi. Ebbene: per qualcuno questa è già un'indicazione testamentaria dell'attuale papa, che avrebbe così voluto assicurare la successione di una persona stimata, come monsignor Scola, alla Sede Apostolica. Non un'indicazione che riguarda la sola diocesi ambrosiana, quindi, ma l'intera ecumene cattolica. Quest'interpretazione tiene senz'altro conto della storica preferenza per la sede di Milano all'interno del conclave, ma ignora completamente quel punto che già indicavo come fondamentale nella storia di ogni elezione papale: la contingenza. E lo stato di salute di Benedetto XVI, ovviamente.

Strani destini quelli dei delfini. Non parlo di Flipper, ma degli eredi al trono, spesse volte indicati da un'opinione comune poi smentita dai fatti. Soprattutto oggi, nella società mediatica che è innanzitutto società dei sensazionalismi. In questi giorni è stato acclamato, a furor di partito (con un plebiscito ipocrita ed anch'esso sensazionalistico), Angelino Alfano come nuovo segretario del Partito delle Libertà. Sono stati in molti i commentatori che hanno visto proprio in Alfano il successore di Berlusconi, colui che proprio l'attuale premier avrebbe voluto indicare come erede. Ecco che si torna ai due punti fondamentali: il papa..pardon, il presidente..è ancora vivo; e la sua successione sarà figlia della contingenza. Quando accadrà. Ogni speculazione, oggi, resta sempre una speculazione. Touchè.

La mia idea è che Angelo Scola non diverrà papa, e che Angelino Alfano non sarà mai presidente del consiglio. Ma non può essere che una sensazione.

venerdì 1 luglio 2011

Picturarum adoratores


Nel 388, Agostino d’Ippona collocava i picturarum adoratores (gli adoratori delle icone) tra le categorie di cristiani più superstiziosi che illuminati. Allora il fenomeno era poco diffuso, ma stava per incontrare una certa fortuna soprattutto in Oriente. Immagini miracolose, prese come oggetti di culto, che si diffondono sempre più, sino a divenire una vera minaccia per l’ortodossia. La conseguenza, nell’VIII secolo ma ancora altre volte nella storia, sarà la tendenza opposta, l’iconoclasmo. Gli storici sanno come questa tendenza sia stata anche, in parte, una disfida strumentale; lo devo dire per non sembrare troppo sprovveduto come studente di Storia, ma l’argomento di questo mio blog - come amo saltare di palo in frasca! - è in realtà un altro.

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Torniamo ai giorni nostri, ma non usciamo dal recinto dei picturarum adoratores. Quali sono le icone d’oggi? Non mi riferisco più alla religiosità: sia un bene o un male, ormai la religione sta perdendo sempre più le sue influenze sulla cultura di tutti i giorni. Sia un bene o un male, dicevo: credo che di per sé è sia un bene sia un male. Un bene, perché sappiamo i danni sociali che una religiosità troppo impregnante, al di là persino delle concezioni evangeliche, ha fatto in passato. Un male, perché il Cattolicesimo - volenti o nolenti - portava con sé una serie di valori, che dovrebbero essere il retroterra comune di qualsiasi uomo, cattolico o ateo, ma che solo il timore di Dio riusciva davvero a diffondere. Almeno idealmente, sia chiaro, non è questo il momento di discutere quanto la pràxis si potesse discostare da un ritratto così semplicistico, come quello che sto abbozzando.
Ma torniamo al punto: chi sono allora gli adoratori di icone di oggi? Siamo noi donne ed uomini così attaccati, ancora, al culto dell’immagine. Che falsità! Che ignoranza! Siamo sempre più superstiziosi, e sempre meno illuminati. Le nuove icone sono le riviste patinate, le orde di modelli impazziti usciti dai balletti di ‘Ciao Darwin’. Ecco: ‘Ciao Darwin’; avete presenti quegli scimmioni nel pubblico, che si mettevano ad ululare durante le sfilate di intimo? Da bambino li guardavo con un certo divertimento, credevo fossero degli attori pagati per fare i deficienti. Dei clown!
Ecco l’amara scoperta: quei deficienti li sto ritrovando, ora, persino sui banchi della mia Università. Sono ancora una minorità, per fortuna, ma c’è un concetto che ancora sfugge dalla mia logica: come può una persona che ama studiare, ama la cultura, anche fino ad arrivare al punto quasi masochistico di iscriversi ad una facoltà umanistica, togliersi poi la maschera ed essere uno scimmione? Bene, c’è davvero qualcosa che non va nel circolo universitario. Credo si sia arrivati al punto in cui si premia sempre più il nozionismo, e sempre meno la cultura. L’alto flusso di studenti lo impone. Ma ecco allora che alla laurea non arriva più solo l’élite culturale del Paese, anche gli scimmioni riescono ad avere una carriera di studi apparentemente brillante. Non mi spiego altrimenti come possa essere testimone di certe discussioni da deficienti, che odo ahimè anche nei cortili della mia università.

