sabato 12 novembre 2011

Berlusconi dimesso: la Storia agli occhi dei giovani

Oggi è una giornata storica. Non è mia intenzioni dare valutazioni politiche, né scrivere bugie su quello che sarà il domani. Un domani difficile, di un paese che, anche senza Berlusconi, è sull'orlo della bancarotta. Ma è indubbio che il 12 novembre del 2011 entrerà nei libri di storia.



Dicevo: non voglio dare giudizi – almeno su queste pagine – sul significato politico dell'addio di Berlusconi. Commenti, editoriali, valutazioni più o meno oggettive le leggeremo domani sui giornali, le troviamo già ora su Twitter o negli speciali di Ballarò o La7, le sentiremo per giorni nei bar e sugli autobus. Voglio solo riflettere sul significato emotivo dell'uscita di scena di un personaggio che, sul tetto d'Italia, ha vissuto per quasi diciotto anni.

Noi giovani abbiamo imparato ad avere ricordi sbiaditi della Storia italiana. Un'immagine che ci arriva dai libri e, per gli episodi recenti, dai racconti dei nostri genitori. Noi che eravamo piccoli quando Craxi veniva bersagliato di monetine fuori dall'hotel Raphael, noi che al Parlamento abbiamo sempre visto le stesse facce, alternate a qualche volto nuovo, piombato dal nulla, ma con le stesse idee dei gerarchi di governo ed opposizione. Certo, noi giovani non siamo così sconsiderati dal credere che con Berlusconi scomparirà d'improvviso la vecchia politica, quell'odioso sistema di casta che ben conosciamo. Ma, vedendo questa sera la Storia camminare su un colle di Roma, anche noi ci siamo resi conto di una fantastica verità: nulla è eterno, e tutto può cambiare. Non è la soluzione, ma un buon punto di partenza per il nostro futuro.

domenica 30 ottobre 2011

La felicità



Che cos'è la felicità? La domanda è filosofica, esistenziale, forse psicologica. La soluzione varrebbe milioni di dollari, ma, dice la saggezza popolare, «i soldi non fanno la felicità». Così almeno voleva la tradizione, poi è arrivata la luminare Terry De Nicolò, facendo capire che per alcuni il concetto non è più tanto attuale. E allora la domanda si ripresenta: davvero, cos'è la felicità? «È un bicchiere di vino, con un panino», o piuttosto la cena con caviale, escort e cocaina? Vorrei che la domanda fosse pura retorica, ma la cronaca – e le voci per strada – mi portano a pensare che nulla sia così scontato.


Ma soprattutto, la felicità esiste, o è solo un bagliore? È quell'illusione che ti rende profugo e clandestino, quel sentimento che ti porta semplicemente a “voler cambiare” la tua vita, o piuttosto il sapersi accontentare di ciò che già c'è? È l'essere ricchi, avere l'oggetto che più si desidera, o lo spogliarsi come S. Francesco?

E per parlare di felicità, quanto deve durare? Sono i quindici minuti di celebrità, quelli di Andy Warhol, o l'eterna giovinezza di Peter Pan o Dorian Gray? Già, Dorian Gray: essere felici significa essere belli, è un fatto esteriore, o, come diceva Henry Van Dyck, pura interiorità? I Greci parlavano di òlbios quando la felicità era esteriore, e di eudàimon per la felicità intima: cos'è la nostra felicità?

La felicità è un frutto. Ce lo dice l'etimologia, in Catone l'arbor felix è il fico, l'albero fruttifero. Dalla stessa etimologia deriva il feto, il frutto per eccellenza, e fecondare, che è produrre prole, quindi frutti. La felicità è allora davvero un frutto, qualcosa che cresce, qualcosa che si produce nel tempo, qualcosa che si deve coltivare, o è qualcosa di innato? O solo i bambini, che immaginiamo senza preoccupazioni, possono essere felici?

Scriveva Alda Merini«Bambino, se trovi l'aquilone della tua fantasia | legalo con l'intelligenza del cuore. | Vedrai sorgere giardini incantati | e tua madre diventerà una pianta | che ti coprirà con le sue foglie. | Fa delle tue mani due bianche colombe | che portino la pace ovunque | e l'ordine delle cose. | Ma prima di imparare a scrivere | guardati nell'acqua del sentimento.» 
Forse la felicità è, anche per noi giovani ed adulti, questo abbandonarsi alla fantasia, il lasciarsi andare alla creatività, l'inseguire un aquilone?


articolo da me scritto, ed originariamente pubblicato qui:
http://www.larotaliana.it/home/i-commenti/item/1347-felicit%C3%A0-=-fantasia%20creativit%C3%A0?.html

giovedì 20 ottobre 2011

La morte di Gheddafi

Questo blog è uno sfogo. Si presta a fraintendimenti, contiene linguaggio scurrile.
Nessuno vi obbliga a leggere. Ma prima di fraintendere, potete sempre commentare.

