domenica 30 ottobre 2011

La felicità



Che cos'è la felicità? La domanda è filosofica, esistenziale, forse psicologica. La soluzione varrebbe milioni di dollari, ma, dice la saggezza popolare, «i soldi non fanno la felicità». Così almeno voleva la tradizione, poi è arrivata la luminare Terry De Nicolò, facendo capire che per alcuni il concetto non è più tanto attuale. E allora la domanda si ripresenta: davvero, cos'è la felicità? «È un bicchiere di vino, con un panino», o piuttosto la cena con caviale, escort e cocaina? Vorrei che la domanda fosse pura retorica, ma la cronaca – e le voci per strada – mi portano a pensare che nulla sia così scontato.


Ma soprattutto, la felicità esiste, o è solo un bagliore? È quell'illusione che ti rende profugo e clandestino, quel sentimento che ti porta semplicemente a “voler cambiare” la tua vita, o piuttosto il sapersi accontentare di ciò che già c'è? È l'essere ricchi, avere l'oggetto che più si desidera, o lo spogliarsi come S. Francesco?

E per parlare di felicità, quanto deve durare? Sono i quindici minuti di celebrità, quelli di Andy Warhol, o l'eterna giovinezza di Peter Pan o Dorian Gray? Già, Dorian Gray: essere felici significa essere belli, è un fatto esteriore, o, come diceva Henry Van Dyck, pura interiorità? I Greci parlavano di òlbios quando la felicità era esteriore, e di eudàimon per la felicità intima: cos'è la nostra felicità?

La felicità è un frutto. Ce lo dice l'etimologia, in Catone l'arbor felix è il fico, l'albero fruttifero. Dalla stessa etimologia deriva il feto, il frutto per eccellenza, e fecondare, che è produrre prole, quindi frutti. La felicità è allora davvero un frutto, qualcosa che cresce, qualcosa che si produce nel tempo, qualcosa che si deve coltivare, o è qualcosa di innato? O solo i bambini, che immaginiamo senza preoccupazioni, possono essere felici?

Scriveva Alda Merini«Bambino, se trovi l'aquilone della tua fantasia | legalo con l'intelligenza del cuore. | Vedrai sorgere giardini incantati | e tua madre diventerà una pianta | che ti coprirà con le sue foglie. | Fa delle tue mani due bianche colombe | che portino la pace ovunque | e l'ordine delle cose. | Ma prima di imparare a scrivere | guardati nell'acqua del sentimento.» 
Forse la felicità è, anche per noi giovani ed adulti, questo abbandonarsi alla fantasia, il lasciarsi andare alla creatività, l'inseguire un aquilone?


articolo da me scritto, ed originariamente pubblicato qui:
http://www.larotaliana.it/home/i-commenti/item/1347-felicit%C3%A0-=-fantasia%20creativit%C3%A0?.html

giovedì 20 ottobre 2011

La morte di Gheddafi

Questo blog è uno sfogo. Si presta a fraintendimenti, contiene linguaggio scurrile.
Nessuno vi obbliga a leggere. Ma prima di fraintendere, potete sempre commentare.

Berlusconi bacia la mano di Gheddafi (marzo 2010!!!)

