mercoledì 23 marzo 2011

AAA Cercasi amica

Ultimamente sono molto interessato ai rapporti sociali, quelli che uno storico francese (Maurice Agulhon) ha definito genericamente come la socialité (tradotto in italiano come sociabilità). Lo sono da un punto di vista accademico, dato che sto studiando per una tesi che, da questo concetto, trae le sue radici. Ma, al di là della categoria meramente sociologica e storiografica, andando a considerare gli aspetti più istintivi e meno intellettualoidi, mi son reso conto di avere uno strano interesse per come le persone si relazionino. E' brutto a dirsi, ma è come se a volte mi trovassi a guardare le persone che mi circondano come un biologo osserva gli animali in una savana; anzi no, meglio: come un bambino allo zoo, perché il mio non è un interesse pienamente scientifico, ma solo una curiosità.

1.

Così, un paio di settimane fa, prima di una lezione in Università, ho notato questo ragazzo che parlava con una donna. Lui tutto affannato a raccontare l'elenco degli argomenti delle lezioni che aveva seguito quella mattina, lei tutta presa a fregarsene. Guardando lui, sembrava che avesse di fronte la migliore delle sue amiche. Guardando lei, sembrava che fosse importunata da uno sconosciuto. E allora cosa spingeva lui a restare lì, quasi uno zimbello del disinteresse di lei? Non poteva essere attrazione istintiva, interesse sessuale (che, soprattutto in un uomo, sappiamo come possa far perdere il contatto con la realtà), né lui me lo immagino innamorato di lei: il ragazzo sarà stato poco più che ventenne, la donna invece già sui quarant'anni. Poteva essere appunto amicizia, ma allora perché questa dicotomia di interesse? Questa palpabile e malcelata incomprensione? 

Mi son reso conto che i rapporti umani sono quasi sempre un'incomprensione. Scriveva Philip Roth:

"Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario,  camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima d'incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l'intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati."*

Qualche tempo fa, prima di leggere queste parole, mi ero convinto che quest'incomprensione fosse un errore. Che tutta l'idea di una sociabilità per forza fosse un errore. Che in realtà non me ne importasse proprio nulla di vantare una lista di conoscenze ed amicizie da esibire, perché ero stufo di dover recitare per attirare l'attenzione altrui. Anche quando ero pienamente sincero, sincero fino al più profondo midollo osseo, mi sembrava che la gente faticasse a capirmi del tutto. Perché non poteva essere con me 24 ore su 24, né aveva la mia mente, né la mia sensibilità, né poteva leggere i miei pensieri. Il risultato era che ad una serie di rapporti mutili, mi ero convinto fosse meglio una sorta di solitaria misoginia. Chiudere la porta e vivere da soli, ribadendo Philip Roth.

Da una partre ero diventato come quella donna, quella che nemmeno fingeva interesse per quell'altro animale umano che le stava di fronte. Avevo elaborato una sfiducia per le altre persone, e negli altri non trovavo nulla d'interessante. E poi, da un altro punto di vista, mi sembrava che nessuno riuscisse a capirmi (né volesse farlo). Capite il paradosso? Mi sentivo vittima di quell'incomprensione, ed intanto ero il primo a non voler capire gli altri. 

Beh, avevo un salvagente, ed anche molto buono. Avevo la mia ragazza, che poteva sempre essermi accanto, anche solo per ascoltare le mie cazzate o i miei deliri di pseudo-serietà. Per un po' di tempo pensavo persino di aver trovato la formula della felicità: sostituire il bisogno di quei rapporti che sembravano sbagliati con altri interessi, come lo studio, la musica, la chitarra. Ed un rapporto sentimentale fisso. 
Scritto così sembra il diario di un vecchio, ed un po' scherzando lo dicevo davvero di essere un vecchio. Poi avevo sempre meno energie, l'Università mi stava occupando i minuti ed i pensieri, nei weekend lavoravo. Il risultato è che nell'ottobre scorso si è sgonfiato anche il salvagente, ed ho iniziato ad affondare. Pensavo di aver imparato a nuotare, ed invece affogavo.

A bracciate mi son riportato a galla, ritrovando il salvagente, ma con la paura di annegare ancora, ho provato ad imparare a nuotare. Ora sono nella situazione in cui sto migliorando nel mio atteggiamento verso gli altri; funestato dalla paura più grande, cosmica, che tormenta ogni uomo - la paura di essere solo - sto provando a lasciare alle spalle parte della mia incapacità di capire gli altri. Accettando, allo stesso tempo, il concetto che "capire bene la gente non è vivere".  

2.

Tempo fa, un mio professore, dopo un esame orale, mi disse: "Lei scrive molto meglio di come parla". Scherzava, e citandolo ora non dico che sono un artista della parola, anche se fra queste pagine potete intuire quanto ami scrivere. La questione è un'altra: sono maledettamente timido. Non guardo mai le persone negli occhi, se mi sento al centro dell'attenzione mi trema la voce, e capita delle volte che torni a casa dicendomi 'forse avrei potuto rispondere meglio' ad una domanda che mi è stata posta. Non è una mia caratteristica cronica; in genere mi basta conoscere meglio una persona (o capire che questa persona mi accetta), per perdere gran parte di questa timidezza. In alcuni casi, con alcune persone misteriose, riesco persino ad essere a mio agio da subito: credo però si contino sulle dita di una mano (e generalmente sono sempre più timido con le persone di sesso femminile, per un'eredità che mi porto dietro dai tempi delle scuole).
Questa timidezza è un po' frustante, ma c'è persino chi la vede come un pregio. 
Ma è, soprattutto, la prima causa di un'incomprensione negativa, che gli altri tendono ad avere nei miei confronti. C'è chi crede che io sia un po' snob, invece che timido. Lo voglio scrivere qui, anche se non lo leggerà nessuno: non offendetevi per i miei silenzi, per i miei sguardi che fuggono, per la mia confusione. Sono una parte di me di cui non posso fare a meno del tutto.

3.

[AAA. Cercasi amica, con cui condividere ansie, frustrazioni, deliri, con cui scambiare caffeina e consigli.

4. 

No, questo blog non voleva essere un annuncio per la ricerca di una persona. Sarei ciò che bonariamente si definisce uno sfigato
Di per sé non mi sento ancora pienamente appagato dalla mia vita sociale. Ma ho un atteggiamento che credo un giorno mi darà soddisfazioni: inizio a diffidare sempre meno delle persone, ed aspetto quando sempre meno persone diffideranno di me. Senza la necessità di fingere, con la certezza che la solitudine si sconfigge a colpi d'incomprensione, con l'ostinatezza che la consapevolezza di essere vivi, tornando a Philip Roth, la si ritrova solo sbagliando. E l'esperienza, come scrisse Oscar Wilde, "è semplicemente il nome che gli uomini danno ai propri errori".
Se poi c'è chi vuole rispondere davvero al finto-annuncio, può sempre invitarmi a prendere un caffé.


opera citata:
*: PHILIP ROTH, Pastorale Americana, Torino: Einaudi, 1998, pagg. 40-41

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