Berlusconi bacia la mano di Gheddafi (marzo 2010!!!)

Verrà un giorno in cui ricorderemo il nostro passato, e parleremo delle morti di Saddam Hussein, Osama Bin Laden e Mu'ammar Gheddafi. Tre uomini simbolo, tre protagonisti – per quanto diversi – della storia di Novecento e primi anni Duemila. Tre uomini che l'Occidente, in diversa maniera e più o meno sotto la luce del sole, ha appoggiato e sostenuto, salvo poi voltar loro le spalle, quando la contingenza lo chiedeva. L'Occidente, questo cavaliere oscuro che si dipinge senza macchia, che vuole esportare la democrazia nel mondo. Come se la democrazia fosse esportabile, calabile dal cielo come le bombe. Questi Bin Hussein Gheddafi, déi del male, questi bastardi dittatori, ora finalmente cadaveri, impiccati, cibo per pesci, col volto sfigurato dal sangue. Che bella la democrazia; che bell'insegnamento per i nostri figli queste mille piazze Loreto, il volto di Nemesi – come una statua con la torcia sulla skyline di Manhattan -, in una buca fra il fango di Sirte. Vendetta è fatta! Giustizia per il mondo libico, per i cittadini di Iraq. Per le famiglie che piangono sulle macerie delle Twin Towers e scorrono il dito su un atlante, che stracciano la cartina dell'Afghanistan, e la calpestano, e ci sputano sopra. Vaffanculo, la democrazia! Vaffanculo perché non ha memoria, perché festeggia la morte di Gheddafi, come fossimo tifosi allo stadio, come se Roberto Baggio non avesse sbagliato il rigore nella finale dei Mondiali del '94. Vaffanculo, io non riesco ad essere felice perché è morto Gheddafi, e sì che lo odio con tutte le viscere, e sempre l'ho odiato.. io ho ancora la nausea per la prostituzione di Roma, quando uno stato schiavo s'inchinava ad un dittatore. Ho la nausea per i bambini afghani uccisi dalle bombe d'Occidente. Ho la nausea per l'umanità, e la nostra democrazia che è schiavitù inconsapevole, di un sistema oligarchico, fatto di petrolio, bombe e puttane. Fa tutto schifo, e la morte di Gheddafi non cancellerà questo schifo.  

venerdì 14 ottobre 2011

Incollati al cielo (2009)

Forse lo avrete intuito, da questo mio blog, che mi piace scrivere. Lo faccio da quando sono piccolo, ed è sempre e solo lo sfogo di un bisogno. Provo un po' di vergogna quando qualcuno mi dice che sono bravo. Un po' per timidezza, un po' perché, davvero, non credo di essere così bravo. Forse è per questo che raramente ho condiviso qualcuno dei miei scritti. E col tempo molti li ho perduti.

Non credo sia un male. Penso anzi che molte cose che ho scritto meritassero di andare perdute. Però qualcosa è rimasto, nero su bianco. E mi sono reso conto che ho sempre avuto un difetto, che è poi il più grande difetto di quanti provino a scrivere, da dilettanti. Me lo ha fatto osservare la migliore critica di me stesso, colei che ascolto davvero, e che credo sia riuscita nell'impresa di migliorare anche il mio stile. Non credo di esser diventato bravo, non ancora. Ma almeno leggo più volentieri ciò che scrivo. Ogni tanto.

Ora ho deciso di provare a superare l'ostacolo del cassetto chiuso. Con questo mio blog, ho sempre voluto mettere in campo parte di me, render pubblico, per quanto virtuale, ciò che ho tenuto a lungo nascosto…ecco, allora, che ho deciso di ricopiare sul mio blog alcuni miei racconti del passato.

Con la precisazione di questa premessa. Li ricopierò così come sono, senza modificarli. E con tutti i difetti che hanno. Il difetto vero di cui parlavo è la retorica. L'essere prolissi, il voler per forza dimostrare di 'saper scrivere'. Il risultato è che il racconto si appesantisce, perde la sua vena narrativa, diventa quasi solo un esercizio di stile. Ogni tanto ci ricasco, forse puntualmente ci ricasco. Ma ora non scrivo più solo ed assolutamente così. Non scrivo solo per mettermi alla prova, inizio a pensare ad un ipotetico, per quanto sempre immaginato, lettore.