Verrà un giorno in cui ricorderemo il nostro passato, e parleremo delle morti di Saddam Hussein, Osama Bin Laden e Mu'ammar Gheddafi. Tre uomini simbolo, tre protagonisti – per quanto diversi – della storia di Novecento e primi anni Duemila. Tre uomini che l'Occidente, in diversa maniera e più o meno sotto la luce del sole, ha appoggiato e sostenuto, salvo poi voltar loro le spalle, quando la contingenza lo chiedeva. L'Occidente, questo cavaliere oscuro che si dipinge senza macchia, che vuole esportare la democrazia nel mondo. Come se la democrazia fosse esportabile, calabile dal cielo come le bombe. Questi Bin Hussein Gheddafi, déi del male, questi bastardi dittatori, ora finalmente cadaveri, impiccati, cibo per pesci, col volto sfigurato dal sangue. Che bella la democrazia; che bell'insegnamento per i nostri figli queste mille piazze Loreto, il volto di Nemesi – come una statua con la torcia sulla skyline di Manhattan -, in una buca fra il fango di Sirte. Vendetta è fatta! Giustizia per il mondo libico, per i cittadini di Iraq. Per le famiglie che piangono sulle macerie delle Twin Towers e scorrono il dito su un atlante, che stracciano la cartina dell'Afghanistan, e la calpestano, e ci sputano sopra. Vaffanculo, la democrazia! Vaffanculo perché non ha memoria, perché festeggia la morte di Gheddafi, come fossimo tifosi allo stadio, come se Roberto Baggio non avesse sbagliato il rigore nella finale dei Mondiali del '94. Vaffanculo, io non riesco ad essere felice perché è morto Gheddafi, e sì che lo odio con tutte le viscere, e sempre l'ho odiato.. io ho ancora la nausea per la prostituzione di Roma, quando uno stato schiavo s'inchinava ad un dittatore. Ho la nausea per i bambini afghani uccisi dalle bombe d'Occidente. Ho la nausea per l'umanità, e la nostra democrazia che è schiavitù inconsapevole, di un sistema oligarchico, fatto di petrolio, bombe e puttane. Fa tutto schifo, e la morte di Gheddafi non cancellerà questo schifo.  

venerdì 14 ottobre 2011

Incollati al cielo (2009)

Forse lo avrete intuito, da questo mio blog, che mi piace scrivere. Lo faccio da quando sono piccolo, ed è sempre e solo lo sfogo di un bisogno. Provo un po' di vergogna quando qualcuno mi dice che sono bravo. Un po' per timidezza, un po' perché, davvero, non credo di essere così bravo. Forse è per questo che raramente ho condiviso qualcuno dei miei scritti. E col tempo molti li ho perduti.

Non credo sia un male. Penso anzi che molte cose che ho scritto meritassero di andare perdute. Però qualcosa è rimasto, nero su bianco. E mi sono reso conto che ho sempre avuto un difetto, che è poi il più grande difetto di quanti provino a scrivere, da dilettanti. Me lo ha fatto osservare la migliore critica di me stesso, colei che ascolto davvero, e che credo sia riuscita nell'impresa di migliorare anche il mio stile. Non credo di esser diventato bravo, non ancora. Ma almeno leggo più volentieri ciò che scrivo. Ogni tanto.

Ora ho deciso di provare a superare l'ostacolo del cassetto chiuso. Con questo mio blog, ho sempre voluto mettere in campo parte di me, render pubblico, per quanto virtuale, ciò che ho tenuto a lungo nascosto…ecco, allora, che ho deciso di ricopiare sul mio blog alcuni miei racconti del passato.

Con la precisazione di questa premessa. Li ricopierò così come sono, senza modificarli. E con tutti i difetti che hanno. Il difetto vero di cui parlavo è la retorica. L'essere prolissi, il voler per forza dimostrare di 'saper scrivere'. Il risultato è che il racconto si appesantisce, perde la sua vena narrativa, diventa quasi solo un esercizio di stile. Ogni tanto ci ricasco, forse puntualmente ci ricasco. Ma ora non scrivo più solo ed assolutamente così. Non scrivo solo per mettermi alla prova, inizio a pensare ad un ipotetico, per quanto sempre immaginato, lettore.

Ma questo mio blog vuole essere anche un occhio sul passato, e quindi va bene anche che io pubblichi qualcosa che non scriverei più. I commenti, se vorrete leggere e vorrete scrivere le vostre opinioni, mi saranno comunque davvero utili. Perché quel bisogno di scrivere..beh, non mi è mai venuto meno; anzi, forse è aumentato. E se riuscissi anche a scrivere bene, sarebbe una gran conquista.