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Agostino d’Ippona. Ciao Darwin. Università. Bene: mi rendo conto che questo mio intervento è stato sin troppo delirante, ben al di là dei miei soliti standard. Ma, sotto sotto, un senso per me lo ha. Se mai diventerò professore universitario - un sogno -, devo ricordarmi mentalmente un dogma: non sono (solo) le nozioni a far lo studente; sempre più è importante, fondamentale, in una società deviata e deviante, riuscire a fare il salto di qualità. Un universitario deve iniziare a studiare anche la cultura della vita e la cultura del pensiero. Non può essere il prodotto di uno stampino, che lo incanala in un flusso di pensieri formulati da altri. Non può essere uno schiavo delle icone. Un picturarum adorator.

Ma non pretendo di aver esaurito l’argomento con queste righe, in realtà sono solo uno sfogo.

mercoledì 29 giugno 2011

Parole, parole, parole

Oggi pomeriggio camminavo per andare in biblioteca, quando, passando vicino all’oratorio del mio paese, ho sentito provenirmi delle note a me controvoglia ben note! “BOOOMBA, A MOVIMENTO MUY SEXYYY, SENSUAAL”.. Ho dato un’occhiata al cortile, ed ho visto decine di bambini che ballavano in gruppo la canzone (“SENSUAAAAL”). In un oratorio, ribadisco. Oh come sono cambiati i tempi!

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Non vorrei fare alcun moralismo, in fondo se c’è qualsivoglia malizia la vedrebbero solo gli adulti, non i bambini (che si stavano solo divertendo). Però mi ha fatto pensare al difetto tutto italiano di giudicare le canzoni solo per l’aspetto musicale, a non far caso ai testi. Forse una canzone che inneggia alla sensualità non è proprio la più adatta per dei bambini ed un oratorio, non perché lo credo io, ma perché probabilmente, se ci facessero caso, lo crederebbero gli stessi preti che in quell’oratorio hanno dimora. Ma che importa..la canzone è allegra, e tanto basta!

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Mio padre ha letto un tempo che se gli italiani avessero compreso appieno i testi dei Beatles, avrebbero avuto un po’ meno del successo che hanno effettivamente avuto. Mi sembra un discorso un po’ banale, a dire il vero, perché forse proprio la semplicità dei loro testi è stata una delle chiavi proprio della loro presa sul pubblico. E, nella loro straordinaria capacità di variare, i Beatles sono riusciti a passare con coscienza da testi effettivamente di poco valore, come quello di “Love Me Do”, a poesie come “The Long And Winding Road” o a inni per la libertà, come “Revolution” Beh, inutile che mi perda in odi ai Beatles, non era questo il senso del mio intervento. Credo però che effettivamente se gli scarafaggi di Liverpool avessero parlato di cacciaviti e brugole, di banane e lamponi o di Amore, per l’italiano degli anni Sessanta non sarebbe cambiato nulla.
Fortuna che anche in Italia son nati i cantautori, gente come De Andrè, Dalla, De Gregori, Guccini, eccetera eccetera, che hanno provato ad insegnare anche agli italiani che la Musica può essere uno dei veicoli della Poesia. In qualche modo il concetto è passato, ed ancor oggi vediamo masse di persone che sfoggiano la citazione di De Andrè, alternata a quella di Oscar Wilde. Lo faccio anch’io. Giusto dare ai poeti la dignità dei Poeti, anche se si facevano accompagnare da una chitarra. Già i Greci non si scandalizzavano di accompagnare quella che per noi è Letteratura con la Musica.