Ma questo mio blog vuole essere anche un occhio sul passato, e quindi va bene anche che io pubblichi qualcosa che non scriverei più. I commenti, se vorrete leggere e vorrete scrivere le vostre opinioni, mi saranno comunque davvero utili. Perché quel bisogno di scrivere..beh, non mi è mai venuto meno; anzi, forse è aumentato. E se riuscissi anche a scrivere bene, sarebbe una gran conquista.

*

Il primo racconto che pubblico è del 2008/2009. Scritto fra la fine del 2008 e del 2009, se la memoria non mi inganna. L'ho scelto per primo proprio perché è il riassunto di quanto scrivevo prima: magari, senza modestia, ha anche degli spunti interessanti.. ma sono mal sviluppati.. troppa retorica, troppo patetismo..

PS: oggi mi son svegliato alle 5, ed ho dormito 5 ore.. non escludo ci sia anche questo, nel motivo che mi ha spinto a scrivere queste cose.. puro delirio da mancanza di sonno.. 

*

Incollati al cielo

V'è un sospeso senso di benessere nell'astronomia, nell'osservare il cielo e sospettare che le stelle riposino per il volere di qualcuno. Non so dirvi di chi, ben inteso, ma sono al loro posto, a nutrirsi del buio con la luce, perché è l'unica cosa che possono fare. Forse è per questo che odio l'estate: d'agosto talvolta vedo le stelle cadere, e non mi sembra possibile che anche loro si lascino andare. Alle stelle cadenti molti associano romanticismo, io penso alla vita, e come nulla vi sia di sicuro: nemmeno loro stanno incollate al cielo, lasciano di peso la natia casa quando sfumano nel vuoto, urlano un'ultima scia di speranza, ma si gettano infine nel buio.

Riposo l'anima fra i sussulti della mia terra, seduto al bordo d'un fiume. In mano stringo l'Antologia di Spoon River, ben chiusa, quasi a temere che i personaggi possano avvertire il freddo. Non del vento, ma del mio respiro, il tremare d'un uomo che ha paura. A volte vorrei correi, tuffarmi nel fiume, lasciando che la corrente mi trascini quasi fossi una stella cedente. L'ultima scia di luce d'uno sconfitto. Abbandonare così ogni emozione, imporre il silenzio alle grida del cervello, e nascondere le lacrime nel gelo dell'acqua fino al comparire del buio.

Ma poi arriva Alice, benedetta visione, il suo volto si dipinge nel greto dove si specchiano i miei occhi. Mi sembra di vedere i capelli dorati mescolarsi alla luna riflessa, la pelle bianca dove dormono le trote, persino i grilli mi ricordano la sua voce. Allora il senso di tutto mi diventa così chiaro, siamo nati per amare, e se siamo come stelle, è l'amore che ci lega al cielo delle nostre vite.

Alice è la mia figlia di sei anni, così fragile al mondo ma già così grande. A settembre andrà a scuola, si staccherà dal cuscino di seta che le abbiamo creato ed inizierà a scoprire com'è il mondo. Da bruco sarà farfalla, da fiocco diverrà neve, ancor prima che me ne accorga avrà un cuore spezzato. Sarà così bella la prima volta che piangerà. Da grande ad ogni passo sospireranno i salici e s'innamoreranno i cavalieri; ma nemmeno la sua purezza potrà sconfiggere le ingiustizie ed i peccati. Verrà il giorno in cui sederà su quest'erba ad inseguire l'eco degli stessi miei pensieri; mi strapperei il cuore per fermare il tempo ed evitarle ogni dolore.

Ma che può fare un uomo, quando i suoi sogni vanno oltre l'essenza stessa della vita? Non può che alzarsi e fingere che tutto vada per il verso giusto, ed arrivare a credere che in fondo sognare è soltanto una perdita di tempo.

La notte talvolta sembra urlare il suo silenzio, il vuoto cancellare i contorni delle case. I buoni posano le loro menti nei labirinti di Morfeo, mentre i corpi stanchi si svuotano dei pesi fra le pieghe delle lenzuola. I cattivi escono dalle tane, prendono il volo si solchi dell'asfalto, aprono l'inferno e lo fanno assaggiare ai mortali. C'è chi crede che il male si nutra di tenebra, rifugga il sole come fosse un vampiro. In realtà all'alba tinge il suo volto, si nasconde fra giacche e cravatte, desideri infranti e banconote d'avidità. Mi sono innamorato di pesche al cianuro, ho riassunto la mia anima in illusioni giovanili, ho inseguito la bellezza finché ho capito che non si può raggiungere. Il domani è un ostacolo troppo grande, prima della vita c'è sempre la necessità, prima del profumo occorre trovare l'ossigeno per respirare. Così ho sacrificato i miei idoli su un altare di compromessi, ho accoltellato le nuvole e baciato capre e serpenti. Mi son fatto schiavo di ciò che odiavo, ho spinto la mia mente oltre l'innocenza, sono cresciuto diverso. Credevo d'aver perso la possibilità di sorridere, e talvolta lo penso ancora.