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Il primo racconto che pubblico è del 2008/2009. Scritto fra la fine del 2008 e del 2009, se la memoria non mi inganna. L'ho scelto per primo proprio perché è il riassunto di quanto scrivevo prima: magari, senza modestia, ha anche degli spunti interessanti.. ma sono mal sviluppati.. troppa retorica, troppo patetismo..

PS: oggi mi son svegliato alle 5, ed ho dormito 5 ore.. non escludo ci sia anche questo, nel motivo che mi ha spinto a scrivere queste cose.. puro delirio da mancanza di sonno.. 

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Incollati al cielo

V'è un sospeso senso di benessere nell'astronomia, nell'osservare il cielo e sospettare che le stelle riposino per il volere di qualcuno. Non so dirvi di chi, ben inteso, ma sono al loro posto, a nutrirsi del buio con la luce, perché è l'unica cosa che possono fare. Forse è per questo che odio l'estate: d'agosto talvolta vedo le stelle cadere, e non mi sembra possibile che anche loro si lascino andare. Alle stelle cadenti molti associano romanticismo, io penso alla vita, e come nulla vi sia di sicuro: nemmeno loro stanno incollate al cielo, lasciano di peso la natia casa quando sfumano nel vuoto, urlano un'ultima scia di speranza, ma si gettano infine nel buio.

Riposo l'anima fra i sussulti della mia terra, seduto al bordo d'un fiume. In mano stringo l'Antologia di Spoon River, ben chiusa, quasi a temere che i personaggi possano avvertire il freddo. Non del vento, ma del mio respiro, il tremare d'un uomo che ha paura. A volte vorrei correi, tuffarmi nel fiume, lasciando che la corrente mi trascini quasi fossi una stella cedente. L'ultima scia di luce d'uno sconfitto. Abbandonare così ogni emozione, imporre il silenzio alle grida del cervello, e nascondere le lacrime nel gelo dell'acqua fino al comparire del buio.

Ma poi arriva Alice, benedetta visione, il suo volto si dipinge nel greto dove si specchiano i miei occhi. Mi sembra di vedere i capelli dorati mescolarsi alla luna riflessa, la pelle bianca dove dormono le trote, persino i grilli mi ricordano la sua voce. Allora il senso di tutto mi diventa così chiaro, siamo nati per amare, e se siamo come stelle, è l'amore che ci lega al cielo delle nostre vite.

Alice è la mia figlia di sei anni, così fragile al mondo ma già così grande. A settembre andrà a scuola, si staccherà dal cuscino di seta che le abbiamo creato ed inizierà a scoprire com'è il mondo. Da bruco sarà farfalla, da fiocco diverrà neve, ancor prima che me ne accorga avrà un cuore spezzato. Sarà così bella la prima volta che piangerà. Da grande ad ogni passo sospireranno i salici e s'innamoreranno i cavalieri; ma nemmeno la sua purezza potrà sconfiggere le ingiustizie ed i peccati. Verrà il giorno in cui sederà su quest'erba ad inseguire l'eco degli stessi miei pensieri; mi strapperei il cuore per fermare il tempo ed evitarle ogni dolore.

Ma che può fare un uomo, quando i suoi sogni vanno oltre l'essenza stessa della vita? Non può che alzarsi e fingere che tutto vada per il verso giusto, ed arrivare a credere che in fondo sognare è soltanto una perdita di tempo.

