mercoledì 21 luglio 2010

Psyco


Piano piano cerco di costituire questo blog, in modo che contenga miei pensieri che possano essere di qualche interesse generale. Ci sono dei casi in cui lascio tracce di miei fatti personali, come è lo stile di gran parte di altri blog (che sono dei veri e propri diari, esibiti in pubblica piazza come esige internet). In genere, cerco però di metterci del mio in argomenti e materie che possano anche interessare altri. So benissimo che questo spazio non è ancora propriamente pubblico: per diventarlo dovrebbe avere la pubblicità che forse si meriterebbe. Per ora riceve solo le visite costanti del suo padrone, ed un sacco di stimoli che ho cercato di lanciare non sono stati ancora colti. D’altronde è ciò che mi aspettavo: perché qualcuno dovrebbe venire a leggere ciò che scrivo? No, per ora non c’è motivo.


Ci sono essenzialmente due aspetti che mi spingono comunque a continuare a credere in questo blog. Uno: per me stesso; scrivere qualsiasi cosa ha sempre avuto per me un effetto terapeutico. Inoltre, come ho già avuto occasione di scrivere altre volte, amo rileggere miei pensieri del passato, riconoscermici, vergognarmici, avere nostalgia di un altro periodo della mia esistenza. So che un giorno, magari fra anni, tornerò probabilmente a rileggere queste parole. Lo spero, quanto meno, perché significherà che sarò ancora di questo mondo.

Ma, come detto, c’è anche un secondo aspetto. Citando Calvino: “scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto”. Ecco, io ho ancora l’illusione un po’ puerile che un giorno qualcuno sarà interessato a me, tanto da voler leggere ogni mia elucubrazione. Bene, non so se quel giorno sarò ancora come adesso, spero sarò di certo migliorato; ma qui potete ancora trovare traccia di ciò che un tempo ero. Ovvero, ciò che sono adesso mentre scrivo. Spero non potrà essere usato contro il me del futuro, piuttosto a favore.

Dopo la grande parentesi in cui mi sono occupato dei Mondiali di Calcio, è quindi ora di trarre il blog verso nuove direzioni. Come forse son riuscito a far capire in altre occasioni, ciò di cui amo particolarmente scrivere sono gli argomenti culturali. Non sempre con la stessa competenza, e mai per volermi dipingere forzatamente come intellettuale. Il mondo della letteratura, della storia, della filosofia, della musica mi attirano sinceramente. Oltre a tutte queste arti e conoscenze, ce n’è però una di cui sinora non mi sono occupato. Ammetto che non è un caso: anche se mi attrae quanto gli altri argomenti, riconosco una mia maggiore ignoranza in esso. Mi riferisco alla cinematografia, arte di relativa recente fattura, ma che ormai è inscindibile dal concetto di civiltà, tanto che è oggi perfettamente riconosciuta anche nel più ristretto mondo accademico. In Europa si avverte forse più la sua giovane età, essendo la nostra una storia che trova radici addietro nei secoli. Non è forse lo stesso per gli Stati Uniti, che - se si escludono, come erroneamente si fa sempre, le popolazioni precolombiane - ha culturalmente meno di cui ricordarsi. Il cinema americano gode in patria quindi di un’importanza maggiore di quella che diamo noi al nostro, commettendo così una delle tante ingiustizie culturali di cui siamo colpevoli. Credo sia uno dei motivi per cui il livello estetico e contenutistico dei film che hanno successo commerciale in Italia si è abbassato notevolmente col tempo, seguendo una tendenza che si avvicina sempre più al gusto delle casalinghe di Voghera, e del mondo televisivo in genere. E’ un discorso complicato, sempre difficile da fare in termini generali (il cinema italiano intelligente c’è ancora, così come in passato c’era quello meno impegnato - come per altro è giusto che sia, la varietà non è mai da condannare -), anche perché ribadisco non ne ho le conoscenze adatte. 

Con questa premessa intendo così fare un mea culpa, ed inaugurare la mia seria intenzione d’approfondire l’argomento “cinema e cinematografia” (che è poi il nome del tag, come si definisce appunto l’argomento di ogni scritto di un blog). Lo faccio oggi scrivendo, con l’incompetenza di cui sopra, del film Psyco (or. Psycho, 1960, Alfred Hitchcock. Soggetto: R. Bloch, Sceneggiatura: J. Stefano). Ciò che mi ha sempre colpito di questo film, confrontato poi con certi abomini recenti (ricordo di aver visto, fra gli altri, The Eye di Gutierrez o House Of Wax di Collet-Serra), è la capacità di incollare lo spettatore allo schermo, con un sentimento di gran lunga più coinvolgente del disgusto di certe scene splatter: l’inquietudine. E’ ciò che in ambito narrativo sa fare, forse come nessun altro, Stephen King (fra tutti l’esempio migliore è quello di Misery, ed.it. Sperling&Kupfer, 1987; poi portato anche sul grande-schermo nel 1990 da Goldman e Rob Reiner, con una magistrale Kathy Bates - che ha meritato oscar e golden globe per la sua interpretazione -, ma come non citare Shining, e la versione cinematografica di Kubrick e D.Johnson, con un immenso Jack Nicholson). E’ la lezione che nel passato hanno saputo insegnare maestri come Lovecraft e Poe. La paura, ed appunto la tensione, la drammaticità e l’inquietudine, sono tutti sentimenti più o meno istintivi dell’ambito umano: sono sensazioni ancestrali che cerchiamo di dominare con l’età adulta, ma che possiamo solo celare dietro muri di consapevolezza. Invece è sempre parte di noi, più o meno a seconda del carattere, della sensibilità e dall’esperienza, ma comunque parte di noi. Risvegliarla in un contesto di finzione, come quello del film, è la migliore forma di catarsi: è il provare un’emozione forte, nella sicurezza del divano di casa, una forma diversa di quanto già i Greci amavano fare con il teatro. Non è facile svegliare certi sentimenti: Hitchcock ci riesce appieno, con la complicità di Anthony Perkins e le musiche di Bernard Herrmann (sì, gran parte del merito va a loro) e la sua capacità di regista. Psyco è un film che va visto, e rivisto ancora, per affrontare alcuni degli incubi che sono dentro di noi, e scoprirne altri che magari ignoravamo. Per tutti gli amanti del thriller e dell’horror, sia nel cinema sia nella narrativa, rimane una lezione magistrale.


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