Ma le mie gambe seguono il profilo della strada, spalancano la porta di casa, trovano l'ancora della mia salvezza. È notte, Alice dorme nel suo mondo d'incanto, non sa quali sono i miei pensieri, prego Dio che non li scoprirà mai. I capelli le incorniciano il volto, gli occhi chiusi si muovono appena, dipingono chissà quali dolcezze.

Ad un tratto sembra sorridere, inseguo quel sospiro come se fosse l'unica cosa che ho. Istintivamente le accarezzo il volto, il movimento la fa svegliare. Mi guarda, sembra frastornata.

«Papà», mormora con un filo di voce.

Le suggerisco di tornare a dormire, ma è già assopita. Soffoco le lacrime negli occhi, mi sdraio sul pavimento freddo, accanto al suo letto.

Papà.

Quella parola sembra riecheggiare al di sopra di ogni pensiero, mi rendo conto che non ho bisogno di altro, sento il cuore prendere il volo, e la mia mente inseguirlo.

giovedì 13 ottobre 2011

[REC] Philip Roth, Nemesi

[questa recensione non contiene spoilers]

I Greci parlerebbero di Τύχη (Tyche). Noi, a seconda della nostra cultura e del nostro credo, parliamo di caso, di destino, di Fortuna. O di Dio. Ma esiste un momento, prima o poi, in cui tutti ci chiediamo «perché io?», o «perché non io?». Perché io, ora, son qui a leggere una recensione di un libro, scritta da un idiota qualunque, mentre qualcun altro al mondo sta morendo di fame? Perché io ho un tetto sulla testa, e ci sono bambini che mai vedranno il domani? Perché io…?
A questa domanda, quasi ontologica, la religione ha dato una risposta. “Mistero della fede”, la volontà imperscrutabile di un essere superiore (quale sia il suo nome), a cui ci possiamo avvicinare, ma mai comprendere del tutto. Perché la fede dev'essere cieca, e mai si deve dubitare di un disegno così immenso.
Philip Roth non può accontentarsi. Il personaggio del suo ultimo libro (Nemesi [2010]), Bucky Cantor, nemmeno. Bucky non è ateo, crede davvero nell'esistenza di Dio, ma se accetta la sua presenza, allora.. ancor peggio! Come può Dio essere così malvagio? Mr. Cantor finirà con l'odiare Dio, con l'incolparlo di quel caso, quasi fosse la rivisitazione della dea Fortuna, che ha voluto, per sua sola volontà, girarsi più in là.

Siamo nell'estate, la caldissima estate del 1944. In Europa si sta combattendo la Seconda Guerra Mondiale, ed i soldati americani si devono dividere fra il Vecchio Continente e l'Oriente, il Giappone di Pearl Harbor. Bucky Cantor è un istruttore ventitreenne: durante l'anno scolastico insegna educazione fisica nella scuola di Newark, nel New Jersey; in estate è l'animatore di un campo giochi della città. È sportivo, atletico, lo si direbbe un perfetto soldato: ma a differenza dei suoi più cari amici, Jake e Dave, non è partito per il fronte. Non arruolabile, per colpa della sua vista, è rimasto a Newark, ignorando che, anche nella sicura America, avrebbe dovuto combattere una guerra.
Poliomelite, semplicemente “polio” nel gergo. Per l'ebreo Bucky Cantor il vero nemico, nel 1944, non ha più una svastica sul braccio: è un morbo invisibile, inspiegabile, che contagia ed uccide. Soprattutto i bambini. La poliomelite inizia con sintomi che fanno pensare ad una semplice influenza: brividi, febbre, una forte emicrania. Ma poi evolve, colpisce i muscoli, deforma le persone colpite, le rende storpie. Colpisce le vie respiratorie, sicché gli ammalati possono respirare solo attraverso un polmone d'acciaio. Chi guarisce, rimarrà storpio. Molti, soprattutto bambini, non sopravvivono.
Ed è proprio quando i ragazzi del campo giochi di Mr. Cantor iniziano morire, che inizia la sua tragedia personale. Quel senso di impotenza, ma quella voglia di restare comunque a Newark, quasi per lui fosse un nuovo sbarco in Normandia.
Ma poi c'è Marcia. La ragazza che ama; la figlia del dottor Steinberg, che tanta sicurezza dà a Bucky, anche nell'incubo dell'epidemia. Quando Marcia proporrà a Bucky di raggiungerla ad Indian Hill, dove lei già è animatrice di un campo estivo, e dove la malattia non è arrivata, per lui inizierà il vero tormento. Cosa fare? Fuggire da Newark e dalla polio, o restare a combattere, con i suoi ragazzi, con l'amata nonna, piangendo i morti e sorreggendo gli storpi?