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Ma questi sono casi illuminati; la realtà è che la maggior parte degli ascoltatori di musica ormai canta parole senza nemmeno pensare al loro significato. Fateci caso: chiedete a qualsiasi persona di cantarvi l’ultima di Lady Gaga, e saprà probabilmente - anche in modo maccheronico - esibirsi. Ma chiedetegli il senso di quello che sta cantando, e cadrà dalle nuvole. Lo stesso per l’ultima di Shakira; ed è un bene, perché se ne analizzassimo effettivamente il testo (come mi son preso la briga di fare), utilizzando termini filologici approvati dall’accademia della Crusca, potremmo definirla una puttanata. E pure se ne sta lì, nelle prime posizioni della classifica, pronta a farsi modello letterario per centinaia di ragazzine.. O tempora, o mores!

mercoledì 22 giugno 2011

Maturità

Ogni anno seguo l'uscita dei titoli dell'esame di maturità, soprattutto per quanto riguarda la prima prova, con un certo interesse. Da un lato perché i responsabili della scelta cercano sempre di stupire, discostandosi dalla prevedibilità e scovando qualche opera minore (spesso comunque di gran pregio). Dall'altra, lo ammetto, anche perché è una grande gioia vivere l'esame di maturità con distacco, come un qualcosa di lontano e di passato.
Di per sé è un discorso che sembra quasi incoerente, visto che proprio oggi ho affrontato un esame in università. Ma non ho un ricordo positivissimo delle scuole superiori, sebbene mi son reso conto che ciò che ho studiato in passato mi è servito poi molto, ed altrettanto molto mi son pentito di ciò che non ho studiato (per la tipica pigrizia adolescenziale). Credo però sinceramente che non vi sia cosa peggiore dello studio di ciò che non si ama; veramente: lo studio può essere, deve essere, un piacere, un otium, la soddisfazione di una curiosità. Quando diventa un obbligo, allora il suo senso si perde nel circolo delle tante costrizioni della vita. Ho vissuto il mio esame di maturità come il climax di questa fase della vita, in cui tutto sembra un obbligo. Certo: anche affrontare l'esame di maturità mi è servito, ma l'ho capito solo col tempo. Allora mi sembrava lo scempio burocratico di un sentimento vampiristico, in cui il peso del dover conseguire un pezzo di carta mi si incollava al collo come una zecca. Quanto avrei voluto essere libero, anche di studiare (ma per mia scelta!), senza quell'ultimo spasmo di obbligatorietà. Mi sentivo già fuori dalla scuola molto, ma molto, tempo prima di esser dichiarato “maturato”. L'esame di maturità è una selva di radici che tentano di legarti ad un passato che, ormai, è già sfumato altrove.