La notte talvolta sembra urlare il suo silenzio, il vuoto cancellare i contorni delle case. I buoni posano le loro menti nei labirinti di Morfeo, mentre i corpi stanchi si svuotano dei pesi fra le pieghe delle lenzuola. I cattivi escono dalle tane, prendono il volo si solchi dell'asfalto, aprono l'inferno e lo fanno assaggiare ai mortali. C'è chi crede che il male si nutra di tenebra, rifugga il sole come fosse un vampiro. In realtà all'alba tinge il suo volto, si nasconde fra giacche e cravatte, desideri infranti e banconote d'avidità. Mi sono innamorato di pesche al cianuro, ho riassunto la mia anima in illusioni giovanili, ho inseguito la bellezza finché ho capito che non si può raggiungere. Il domani è un ostacolo troppo grande, prima della vita c'è sempre la necessità, prima del profumo occorre trovare l'ossigeno per respirare. Così ho sacrificato i miei idoli su un altare di compromessi, ho accoltellato le nuvole e baciato capre e serpenti. Mi son fatto schiavo di ciò che odiavo, ho spinto la mia mente oltre l'innocenza, sono cresciuto diverso. Credevo d'aver perso la possibilità di sorridere, e talvolta lo penso ancora.

Ma le mie gambe seguono il profilo della strada, spalancano la porta di casa, trovano l'ancora della mia salvezza. È notte, Alice dorme nel suo mondo d'incanto, non sa quali sono i miei pensieri, prego Dio che non li scoprirà mai. I capelli le incorniciano il volto, gli occhi chiusi si muovono appena, dipingono chissà quali dolcezze.

Ad un tratto sembra sorridere, inseguo quel sospiro come se fosse l'unica cosa che ho. Istintivamente le accarezzo il volto, il movimento la fa svegliare. Mi guarda, sembra frastornata.

«Papà», mormora con un filo di voce.

Le suggerisco di tornare a dormire, ma è già assopita. Soffoco le lacrime negli occhi, mi sdraio sul pavimento freddo, accanto al suo letto.

Papà.

Quella parola sembra riecheggiare al di sopra di ogni pensiero, mi rendo conto che non ho bisogno di altro, sento il cuore prendere il volo, e la mia mente inseguirlo.

giovedì 13 ottobre 2011

[REC] Philip Roth, Nemesi

[questa recensione non contiene spoilers]

I Greci parlerebbero di Τύχη (Tyche). Noi, a seconda della nostra cultura e del nostro credo, parliamo di caso, di destino, di Fortuna. O di Dio. Ma esiste un momento, prima o poi, in cui tutti ci chiediamo «perché io?», o «perché non io?». Perché io, ora, son qui a leggere una recensione di un libro, scritta da un idiota qualunque, mentre qualcun altro al mondo sta morendo di fame? Perché io ho un tetto sulla testa, e ci sono bambini che mai vedranno il domani? Perché io…?
A questa domanda, quasi ontologica, la religione ha dato una risposta. “Mistero della fede”, la volontà imperscrutabile di un essere superiore (quale sia il suo nome), a cui ci possiamo avvicinare, ma mai comprendere del tutto. Perché la fede dev'essere cieca, e mai si deve dubitare di un disegno così immenso.
Philip Roth non può accontentarsi. Il personaggio del suo ultimo libro (Nemesi [2010]), Bucky Cantor, nemmeno. Bucky non è ateo, crede davvero nell'esistenza di Dio, ma se accetta la sua presenza, allora.. ancor peggio! Come può Dio essere così malvagio? Mr. Cantor finirà con l'odiare Dio, con l'incolparlo di quel caso, quasi fosse la rivisitazione della dea Fortuna, che ha voluto, per sua sola volontà, girarsi più in là.