Nemesi ha in sé sempre quel sottile doppio binario, tipico dell'ultima produzione di Roth. Da una parte Dio ed il destino, quel disegno che sembra scritto da qualcuno; dall'altra noi, che quel disegno muoviamo con i nostri gesti e le nostre scelte. Noi che il destino, la Fortuna, davvero ce la costruiamo da soli. In un libro che di questo ciclo fa parte a pieno titolo, Indignazione (2008), Roth metteva nero su bianco questa concezione, che sta poi alla base anche di Nemesi. «Il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati». Questo è il destino per Roth, questo è il vero Dio per Roth. Ogni nostra scelta, può essere la prima pedina del domino, che ne farà cadere un'altra, e poi un'altra ancora, ed ancora, trascinandoci verso una direzione che altrimenti mai avremmo preso. E, la maggior parte delle volte, l'effetto di una nostra scelta, per quanto meditata, rimane imprevedibile. Questo è essere uomo, questo è vivere: costruire il destino con le proprie scelte, in un modo così “terribile” e così “incomprensibile”.

Nemesi è un libro bellissimo, forse fra i più belli del Roth maturo. Una storia che ti lega alle pagine, ed un contorno che è filosofia, è insegnamento di vita, ti porta a riflessioni profonde. Il tutto con quell'arte della narrazione e della descrizione, che è il vero, immenso tesoro dell'autore americano.

PHILIP ROTH, Nemesi, Torino: Einaudi, 2011
(ed. or. © Philip Roth, 2010)
€ 19 (Einaudi SuperCoralli), 183 pagine


lunedì 10 ottobre 2011

Sotto il melo

Sono ostaggio di altri pianeti, confinato nella clessidra del tempo che scorre. E sacrifico proprio voi, miei adorati Epitaffi Viventi!
Verrà il tempo di mele più rosse, che cresceranno anche su questi rami, che non posso - né voglio - dimenticare.

Pazienza, fantasia e tempo. Soprattutto tempo. Ditemi che di tempo ne ho ancora a valanghe.. e che potrò in eterno essere il Conrad Siever del web.

Per ora, ho iniziato anche a collaborare con un Magazine online, che, se dovessi banalizzare, definirei 'locale' o 'della mia regione'.
Lo scovate qui: http://www.larotaliana.it/
e qui i miei articoli: http://www.larotaliana.it/home/le-cronache/itemlist/user/232-danieleerler.html
Nel mio piccolo, ne vado fiero.