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Lo ammetto: questo mio commento all'esame di maturità è decisamente esistenzialistico. Forse esagerato nei termini. In effetti l'esame è in qualche modo una prova di vita, che per qualcuno scorre come il dispiego di una formalità, per qualcun altro diventa un ricordo che, più o meno, ritornerà nel corso di tutta l'esistenza (come un fantasma, un incubo). Leggete i giornali in questi giorni, e avrete il vip di turno che vi dirà la stessa cosa. Bene, lasciate che ve lo dica anch'io: l'esame è una prova, e come tale può essere affrontata in mille modi. Sta a voi.
Mi rivolgo direttamente ai maturandi. Il mio consiglio è di prenderla alla leggera, in fondo le vere prove sono altre, e l'esame può essere anche formativo. “Bella forza”, mi risponderebbero questi maturandi “è più facile a dirsi che a farsi!”. Avrebbero assolutamente ragione.

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L'esame, con il suo orribile nome di 'maturità' (uno Stato retto da immaturi ha pure il coraggio di definirmi più o meno maturo? Vergogna!), cinicamente è proprio questo. Una prova. E cos'è l'esistenza se non un insieme di prove?
Ecco che ritorna questa similitudine abusata, e a cui nemmeno io so rinunciare. Lo scoglio artificiale, burocratico, di un esame, attraverso cui le istituzioni vogliono insegnarci ad affrontare gli scogli della vita. Anche dal punto di vista pedagogico, l'esame è proprio questo; non un metro di giudizio: salvo casi particolari, sappiamo che chi è ammesso all'esame ha già aperte le porte per le università o il mondo del lavoro.

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Mi son divertito ad immaginarmi la commissione che ha scritto le tracce. Mi son figurato questi barbuti vecchiardi, riuniti intorno ad un tavolo di legno, fra libri e fogli di appunti, che si arrovellano a pensare su cosa proporre ai maturandi. Me li vedo: o tutti zitti sui loro fogli sudati, che non riescono a trovare la traccia adatta (che non sia uscita su internet, mi raccomando!), o che litigano fra loro, perché ognuno vorrebbe che il suo autore prediletto fosse oggetto dei commenti degli studenti. Fra tutti, proprio il tema letterario è quello che deve essere ponderato meglio: deve essere un tema che possa far riflettere, ma non deve essere scontato.
Mi immagino il vecchio professore di turno che, all'improvviso, si alza urlando “CE L'HOOO! UNGARETTI!!”.. e piovono i fischi degli altri professori: Ungaretti, che banalità! Foglie d'autunno, lui che s'illumina d'immenso; tutte cose già sentite, tutti i siti internet lo hanno già previsto; che poi la guerra non è neanche più di moda! Ora bisogna parlare di facebook. Dei reality show! (“Ehilà”, fa uno, “potremmo proporre un titolo su Andy Warhol!”).
“Ma no colleghi” riprende sicuro il primo tale “Proponiamo il commento alla poesia 'Lucca'!!!”. Silenzio generale. I vari professori si gettano sui loro libri. Uno finge un malore. Lucca? Niente foglie sugli alberi? E chi l'ha mai sentita?
“Colleghi, questa è una genialata! Proponiamo una poesia sull'esistenza, nell'esame di maturità!”. Silenzio, qualcuno bisbiglia. Uno urla: “l'ho trovata! È de 'L'Allegria'!”. “Sì certo, una poesia sulla vita, data all'esame di maturità, che è una prova di vita..”, riprende il primo “i sentimenti legati ad una città, che fanno da sfondo ad una riflessione più piena sul senso dell'esistenza. Fino alla morte”. I vari professori si guardano fra loro. Uno inizia ad applaudire. Un altro si accoda. In pochi minuti sembra di essere allo stadio, tutti che applaudono, qualcuno si alza. Standing ovation. Quello che aveva finto il malore si rianima. La traccia è scelta.