Siamo nell'estate, la caldissima estate del 1944. In Europa si sta combattendo la Seconda Guerra Mondiale, ed i soldati americani si devono dividere fra il Vecchio Continente e l'Oriente, il Giappone di Pearl Harbor. Bucky Cantor è un istruttore ventitreenne: durante l'anno scolastico insegna educazione fisica nella scuola di Newark, nel New Jersey; in estate è l'animatore di un campo giochi della città. È sportivo, atletico, lo si direbbe un perfetto soldato: ma a differenza dei suoi più cari amici, Jake e Dave, non è partito per il fronte. Non arruolabile, per colpa della sua vista, è rimasto a Newark, ignorando che, anche nella sicura America, avrebbe dovuto combattere una guerra.
Poliomelite, semplicemente “polio” nel gergo. Per l'ebreo Bucky Cantor il vero nemico, nel 1944, non ha più una svastica sul braccio: è un morbo invisibile, inspiegabile, che contagia ed uccide. Soprattutto i bambini. La poliomelite inizia con sintomi che fanno pensare ad una semplice influenza: brividi, febbre, una forte emicrania. Ma poi evolve, colpisce i muscoli, deforma le persone colpite, le rende storpie. Colpisce le vie respiratorie, sicché gli ammalati possono respirare solo attraverso un polmone d'acciaio. Chi guarisce, rimarrà storpio. Molti, soprattutto bambini, non sopravvivono.
Ed è proprio quando i ragazzi del campo giochi di Mr. Cantor iniziano morire, che inizia la sua tragedia personale. Quel senso di impotenza, ma quella voglia di restare comunque a Newark, quasi per lui fosse un nuovo sbarco in Normandia.
Ma poi c'è Marcia. La ragazza che ama; la figlia del dottor Steinberg, che tanta sicurezza dà a Bucky, anche nell'incubo dell'epidemia. Quando Marcia proporrà a Bucky di raggiungerla ad Indian Hill, dove lei già è animatrice di un campo estivo, e dove la malattia non è arrivata, per lui inizierà il vero tormento. Cosa fare? Fuggire da Newark e dalla polio, o restare a combattere, con i suoi ragazzi, con l'amata nonna, piangendo i morti e sorreggendo gli storpi?

Nemesi ha in sé sempre quel sottile doppio binario, tipico dell'ultima produzione di Roth. Da una parte Dio ed il destino, quel disegno che sembra scritto da qualcuno; dall'altra noi, che quel disegno muoviamo con i nostri gesti e le nostre scelte. Noi che il destino, la Fortuna, davvero ce la costruiamo da soli. In un libro che di questo ciclo fa parte a pieno titolo, Indignazione (2008), Roth metteva nero su bianco questa concezione, che sta poi alla base anche di Nemesi. «Il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati». Questo è il destino per Roth, questo è il vero Dio per Roth. Ogni nostra scelta, può essere la prima pedina del domino, che ne farà cadere un'altra, e poi un'altra ancora, ed ancora, trascinandoci verso una direzione che altrimenti mai avremmo preso. E, la maggior parte delle volte, l'effetto di una nostra scelta, per quanto meditata, rimane imprevedibile. Questo è essere uomo, questo è vivere: costruire il destino con le proprie scelte, in un modo così “terribile” e così “incomprensibile”.

Nemesi è un libro bellissimo, forse fra i più belli del Roth maturo. Una storia che ti lega alle pagine, ed un contorno che è filosofia, è insegnamento di vita, ti porta a riflessioni profonde. Il tutto con quell'arte della narrazione e della descrizione, che è il vero, immenso tesoro dell'autore americano.

PHILIP ROTH, Nemesi, Torino: Einaudi, 2011
(ed. or. © Philip Roth, 2010)
€ 19 (Einaudi SuperCoralli), 183 pagine


lunedì 10 ottobre 2011

Sotto il melo

Sono ostaggio di altri pianeti, confinato nella clessidra del tempo che scorre. E sacrifico proprio voi, miei adorati Epitaffi Viventi!
Verrà il tempo di mele più rosse, che cresceranno anche su questi rami, che non posso - né voglio - dimenticare.

Pazienza, fantasia e tempo. Soprattutto tempo. Ditemi che di tempo ne ho ancora a valanghe.. e che potrò in eterno essere il Conrad Siever del web.

Per ora, ho iniziato anche a collaborare con un Magazine online, che, se dovessi banalizzare, definirei 'locale' o 'della mia regione'.
Lo scovate qui: http://www.larotaliana.it/
e qui i miei articoli: http://www.larotaliana.it/home/le-cronache/itemlist/user/232-danieleerler.html
Nel mio piccolo, ne vado fiero.