lunedì 26 settembre 2011

[REC] Philip Roth, Everyman


Un libro non è mai solo dello scrittore; è anche – e forse persino più – di chi lo legge. Come quando eravamo bambini e nostra madre ci raccontava le fiabe. Non erano le parole ad interessarci, ma le immagini che vedevamo chiudendo gli occhi. E così evaporavamo anche noi, diventando un tutt'uno coi sogni, fino ad addormentarci. Questa dimensione del leggere (o, sì, dell'ascoltare qualcuno che legge) si sta forse perdendo sempre più. In genere, più diventiamo razionali, e più perdiamo la capacità di lasciarci avvolgere dall'istinto della fantasia. Ma, a ragion veduta, questa capacità umana non si perde mai del tutto. Leggere un libro non è mai un'esperienza passiva; si interagisce sempre col testo, lo si rende vivo nel riflesso del proprio sentimento, e nelle esperienze personali.
Naturalmente anche lo scrittore ci mette del suo, in ciò che scrive. Ci sono professionisti che hanno un ottimo gusto nel mentire, e riescono a farti credere che ciò di cui scrivono è sola finzione. Che la fantasia sia finzione. Ma no! La fantasia è solo la realtà che passa attraverso Photoshop. Più o meno evidente, c'è sempre un po' dello scrittore in ciò che scrive: sia anche solo un ricordo, sia solo il riciclo di qualcosa che ha letto, sia solo la capacità di mettere un aggettivo al posto giusto, ed al momento giusto.
E poi ci sono quei libri che sono evidenti biografie. Magari parlano d'altro, di tutt'altro. Parlano di vite inventate, come quella del protagonista in Everyman. Ma saresti sciocco nel non vederci dentro l'autore.
Philip Roth è un genio della letteratura contemporanea, credo di averlo già scritto più volte nelle mie modeste recensioni. Ma ormai è vecchio. Lo sa, uno scrittore non si può mentire. Sa che questo suo bellissimo viaggio presto finirà. Serve a poco augurarsi – oh, quanto me lo auguro! - che quella fine arrivi più tardi ancora del più tardi possibile. Arriverà. E chi ama la vita non può che rimanerne sconvolto. Il senso dietro ad Everyman è questo: l'immenso sconvolgente realismo di un uomo che assapora la caducità della sua vita. Di tutte le vite.
Forse le pagine più belle del romanzo sono quelle che vedono il protagonista, sempre alle prese con la sua cartella clinica, trovarsi cinicamente ad odiare il fratello. Quel fratello che aveva sempre amato; quel fratello che sempre gli era stato accanto anche nei momenti difficili (come forse solo la figlia Nancy era riuscita in meglio). Eppure d'improvviso si era trovato ad essere logoro d'invidia, e sì: davvero ad odiarlo. Non per i successi di Howie (eccone il nome), non per la sua ricchezza, non per la sua fortuna di viaggiare il mondo. Nulla di tutto ciò: “odiava Howie per quella dote biologica che avrebbe dovuto essere anche sua”. Eccone, fantastica nella sua semplicità, la meravigliosa descrizione della natura umana. Forse cinica. Forse spietata. Ma straordinariamente realistica. Un uomo, che potrebbe essere qualsiasi uomo (everyman), che si trova a lottare contro le malattie di un corpo caduco. E che non riesce a resistere nel detestare chi, per qualche mistero della natura, non ne sembra affetto.
Non è un libro facile, questo di Roth. Bello, davvero bello, ma non facile. Perché ti porta a fare i conti con la grande paura dell'uomo, quel precipizio dove dovrai lasciarti andare prima o poi. Ecco perché, per la prima volta credo per Roth, non ne consiglio a priori la lettura. Il mio discorso è paradossale, perché ho adorato ogni pagina di questo libro. Ma non è stato facile fare i conti con questa enorme verità, che è la nostra caducità. Lo sappiamo, lo sappiamo tutti benissimo. Ma guardare negli occhi la realtà, non è affatto facile.
Eppure è un insegnamento. Ecco allora che ritorno alla premessa di questa mia recensione: forse davvero Everyman è un libro in cui ognuno di noi si può riflettere, e che può essere vissuto in maniera differente in base al proprio carattere, o al momento in cui ci si trova a leggerlo. Per un ragazzo può essere lo stimolo per rendersi conto che nulla, mai, andrebbe sprecato. Per un ipocondriaco – un po', lo ammetto, lo sono – può essere una lettura difficile, paurosa. Per un anziano, ahimè, la razionalizzazione dei suoi sconforti e delle sue paure. Come è stato, ne sono certo, per lo scrittore.

PHILIP ROTH, Everyman, Torino: Einaudi, 2007 (ed. or © P.Roth 2006)
€10 (settembre 2011), 123 pagine.


Addio Sergio Bonelli, e grazie di tutto

Guardo la mia collezione di Dylan Dog. Quante emozioni. Chi non legge fumetti, chi non è cresciuto accompagnato dalle sensazioni che un foglio bianco riempito di china può dare, forse faticherà a capire la mia commozione. Non c'è nulla di infantile in un fumetto. Non c'è nulla di assurdo nell'essere dispiaciuti, ora.

Sergio Bonelli si è spento oggi, dopo breve malattia, ed il mondo della cultura italiana è più vuoto. Nato nel 1932, fu sceneggiatore ed editore di fumetti. Il padre Gian Luigi ideò il personaggio di Tex Willer, celebre in tutto il mondo, e Sergio fu il primo a sostituirlo alla sceneggiatura.

Diciamolo: la Sergio Bonelli Editore è stata, ed è ancora, un vanto italiano. Un vanto certo marchiato dal genio di sceneggiatori ed artisti, ma che alle spalle ha sempre avuto la protezione di un mecenate, di un uomo che – lo hanno detto in molti – è cresciuto per il fumetto, ed ha amato ciò per cui è vissuto.