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Domani c'è la seconda prova. Ai miei tempi scelsero una versione di Seneca che persino alcuni latinisti faticarono a tradurre. Miei cari maturandi, se ce la fate, fregatevene altamente! Sono gli ultimi spasmi di cinismo, di un sistema che vi avrà ancora per poco. Poi va beh, lì fuori c'è la vita. E quella è tutta un'altra storia. Chiedetelo ad Ungaretti!

lunedì 13 giugno 2011

I Referendum e la sconfitta del demagogo

Tutto maggio, e questa prima porzione di giugno, ho faticato a trovare il tempo per coltivare quel mio modesto piacere che questo blog rappresenta. I motivi sono i soliti: impegni universitari, a cui si alternano alcune soddisfazioni personali.
Ma ora, seppure con degli esami molto complicati alle porte, non posso evitare di esprimere i miei pensieri su quanto sta avvenendo nel mio Paese.

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Quando ero molto giovane, ai tempi delle elementari, non capivo bene cosa fosse il Referendum. Avevo più coscienza di cosa fosse il nucleare, se non altro perché nel mio paese, ogni anno, venivano dei ragazzini bielorussi, ospitati per respirare aria pulita, e purificarsi dalle radazioni respirate dopo Černobyl’. Ebbene: l’idea che questi vispi coetanei fossero costretti a venire da noi per avere un’aria pura, che permettesse loro di vivere meglio, mi inquietava e continua ad inquietare oggi. Il nucleare per me era il male assoluto, stigmatizzato anche dalle pagine che avevo letto su Hiroshima e Nagasaki; uno dei classici, incomprensibili, parti di malvagità degli adulti. Ma, come una luce di speranza, come un lieto fine in una fiaba cupa, ecco che la spada del Bene aveva trionfato sul Male. Grazie a questo strumento strano, che gli adulti chiamavano Referendum, la paura di un disastro nucleare sembrava (almeno un poco) più lontana: ero così fiero della scritta COMUNE DENUCLEARIZZATO sotto al cartello del mio paese.

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Sono cresciuto, ma non ho cambiato la mia idea. Ho qualche coscienza in più, ora so che cos’è il Referendum, e delle centrali nucleari so anche il pericolo rappresentato non solo dalla loro esistenza, ma anche dalle scorie che producono. So che un’energia pulita, ben più efficace di quelle ora conosciute, è possibile, ma solo con un sostegno alla ricerca. Ogni grande momento di progresso nella Storia, leggasi pure ogni ‘rivoluzione industriale’, si è accompagnata ad un cambiamento della fonte di energia. Puntare oggi su una fonte vecchia e pericolosa, avrebbe favorito soltanto chi su questa fonte può lucrare. Un anacronismo, che anche una visione conscia dell'attualità - con Giappone, Germania ed altre nazioni che si avviano ad una de-nuclearizzazione sempre maggiore - può suffragare. È così deprimente che, per render legge un NO AL NUCLEARE, che dovrebbe essere fondamento della storia umana contemporanea, serva ancora un Referendum. È così esaltante che ancora una volta, come a fine anni Ottanta, il popolo italiano si ritrovi, per una volta, UNITO. In un NO AL NUCLEARE, enorme come il quorum fieramente raggiunto.

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Ma sarebbe stupido commentare un Referendum dimenticando che, appena due settimane fa, ci sono state altre elezioni, che hanno visto una sconfitta generalizzata dei candidati del centro-destra. L'attuale maggioranza parlamentare ha fatto i conti con un'altra maggioranza, quella fatta non di poltroncine romane e sterili polemiche in salotti televisivi, ma di persone che, unite, hanno urlato la loro stanchezza. Il governo, che si arrocca su quelle stesse poltrone, aggrappandosi agli specchi con unghie di mani e piedi, attraverso questi Referendum ha ancora prova di quanto il popolo italiano sia stanco. Berlusconi, ormai privo di ogni contatto con la realtà, aveva chiesto di NON votare. Gli italiani hanno votato. Anche contro quel suo scudo, così personalmente voluto (e che tanto tempo ha rubato agli affari di governo), che gli permetteva di proteggersi con la scusa del legittimo impedimento.
Sarebbe sbagliato leggere il Referendum di questi giorni come un Referendum PRO o CONTRO Berlusconi. Ma trovo pienamente sensato scrivere che Berlusconi, a distanza di poche settimane, ha avuto prova della disaffezione anche dei suoi stessi elettori. È la morte della sua arma più forte, un ribaltamento della demagogia, la sconfitta del suo carisma. Berlusconi è sconfitto, Berlusconi è finito. Anche se cercherà di legarsi al suo ruolo per tutti gli anni che è possibile, ormai è solo l'ultima scoria del passato. E noi siamo quasi come quei bambini bielorussi, abbiamo così tanto bisogno, finalmente, di aria pulita.