Si moltiplicheranno, oggi, gli attestati di stima, i ricordi di chi lo ha conosciuto. Non sono fra loro, sia chiaro. La mia è solo la commozione di chi è stato preso per mano, e si è lasciato accompagnare nella fabbrica dei sogni (questa la definizione, mi pare giustissima, che viene data alla Sergio Bonelli Editore nel suo sito ufficiale). Ora resta il suo insegnamento, che verrà ereditato dal figlio. E restano i personaggi che ha creato, o su cui ha creduto: Tex, appunto Dylan, Martin Mystere, Zagor, Mister No, Nathan Never, Julia, Dampyr, Demian, Napoleone, Magico Vento, eccetera eccetera. Non sono pezzi di carta, sono davvero prodotti di quella fabbrica. Sono sogni.

Per chi è cresciuto con questi fumetti, Sergio Bonelli è sempre stato come un secondo padre. Pare la retorica del necrologio, e forse un po' di esagerazione mi sfugge. Parole più concrete verranno scritte domani sui giornali; le ritroveremo poi nei libri che inevitabilmente daranno a Sergio Bonelli un posto di privilegio fra i personaggi della cultura italiana. Questi pensieri non sono altro che il ricordo commosso di un sognatore. Ed un modesto ringraziamento. «Adios, y suerte», come direbbe Tex.



Questo articolo, che ho scritto io, è anche qui: http://www.larotaliana.it/rubriche/arte-e-cultura/item/1270-addio-sergio-bonelli-e-grazie-di-tutto.html



sabato 27 agosto 2011

Un pomeriggio ad Xfactor - Le selezioni per XFactor 5

Faccio outing; seguo X-Factor dalla seconda edizione, quella che qui in Trentino era diventata una sorta di moda, vista la partecipazione dei conterranei Bastard Sons Of Dioniso (secondi classificati di quell'anno). Non lo seguo mai con attenzione, né con troppa partecipazione.. solitamente anzi sono iper-critico, e come potrei non esserlo? Sono cresciuto circondato da persone che vivono la loro vita in un garage, vivendo per la Musica e per la soddisfazione di un pubblico composto da trenta persone. Una gavetta piena di sacrifici, per poi non raccogliere, a conti fatti, nulla di ciò che avrebbero meritato. XFactor pretende di voler trovare il cosiddetto fattore X.. peccato che poi ti ritrovi in una trasmissione con personaggi costruiti, tentativi spietati di audience che si rifanno alle tipiche atmosfere dei reality (lacrime, ostentazione delle tragedie personali, e quant'altro).
Piccola osservazione. I detrattori di XFactor, io per primo, fanno forse troppo spesso l'errore di addossare proprio al programma la colpa di questo carrozzone che lo accompagna. In realtà basta un po' di onestà intellettuale per accorgersi che la furbizia di Simon Cowell è stata quella di inserirsi in un sistema pre-costruito, e di illuminare con le luci della ribalta tutto lo sporco che già c'era. 
La realtà è un'altra: la Musica è, dal punto di vista commerciale (parlare della Musica come di un commercio mi schifa, ma purtroppo in questo discorso è l'unica ottica su cui mi concentro), come un'azienda prossima alla bancarotta. I motivi si sanno: venir meno del gusto del pubblico (per un generale impoverimento culturale, che porta ad una sorta di massificazione anche dei gusti), pirateria, prezzi troppo elevati dei supporti musicali...il tutto è un paradossale enorme gatto che si mangia la coda: la musica non vende, perché la gente scarica da internet. La gente non compra, perché la musica originale costa troppo. 
I motivi di questa crisi non sono insomma una novità, altri se ne potrebbero trovare. La realtà non cambia: la crisi impedisce alle case discografiche di rischiare. Tristezza immane, chissà quanti talenti non emergono oggi proprio per questo motivo! La Musica in passato è vissuta proprio grazie a questo rischio.. la possibilità di promuovere il perfetto sconosciuto, nella speranza che divenga un grande, ed inizi anche a vendere!
Un tempo, un mancato profitto per l'insucesso di un cantante significava semplicemente un errore di valutazione. Oggi può rappresentare la condanna per una casa discografica. Infatti, ormai nel mercato musicale - come in quello editoriale - riescono a sopravvivere con una relativa tranquillità solo le major, le multinazionali del settore. E non son certo loro a puntare sul primo-arrivato.

Cosa serve quindi, oggi, per riuscire a sfondare? Una gavetta impressionante, una qualità superiore e, soprattutto, o le conoscenze giuste, o la cosiddetta - termine tecnico - botta-di-culo. Che tristezza.