venerdì 29 aprile 2011

Royal Wedding

Esattamente una settimana fa, una giornalista mi chiese cosa ne pensavo del matrimonio reale (quello fra William e Kate), e quanto ne fossi informato. Parafrasando, le dissi che non me ne poteva fregare di meno. Secondo la mia proverbiale coerenza, ad oggi - che è arrivato il grande giorno - ho cambiato idea. Non del tutto, ma in parte.

Il punto è questo. Ho pensato alla citazione di Sciascia che fa Paolo Prodi, in uno dei primi libri* che ho studiato nella mia carriera universitaria: "La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?" (L. SCIASCIA, Il Consiglio d'Egitto). Ecco il punto: volenti o nolenti, la Storia la fanno perlopiù personalità d'élite: anche le grandi rivoluzioni, in realtà sono state perlopiù o alla mercé di pochi illuminati, o guidate da essi. Certo ci sono state eccezioni che un discorso così generico non può considerare (non ultimi i recenti tumulti nel nord Africa), ma la Storia - quella evenemenziale - è fatta da re, principi e nobili. Più tardi da borghesi.

Naturalmente con la crisi dell'assolutismo e l'avvento di illuminismo, liberalismo e delle democrazie, l'importanza delle monarchie è mutato: anche e soprattutto in Inghilterra (che tanto ha lottato per il suo parlamento), ormai la monarchia ha un ruolo a metà strada fra la rappresentanza ed il simbolismo (ancora il discorso andrebbe approfondito). Ma è comunque un ruolo eminente, che si eleva dal contesto delle masse di noi miseri mortales. Anche nolenti, un giorno il nome di William del Galles entrerà nei libri di storia. E se riuscirà a divenire regina (ne dubito), anche quello di Kate Middleton. Ecco perché il matrimonio di oggi non è un mero evento di gossip.

Ma, d'altra parte, i media - soprattutto italiani - si sono ormai specializzati nell'analizzare gli eventi mai con una prospettiva che potrebbe essere istruttiva e seria. Giusta la diretta televisiva del matrimonio, io credo, ma assurda quella ricerca ossessiva del faceto, che trasforma un evento dall'indubbia rilevanza politica e storica in una parata da casa delle bambole. Ecco perché, dal web, si innalza l'urlo di chi non può nemmeno più sentir parlare di nozze reali: perché, ancora, il matrimonio diviene lo strumento di una lobotomia mediatica. Potrebbe essere l'occasione per un approfondimento sulla storia inglese, diviene una lotta per la ricerca della retorica sdolcinata e del dettaglio inutile. Di che colore sarà il cappello della regina Elisabetta? Per Dio, chi se ne frega!

Ora, io mi pongo in una via di mezzo. Seguirò, anzi sto seguendo, la diretta del matrimonio su SKY e sulla BBC, eviterò la diretta di Canale5 come la peste. Ammetto un po' il fascino dell'evento, non tanto per il matrimonio, ma perché ho ancora gli effetti del mio innamoramento per Londra (ed adoro vedere la partecipazione del popolo inglese, una partecipazione del tutto differente da quella mediatica italiana). Ma vi prego, non venitemi a chiedere dei vestiti e della pettinatura della sposa, perché non saprò rispondervi.


bibliografia:
* = P. PRODI, Introduzione alla Storia Moderna, Bologna: Il Mulino, 1999, p. 24