*

XFactor, quindi. Per molti è una scorciatoia. Per molti è un demonio. In realtà penso sia una via di mezzo fra le definizioni. È un programma che prostituisce il gusto musicale, quanto - anzi forse meno - di ciò che fanno le case discografiche e le radio. 
È un programma televisivo. Molti lo dimenticano. Come programma televisivo dovrebbe essere sia interpretato, sia giudicato. Chi pensa che XFactor uccida la Musica o è un esaltato, o è poco onesto. La musica, questa musica, in realtà è già morente da anni. 
La Musica. Vive solo nell'ombra dei vicoli, nelle sale prove impolverate di ogni città. Nei timpani sfondati da un amplificatore dal volume troppo alto. Nelle dita insanguinate di un aspirante chitarrista; nel suo sorriso per una semplice scala pentatonica a tempo di metronomo. Questa Musica non è la musica delle case discografiche, non è la musica che si vende e si compra, è la Musica della vita, non è la musica che muore, non è la musica dei media, non è la musica della tv. Non è la musica di XFactor.

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Scindiamo allora i due aspetti. XFactor non è, non può essere, né vuole essere, la sintesi di tutto. È un talent show, in cui si coltivano dei personaggi, per gettarli e farli stritolare dal mondo mediatico. Nulla che mi appartenga per gusto e condivisione. Ma, se si riesce davvero ad essere così onesti da giudicare XFactor come programma televisivo, allora lo si può criticare almeno con più coscienza di causa.

*

Il Teatro S.Chiara di Trento
Ho voluto fare di più. Non mi sono tirato indietro con quel sospiro da saccente che molti gettano quando si parla di un talent show. Approfittando del fatto che quest'anno gran parte delle selezioni per i partecipanti di XFactor si tengono a Trento, la mia città, vi ho preso parte. Nel pubblico, sia chiaro..le mie doti canore non meritano di essere esibite.
Mi sono sentito un po' un pesce for d'acqua. Gran parte delle canzoni proposte non mi piacevano; i personaggi che si sono presentati mi sono sembrati a tratti stucchevoli, a tratti persino fastidiosi. Solo in un paio di casi credo di esser stato colpito favorevolmente.
Ma..ci crederete? Mi sono divertito! Beh, lo scrivo chiaramente! Smettiamola di vivere XFactor come un programma musicale; interpretiamolo come una trasmissione di disimpegno! Ecco, io ho vissuto così il mio pomeriggio al teatro S. Chiara. Come qualcosa di nuovo, per passare un pomeriggio diverso. Non sorprendetevi, e non giudicatemi male, se vedrete il mio faccione su Sky. Né se starò persino applaudendo. Tenete per voi il vostro sospiro di supponenza, e cambiate semplicemente canale. Anch'io, come immagino molti dei miei lettori, preferisco di gran lunga altro.. Preferisco un libro alla lobotomia davanti ad uno schermo. Ma, che importa! Non mi precludo nulla! Nemmeno un pomeriggio ad XFactor!

lunedì 8 agosto 2011

Piccolo "appello"

Mi son reso conto che stanno aumentando i 'mi piace'..Quelli anonimi, sotto ai miei interventi, incredibile ma vero! Non voglio esagerare con l'egocentrismo, però permettetemi di dedicarmi e dedicarvi qualche, brevissimo, pensiero.
Non m'importa molto che ciò che scrivo piaccia a qualcuno. Anzi, mi spiego meglio: mi rende felicissimo riuscire ad interessare degli amici, dei conoscenti, o persino delle persone che capitano qui per caso! Ma ancor più adoro sapere che ciò che scrivo sia, semplicemente, letto da qualcuno! 

Alla fine mi son sempre convinto che un blog auto-coltivato, come un piccolo orto dove riversare i miei pensieri, fosse l'unico obiettivo che volessi conseguire..scrivere qui di ciò che mi solletica la mente, solo per volerlo fare! Ma non prendiamoci in giro, se davvero mi accontentassi di questo, beh.. terrei un diario in un  quaderno da quattro soldi, piuttosto che scrivere il tutto online. In fondo, ho sempre sperato che venisse il giorno in cui mi rendessi conto che c'è qualcuno che legge! Perché? Uhm..a dire il vero non so.. mi piace e basta! L'animo umano ricava soddisfazione ed appagamento dalle cose più strane!

Ora, vi chiedo.. ma chi siete? chi siete voi che ogni tanto mettete 'mi piace'? Chi siete voi che leggete? Perché lo fate? Come siete capitati qua? Ci tornerete?
Perdonatemi, ma muoio di curiosità!

PS: lo scorso primo di agosto il blog ha compiuto tre anni.. gulp! gasp!